Quando nella società contemporanea si parla di Goa, la mente non può che correre immediatamente all’omonimo genere musicale, che cominciò a diffondersi in Europa nei party psichedelici dei dorati anni ottanta. Prima di tale periodo, però, Goa era nota per essere un piccolo territorio indiano, sulla costa occidentale del sub-continente, sottoposto però da tempo immemore al dominio del Portogallo. Nel 1498, Vasco da Gama arrivò da queste parti per conto del re del Portogallo, e sbarcò a Calicut, in Kerala, stabilendo un primo contatto con le autorità dei locali stati induisti. Già pochi anni dopo, i portoghesi riuscirono ad inserirsi abilmente nelle lotte tra i litigiosi stati del sud dell’India, ed intervenendo, dietro richiesta di alcuni stati locali, contro i musulmani del Sultanato di Bijapur, ne approfittarono per prendere possesso della linea di costa di una zona chiamata Goa, che comprendeva le penisola di Mormugão, sulla quale venne fondato il primo insediamento denominato Vasco da Gama, e le zone circostanti. Il territorio di Goa divenne dunque parte integrante dell’Impero Portoghese, all’epoca in piena espansione, ottenendo il titolo di Vicereame dell’India già nel 1510, e diventando uno scalo fondamentale per i traffici lusitani verso l’interno del sub-continente, l’Indocina e l’estremo Oriente. Il vicereame, contava alle sue dipendenze non soltanto il territorio dell’enclave di Goa, ma anche le basi commerciali lungo la costa mozambicana, le isole di Timor e Flores, nell’attuale Indonesia, e la concessione cinese di Macao. Nella seconda metà del settecento, inoltre i litigi e le guerricciole tra i vari regni del Kerala e del Mysore, portarono il Portogallo ad approfittare di tali divisioni, ottenendo sempre più generose concessioni e lasciti dai locali Rajah, che permisero, nel tempo, di raddoppiare l’estensione della colonia di Goa. La situazione si mantenne stabile per tutto il settecento, con il consolidamento dell’autorità britannica nel resto dell’India, e durante la prima parte del novecento, con Goa che superava indenne, assieme al resto dell’India, i tumultuosi eventi della Seconda Guerra Mondiale. Con la fine del conflitto e l’avanzata dei movimenti di decolonizzazione in Africa ed Asia, e soprattutto con l’ottenimento dell’indipendenza dell’India dal Regno Unito, avvenuta nel 1947, anche a Goa i fermenti dei secessionisti, che chiedevano un’unione con il resto dell’India, cominciarono a dilagare. Un gran numero di indiani goensi finirono nelle patrie galere portoghesi a seguito di proselitismo ed attività anti-portoghesi all’interno del territorio di Goa. L’India, consensualmente separatasi dal Regno Unito poco prima, aveva in un primo momento riconosciuto la sovranità portoghese su Goa, ma a seguito del dilagare nel paese della destra nazionalista, già in fermento in seguito ai conflitti con il vicino Pakistan, si ritrovò nella condizione di dover mutare il suo atteggiamento verso Lisbona.
Le tensioni con l’India
Già nel Febbraio del 1950, solo tre anni dopo la sua raggiunta indipendenza nazionale, l’India cominciò a volgere il proprio interesse a quei territori, ancor non nominalmente suoi, pur essendo parte integrande del subcontinente. Tra questi, oltre all’irredento Kashmir, allo stato del Sikkim, al territorio conteso dell’Arunachal Pradesh, i territori dell’Estado da India, territorio metropolitano del Portogallo, godettero subito di grande interesse da parte delle mire nazionaliste del governo indiano. L’India richiese più volte al governo di Lisbona l’avvio di trattative per una risoluzione diplomatica dello status di Goa, in modo da garantire una transizione graduale e pacifica dalla sovranità portoghese a quella indiana, ma si scontrò con la piccata opposizione di Salazar, che fece presente che lo status di Goa non era quello di una colonia, bensì, come l’Angola ed il Mozambico, di vero e proprio territorio metropolitano portoghese, e dunque non era negoziabile alcuna transizione. Il governo portoghese obiettò inoltre che la neonata Repubblica d’India non era titolata in alcun modo a trattare con il Portogallo riguardo allo status di Goa, in quanto questa era stata acquisita dalla corona portoghese in un’epoca in cui non esisteva alcuno stato indiano unificato. Dopo tre anni di infruttuosi colloqui tra i rispettivi governi ed ambasciatori, l’India decise di procedere alla rottura delle relazioni diplomatiche con il Portogallo, ed all’inizio del Giugno 1953 ritirò il proprio ambasciatore da Lisbona. Con l’inizio dell’anno successivo, constatando il perdurare dell’atteggiamento ostile da parte dei portoghesi, l’India revocò lo status di facilitazione doganale nei confronti di Goa e delle altre enclavi di Daman, Diu, Dadra e Nagar Haveli, reintroducendo lunghi controlli doganali alle frontiere. La situazione paralizzò la colonia, mentre il sindacato indiano dei portuali, memore delle vecchie strategie non violente del Mahatma Gandhi, cominciò, supportato dal governo, a boicottare i rifornimenti ed il supporto alle navi battenti bandiera portoghese dirette a Goa o provenienti da essa. Il progressivo isolamento di Goa e delle sue altre dipendenze non fece altro che aumentare il già pesante malcontento della popolazione industana goense, che cominciò a manifestare apertamente per le strade il proprio dissenso contro la dominazione europea. Durante il degenerare di una di queste manifestazioni, nel luglio del 1954, migliaia di manifestanti nazionalisti provenienti dall’India marciarono, senza alcuna opposizione da parte delle Forze dell’Ordine indiane, sulle piccole enclavi lusitane di Dadra e Nagar Haveli. Nella notte del 22 luglio, i manifestanti attaccarono la caserma della polizia di Dadra. La risposta a fuoco delle forze dell’ordine causò la reazione degli indiani che risposero al fuoco uccidendo due agenti.
I comandanti portoghesi delle locali caserme della polizia (le due enclavi non avevano una guarnigione militare), constatando l’insuperabile superiorità numerica dei manifestanti, ancorchè male armati, preferirono evitare spargimenti di sangue, che si sarebbero risolti solamente in un loro finale linciaggio, e si arresero agli indiani senza combattere. I manifestanti nazionalisti presero dunque il controllo delle due piccole enclavi, mentre ai funzionari ed ai membri della polizia portoghese fu concesso di lasciare le due località senza alcuna ritorsione. Il Portogallo, allarmato dalla situazione, chiese all’India di autorizzare il transito di un convoglio militare attraverso il suo territorio per far affluire rinforzi militari a Dadra e Nagar Haveli, onde riprendere possesso delle due enclavi, ma il permesso fu ovviamente negato. Salazar decise allora di portare la questione dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite, la quale però si pronunciò in maniera tutto sommato ininfluente sulla situazione in campo. I giudici ONU, infatti, ratificarono semplicemente che la sovranità portoghese su Dadra e Nagar Haveli era effettiva ed unanimemente riconosciuta, ma affermarono altresì che l’India aveva tutto il diritto di negare a qualsiasi nazione terza il transito di veicoli militari sul proprio territorio sovrano. Impossibilitato dunque a riottenere la sovranità sulle due enclavi, Salazar dovette ingoiare il primo boccone amaro del lungo e sofferto processo di decolonizzazione portoghese.

Gli episodi avvenuti nelle due enclavi imposero però la necessità di aumentare la presenza militare lusitana nell’Estado da India, e già prima della fine dell’anno erano affluiti a Goa un battaglione di fanteria portoghese e due di fanteria coloniale (un battaglione angolano ed uno mozambicano), per un totale di quasi dodicimila uomini. I portoghesi potevano contare inoltre in quattro squadroni di ricognitori motorizzati, otto compagnie di fucilieri dell’Esercito e due batterie di artiglieri. A queste forze erano affiancate, temporaneamente sotto comando delle Forze Armate, i corpi civili della Polizia dell’Estado da India, della Milizia Territoriale e della Polizia Doganale. Nella rada di Mormugão venne inoltre dislocata dalla Marina la nave da guerra Afonso de Albuquerque, armata con cannoni da 120 mm ed in grado di dislocare mine per bloccare l’entrata del porto in caso di necessità.
Salazar sapeva bene che gli indiani degli anni cinquanta erano ben lontani da essere solamente una torma rissosa e nazionalista come furono nei prodromi delle ribellioni anti-britanniche. Le neocostituite Forze Armate della Repubblica d’India potevano contare su esperti generali, formatisi nelle scuole di guerra inglesi, di un corpo ufficiali preparato e reduce da una lunga esperienza militare nella seconda guerra mondiale, e infine su armamenti di buon livello, ereditati dalla vecchia nazione colonizzatrice.
Nell’estate successiva, nel giorno di Ferragosto, una manifestazione di oltre cinquemila indiani partiti dal vicino stato indiano del Karnataka, puntò su Goa con il chiaro obbiettivo di prenderne possesso come era avvenuto l’anno precedente nelle due piccole cittadine di Dadra e Nagar Haveli. Questa volta però i portoghesi non si fecero trovare impreparati. La lezione appresa l’anno prima aveva infatti costretto i portoghesi a potenziare la guarnigione di Goa, rafforzando il contingente militare ivi presente e le stesse forze di polizia coloniale. Quando i nazionalisti indiani cercarono di entrare nell’enclave, i militari portoghesi spararono ad altezza d’uomo sui manifestanti, uccidendone trenta e causando l’indignazione di gran parte dell’opinione pubblica mondiale. Fu il punto di non ritorno. Il governo indiano, comprendendo l’impossibilità di ottenere pacificamente una rinuncia portoghese al territorio di Goa, richiamò in patria anche il console indiano a Goa, chiudendo così l’ultimo contatto diplomatico ufficiale tra Nuova Delhi e Lisbona. Allarmato da un possibile intervento armato indiano, nell’autunno 1956 il governo portoghese entrò in un periodo di dissidi interni. Salazar e l’influente ambasciatore portoghese a Parigi, Marcelo Mathias, si dichiararono disposti a concedere un referendum, nel quale fosse concesso alla popolazione di Goa, Daman e Diu, di scegliere se continuare a essere territorio portoghese o se decidere di entrare nella Repubblica d’India, ma si scontrarono con l’intransigenza della destra conservatrice dell’Estado Novo, rappresentata dal Ministro della Difesa, Fernando dos Santos Costa e da quello degli Esteri, Paulo Cunha.
Salazar attivò tutti i canali diplomatici a sua disposizione, tra i quali gli storici amici del Portogallo, la Gran Bretagna ed il Brasile, con lo scopo di riprendere i colloqui con l’India e rimettere le sorti di Goa nelle mani della comunità internazionale anziché sottoporla all’impari lotta tra il grande esercito indiano e la sparuta guarnigione lusitana. Gli Stati Uniti, tramite l’ambasciatore a Nuova Delhi, John K. Galbraith, invitarono più volte il governo indiano a cercare una soluzione pacifica alla questione, ma il desiderio di non irritare un potenziale partner nella lotta anticomunista in Asia Meridionale sconsigliò agli americani (ed agli inglesi) una più efficace politica di supporto al governo portoghese, che si trovò quasi subito diplomaticamente isolato. Un altro alleato storico dell’Estado Novo, il Vaticano, mantenne un atteggiamento estremamente prudente, sia per evitare di irritare il Portogallo, uno degli ultimi stati confessionali cattolici al mondo, assieme alla Spagna franchista, sia al contempo per evitare possibili ritorsioni indiane contro le numerose missioni cattoliche nel sub-continente, che da sempre gode di molto interesse nelle mire evangelizzatrici del papato romano. La situazione rimase bloccata nei corridoi del palazzo di vetro delle Nazioni Unite per più di cinque anni, senza mai arrivare ad uno sblocco della situazione, scontrandosi con l’intransigenza nazionalista del presidente indiano Jawaharlal Nehru e con quella del dittatore portoghese Salazar. La fine del 1961 cominciò a mettere in mostra i segni sempre più evidenti di una progressiva caduta degli eventi verso le ostilità. Il 24 Novembre 1961, la nave passeggeri indiana Sabarmati, diretta al porto di Kochi, nel Kerala, durante un viaggio di routine si avvicinò agli isolotti di Anjidiv, un gruppo di scogli al largo di Goa, anch’essi parte dell’enclave lusitana. L’episodio venne immediatamente notato dai militari, che temettero un’invasione sotto mentite spoglie da parte della marina militare indiana. Le artiglierie costiere portoghesi aprirono dunque il fuoco contro l’imbarcazione, causando la morte di un passeggero ed il ferimento di un addetto alla sala macchine. La Sabarmati riuscì a mettersi in fuga, ma ora Nehru aveva finalmente il casus belli atteso da lungo tempo. L’opinione pubblica indiana cominciò a chiedere a voce sempre più forte un intervento risolutore contro i portoghesi colonialisti, ed il presidente fu ben felice di accogliere la loro richiesta. Gli Stati Uniti ed il Brasile cercarono ancora una mediazione, ma Nehru fu irremovibile, le strategie diplomatiche erano andate avanti anche troppo. Per evitare rovesci che avrebbero potuto minare la sua popolarità, Nehru ordinò, per l’invasione di Goa, l’approntamento di una forza elefantiaca, totalmente sproporzionata rispetto alle esigenze militari per il conseguimento dell’obbiettivo in questione. Furono mobilitati ben quarantacinquemila soldati indiani, incluse le note 17° Divisione di Fanteria “Gatto Nero” e la 50° Brigata Paracadutisti. La Marina Militare Indiana, mobilitò, dal canto suo, la portaerei Vikrant, due incrociatori, il cacciatorperdiniere Kirpan, ben otto fregate, e quattro dragamine. L’aviazione non volle essere da meno e mobilitò, a fronte di una totale assenza di aerei militari portoghesi, venti bombardieri tipo Canberra, sei caccia tipo Vampyre, sei caccia tipo Hunter, sei caccia-bombardieri Toofani e quattro caccia tipo Dassault Mystère. Il primo dicembre l’India cominciò le operazioni di ricognizione senza incontrare resistenza da parte del contingente portoghese. La portaerei Vikrant gettò l’ancora a 75 miglia dalla costa, mentre le fregate Beas e Betwa navigarono più volte al limite delle acque territoriali per fare il punto sulle forze portoghesi attestate lungo la linea di costa. Il nove dicembre, di fronte all’evidente incombenza delle ostilità, il governatore di Goa, il generale Manuel Vassalo e Silva, diede ordine di evacuare la popolazione portoghese di origine europea (circa settecento persone), imbarcandola sulla nave India, diretta da Lisbona alla colonia portoghese di Timor, in quel momento ferma nel porto di Mormugão. Il 10 Dicembre, interpellato dalla stampa Nehru parlò chiaramente: “Un ulteriore proseguimento della dominazione portoghese su Goa, Daman e Diu è semplicemente impossibile”, mentre il generale Vassalo e Silva confermò: “Se necessario, moriremo qui.”. Il giorno successivo le truppe indiane ricevettero i piani operativi per la riconquista di Goa: la 17° Divisione aveva il compito principale, ovvero puntare su Mormugão conquistando rapidamente il punto di controllo di Panaji assieme alla 50° Paracadutisti. Il compito di entrare nell’enclave da oriente era affidato alla 63° Brigata di Fanteria, mentre da sud una serie di attacchi di disturbo avrebbero dovuto essere condotti sull’asse Majali – Conacona – Margão. Il 14 Dicembre, con la guerra ormai alle porte, il generale Manuel Vassalo e Silva cercò di ottenere da Lisbona l’autorizzazione a trattare con l’Esercito Indiano per ottenere una resa onorevole senza spargimenti di sangue. La risposta di Salazar fu perentoria, ed arrivò via radio in serata:
“Radio 816 – Lisbona 14 Dic.1961:
Voi capite l’amarezza con la quale vi mando questo messaggio.
E’ orribile pensare che ciò potrebbe anche significare sacrificio totale, ma io credo che il sacrificio sia la sola via che abbiamo per preservare le nostre più alte tradizioni e per essere al servizio della Nazione. Non mi aspetto né tregue né l’eventualità di prigionieri portoghesi, né mi aspetto una resa, poiché sento che i nostri gloriosi soldati e marinai potranno essere solo morti o vincitori. Queste parole possono, per la loro durezza, essere rivolte solo ad un soldato di grande forza, pronto ad affrontarle. Dio non vi autorizza ad essere l’ultimo governatore dell’Estado da India. “
Antonio de Oliveira Salazar
L’inizio delle ostilità
Alle 9:45 del 17 Dicembre i piani passarono dalla teoria alla pratica e l’Esercito Indiano aprì il fuoco contro il villaggio di frontiera di Maulinguem, causando la morte di due fanti portoghesi e la reazione a fuoco del 2°Battaglione Portoghese. I primi scontri risultarono molto prudenti, con entrambi i contendenti timorosi di aprire uno scontro troppo cruento, ma con il calare della notte la situazione mutò. Poco prima dell’alba l’artiglieria indiana cominciò a martellare Maulinguem, causando la ritirata dei portoghesi, che si spostarono sul villaggio di Doromagogo, dove la Polizia dell’Estado si stava ritirando sotto i colpi della fanteria indiana, per portare rinforzi. Poco dopo cominciò anche il bombardamento del villaggio di Bicholim, nel Nord dell’enclave, dove i portoghesi si ritirarono facendo saltare tutti i ponti. Stessa cosa accadde nei villaggi di Chapora ed Assonora, poco dopo. Alle sei del mattino, il 1°Battaglione Portoghese avanzò da Ponda verso Usgão, per andare incontro al 2°Battaglione di Fanteria Sikh, che stava avanzando da nord pressoché indisturbato. Dopo una mattinata di scontri a fuoco e circondati dall’assoluta preponderanza numerica indiana, i portoghesi decisero di ritirarsi verso Ovest, rompendo l’accerchiamento indiano con la forza delle armi e riuscendo a mettersi in salvo attorno a mezzogiorno. Nel frattempo, l’aviazione indiana bombardava Dabolim, ovvero l’unico scalo aeroportuale di Goa, scaricando sulla struttura quasi trenta tonnellate di bombe distruggendo completamente la pista e trovando solo una debole reazione, che non ottenne risultati, da parte dell’artiglieria contraerea lusitana. Sempre quel mattino, anche la Marina scese in campo, con l’obbiettivo di ottenere la resa della Afonso de Albuquerque, e di metterla fuorigioco in caso di diniego. Attorno alle dieci del mattino la nave da guerra portoghese venne sorvolata da due caccia indiani che lanciarono con le mitragliatrici due raffiche di avvertimento contro la nave, mentre le fregate Betwa e Beas lanciavano segnali morse chiedendone la resa immediata. Per tutta risposta, la Afonso de Albquerque, pur in condizioni di evidentissima inferiorità, levò l’ancora per andare incontro alle due navi indiane, sparando con i suoi cannoni da 120. A mezzogiorno e un quarto, un colpo di artiglieria navale di una delle fregate colpì direttamente la plancia della nave portoghese, mentre una serie di shrapnel seminarono il ponte di feriti, incluso il capitano Antònio da Cunha Aragão, che dovette lasciare il comando nelle mani del suo secondo.

La Afonso colpì due volte le fregate, ma senza causare danni significativi. Poco dopo, anche le eliche furono colpite dall’artiglieria indiana, paralizzando quasi completamente la nave. Constatando gli ormai gravissimi danni e di fronte alla prospettiva di un’imminente carneficina, il comandante Pinto da Cruz alzò bandiera bianca poco dopo, ottenendo il permesso dagli indiani di portare i suoi marinai feriti negli ospedali di Goa. Nel primo pomeriggio la marina indiana tornò all’attacco: con l’obbiettivo di conquistare le isole Andijiv, le fregate Mysore e Trishul aprirono il fuoco sulle isole, per coprire lo sbarco dei marines indiani guidati dal tenente Arun Auditto. La reazione portoghese fu però furiosa. Le mitragliatrici portoghesi spazzarono la spiaggia, bloccando gli indiani sul bagnasciuga e causando sette morti, tra cui due ufficiali, e più di venti feriti. Impossibilitati ad avanzare, i marines dovettero chiedere più appoggio da parte dell’artiglieria navale, la quale cominciò un sistematico bombardamento degli isolotti. Impossibilitata a difendersi, la guarnigione portoghese sulle isole alzò bandiera bianca poco dopo, consegnandosi agli indiani. Con l’avanzare della notte le ostilità non cessarono. Il 7°Rgt Cavalleria indiano, comandato dal maggiore Sidhu, parte del gruppo offensivo nord, decise di puntare sulla fortezza di Aguada, sulla spiaggia di Sinquerim, con lo scopo di liberare alcuni attivisti nazionalisti indiani lì reclusi.

La reazione portoghese però fu pronta: il forte venne valorosamente difeso, e gli indiani dovettero momentaneamente ritirarsi dopo aver contato due morti tra le proprie file, incluso il maggiore Sidhu, ideatore della sfortunata sortita. Il 19 Dicembre segnò però l’inizio della rotta dei Lusitani. Con il sopraggiungere del mattino del 19 Dicembre, gli indiani tentarono nuovamente l’assalto contro Sinquerim, questa volta spalleggiati dai corazzati, e la guarnigione fu costretta ad arrendersi per evitare un inutile massacro. Contemporaneamente, il 2° Rgt di Fanteria Sikh entrava a Panaji, ormai vicinissima a Mormugão. Gli indiani continuarono ad avanzare anche da Est, trovando una sparuta resistenza. Il 2° Battaglione Bihar ed il 3° Battaglione Sikh entrarono a Goa attraverso il valico di Mollem, con lo scopo di conquistare la cittadina di Ponda, al centro dell’enclave: durante quest’avanzata sia Candeapur che Darbondara caddero senza combattere. Soltanto nei dintorni di Margão, nel villaggio di Verna, gli indiani si trovarono di fronte all’accanita resistenza di cinque compagnie portoghesi che riuscirono a bloccarne l’avanzata per qualche ora ma ormai la situazione per i portoghesi era sempre più compromessa. Le truppe portoghesi e quelle coloniali africane si trovarono ormai circondate all’interno della vecchia capitale Vasco da Gama, con poco cibo e pochissime munizioni rimaste.
La resa
Preso atto della situazione, il comandante Vassalo e Silva ed i suoi assistenti presero la decisione di arrendersi agli indiani. Il generale, parlò con queste parole:
“Avendo considerato la difesa della penisola di Mormugão dal punto di vista delle forze di terra, di mare ed aeree da parte del nemico, avendo considerato la situazione di impari forze e risorse, la situazione non mi autorizza a procedere in ulteriori combattimenti che comporterebbero un grave costo di vite umane per la popolazione civile di Vasco da Gama. Ho deciso, in pieno spirito patriottico, di aprire un canale di comunicazione col nemico. Ordino a tutte le mie forze di cessare il fuoco immediatamente”.
Alle ore 20:30 del 19 Dicembre, calava il sipario su quasi cinque secoli di dominazione portoghese su Goa e le sue piccole dipendenze di Daman e Diu. Con una cerimonia formale, il generale Vassalo e Silva firmò l’atto di resa al Capo di Stato Maggiore indiano, il generale Pran Thapar, consegnando sé stesso e le sue truppe, portoghesi e coloniali, alla prigionia, che terminerà solo nel 1962 con il rimpatrio a Lisbona tramite una nave militare francese, sancendo così la fine dell’ultimo lembo di terra indiana sotto sovranità europea.
La fine dell’Estado da India non venne naturalmente riconosciuta dal Portogallo, che continuò a considerare l’accaduto come un’aggressione al suo territorio metropolitano fino al 1974, quando la giunta militare di Marcelo Caetano, successore di Salazar, venne destituita da un colpo di stato incruento. L’episodio ebbe però un’eco internazionale notevole. Con questa resistenza, armata ed altamente simbolica poiché senza speranza, i portoghesi avevano chiarito al mondo che non avrebbero rinunciato al loro impero senza combattere. Le immense colonie africane di Angola e Mozambico, assieme a Guinea Bissau, Capo Verde, Timor, São Tomé e Principe e la città stato di Macao, nel sud della Cina, rimanevano ancora sottoposte a Lisbona, ed il governo dell’Estado Novo non intendeva rinunciarvi per via diplomatica. L’episodio verrà recepito in particolar modo dai movimenti indipendentisti angolani e mozambicani, che proprio in quei mesi cominciavano a mettere in pratica le prime azioni di resistenza contro i portoghesi in Africa. Lisbona non avrebbe ceduto senza combattere, cosa che invece aveva fatto il Regno Unito, l’Olanda, il Belgio, e parzialmente la Francia. Per l’Estado Novo non vi era alcuna differenza tra Portogallo storico e colonie. Angola, Mozambico, Goa, e tutti gli altri territori ultramarini erano considerati parte integrante del Portogallo metropolitano, e come tali sarebbero state difese fino alla morte. Goa fu solo l’antipasto di quasi quindici anni di eroica resistenza al processo di decolonizzazione da parte di quello che fu l’ultimo impero europeo a lasciare il palcoscenico della storia.
Marco Malaguti