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20 anni dopo il G8 di Genova il Leviatano è vivo e vegeto

20 anni dopo il G8 di Genova il Leviatano è vivo e vegeto

La repressione che ricordò al mondo la natura violenta della statualità

Quando Thomas Hobbes dovette scegliere l’animale che avrebbe dato il nome al suo testo più famoso optò per il Leviatano. Le caratteristiche dello Stato territoriale ben si rispecchiavano, secondo il pensatore inglese, nella bestia “più forte e indomabile” del bestiario biblico. Un mostro in piena regola, “dio mortale” invincibile e soprattutto unico a detenere il diritto di esercitare il male. Di fronte ai pericoli del mondo, gli uomini evocavano così la più terribile delle creature perché li tenesse al di là dello spazio della civiltà.

All’imbrunire del XX secolo, il mostro di Hobbes vive – secondo certa vulgata – la sua crisi più nera. Sepolti gli autoritarismi, il momento unipolare minaccia di dissolvere il Leviatano nei mulinelli della globalizzazione. Lo Stato – si evince facilmente dando un’occhiata a libri e giornali dell’epoca – sembra che non serva più a niente in un mondo senza confini. Al massimo gli viene riconosciuta la sonnecchiante funzione di amministratore di pensioni e contributi. Di certo l’uomo di fine ‘900 non ricorda più la sua funzione ancestrale. Amministratore sì, ma della violenza organizzata.

Carl Schmitt, nella sua lettura di Hobbes, utilizza il termine fondamentale per comprendere le prospettive presenti e future della statualità: “evocare”. La parola richiama l’essenza profonda del Leviatano. Questo esiste prima che l’uomo lo inventi. All’uomo sta la decisione sulla sua convocazione. Ma una volta evocato il mostro non potrà essere più allontanato. Potrà tutt’al più riposare quando la sua funzione militare non è immediatamente necessaria, salvo poi risvegliarsi in un’orgia di violenza apparentemente irrazionale al sorgere di nuovi, percepiti, pericoli.

Il G8 di Genova

È nei caroselli di sirene di Genova, in quella calda estate del 2001, che lo Stato dà nuovamente prova della sua natura oscura e terribile. Quei giorni di luglio richiamano a loro volta alla mente un orizzonte ben diverso dall’utopia internazionalista che affolla i circoli di pensiero. Il cuore della città è blindato, un castello. Dentro, i potenti della terra. Fuori gli assedianti, gli “sconfitti” della globalizzazione. In mezzo 15 mila poliziotti, l’esercito appostato sulle mura. Con le lenti della storia, più una battaglia dei secoli passati che la parata dell’Occidente globale.

Quanto accade nei quattro giorni del G8 è storia. È manifesto fin dalle prime ore che nemmeno le frange più organizzate e violente della protesta possono impedire il meeting dei grandi – nè hanno la capacità di costituire un pericolo per le personalità che attendono alla riunione. Eppure a Genova accade l’impensabile. Alla pressione dei manifestanti più violenti le forze di polizia rispondono con efferatezza geometrica. Risposta spietatamente militare che colpisce indistintamente tutti i gruppi della piazza. Dall’imbuto di Via Tolemaide alla Diaz, passando per Piazza Alimonda, il Leviatano notifica nuovamente la propria terribile funzione.

Al di là delle volontà dei decisori – che non pianificano quasi nulla dell’ordalia genovese – il mostro ruggisce e prende forma sopra la confusione degli ufficiali della polizia che non si raccapezzano nel caos delle manifestazioni, nella volontà ottusa di alcuni di punire gli accampati della Diaz. Il risultato non cambia. Gli assediati, colpevoli o meno, vengono annientati. Una repressione brutale, a tratti delirante, ma drammaticamente efficace: del Genoa Social Forum – o meglio, della sua carica potenzialmente pericolosa per lo Stato – oggi non resta nulla.

“La più grande violazione dei diritti umani in Occidente” (Amnesty) confermava che il diritto dipendeva ancora dalla capacità di esercitare violenza e il “campo di battaglia” aveva parlato senza possibilità di dubbi. In pochi pagarono – di certo non pagò lo Stato. Mentre la critica indignata del mondo perdeva di intensità, complice lo shock dell’11 settembre, il Leviatano tornava a dormire, sordo alle voci disperate dei cercatori di giustizia, delle Corti e del diritto. È scritto appunto nel testo di Hobbes – ancora oggi il più capace degli esegeti del mostro – che “i patti senza la spada sono parole e le parole non hanno la forza di difendere nessuno”. E l’unico a brandire la spada quel giorno, era il mostro.

La nuova gioventù del Leviatano

La tesi di chi scrive è che la natura violenta e coercitiva dello Stato sia connaturata al DNA del vivere sociale. Onnipresente sullo sfondo dell’avventura umana, tanto negli autoritarismi che nelle sorridenti democrazie liberale, torna ad affacciarsi nel suo terribile splendore quando lo status quo viene minacciato – alle volte sono le idee “sovversive”, altre volte fattori esogeni, ma il risultato non cambia. Venti anni ci separano da Genova. La “cultura” non ha mai smesso di annunciare l’avvento di utopie globalizzate a-statuali, ma per chi sa leggere oltre è chiaro che ancora una volta si vada scambiando il sonno del mostro con la sua dipartita.

Le capacità di controllo su decine di milioni di persone dimostrate durante la pandemia sono un indice dello stato di salute del Leviatano. Le decisioni prese al di là delle organizzazioni sovranazionali da ciascuno Stato completano il quadro. Ma un evento recente in particolare ci ricorda dell’esistenza del mostro. Fatti che impongono immediatamente un parallelo con il G8 d Genova.

La primavera del 2020 è un momento molto particolare per l’Italia. 60 milioni di cittadini in lockdown, i reparti di terapia intensiva al collasso, la luce in fondo al tunnel non si vede. Il clima di tensione è soffocante. Divampano le rivolte carcerarie. Di fronte alle immagini dei detenuti che prima prendono il controllo delle carceri e poi fuggono dal portone principale viene da chiedersi se quella non sia l’ultima avvisaglia prima del collasso. Poco dopo però le rivolte cessano. Alcuni dei detenuti perdono la vita. Morti che vengono rapidamente liquidate come morti da overdose, sopraggiunte dopo il saccheggio e l’abuso dei farmaci delle infermerie.

Quanto è davvero accaduto in quell’aprile lo racconterà solo un video delle telecamere di sicurezza, corsaramente ottenuto e pubblicato dal quotidiano Domani. Le immagini vengono dal carcere di Santa Maria Capua Vetere e mostrano la rappresaglia di alcuni membri della polizia penitenziaria ai danni dei detenuti insorti poco prima. Botte, manganellate, calci e pugni. Anche qui la violenza è inaudita. I feriti sono decine. Chissà in quanti altri posti d’Italia succede. Chissà quante dei morti di overdose ricevono un aiuto dagli agenti.

Il copione è sempre lo stesso. Nei momenti decisivi – quelli in cui accade l’impensabile, l’ernstfall schmittiano – il Leviatano si sveglia e neutralizza la minaccia agendo senza remore al di là dell’ordinamento costituzionale. Lo stato di eccezione si impone da solo, che al comando ci sia il pugno di ferro di Xi Jinping o il volto sorridente di Giuseppe Conte, cambia poco. Se il Leviatano si sente in pericolo, agisce per automatismi.

Insomma, i fatti del G8 di Genova, di Santa Maria Capua Vedere, insieme a mille altri ci ricordano il volto reale e terrificante della statualità. Mille volte il truce guardiano è stato dato per morto, salvo rinascere con feroce regolarità quando qualcuno tenta di approfittarsi del suo sonno per insidiare l’ordine su cui deve vegliare. Un ventennio dopo la tragedia di Genova 2001, il Leviatano nuota ancora trai flutti della globalizzazione. A ben vedere sapeva già farlo in quei momenti concitati di utopie new global e profezie ingenuamente umanitarie.

Di Francesco Dalmazio Casini  

Immagine in evidenza: “canterò, anche in faccia al mio assassino” by bbbelo is licensed under CC BY-NC-ND 2.0

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Francesco Dalmazio Casini

Francesco Dalmazio Casini

Fondatore di Aliseo, archeologo redento, appassionato di studi strategici. Voglio raccontare la geopolitica, cercando di leggere tra le righe gli interessi di attori espliciti e meno espliciti. Credo che all'informazione italiana manchino due cose: il realismo e la capacità di prendersi un po' di tempo prima di raccontare quello che succede.

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