Kandahar, Herat, presto (Ore? Minuti?) Kabul. L’avanzata dei Taliban nell’Afghanistan post americano è arrivata come un fulmine alla capitale. Il “governo” già tratta la resa incondizionata. Le peripezie del Cimitero degli imperi tornano ad affacciarsi sulle pagine dei nostri giornali, televisioni, social network – prima dell’inevitabile mezzanotte che consegnerà di nuovo l’Afghanistan all’ignomia. In questi giorni se ne sentono di tutti i colori: l’Occidente – che poi vuol dire gli Stati Uniti – ha sbagliato, l’Occidente ha fatto bene, l’Occidente ha scordato sé stesso, ecc.
La verità è che della prassi spietata delle guerre, anzi, della geopolitica in generale, si faticano a capire le basi. Superficialità necessaria per un paese che con il sistema internazionale ha scarsa dimestichezza, per usare un eufemismo. Si fa strada l’idea, che rimbomba nei megafoni della propaganda anti-occidentale, che la disastrosa ritirata degli USA dall’Afghanistan sia la campana a morte del dominio planetario americano. D’altronde se l’Occidente lascia nelle mani dei Taliban persino interpreti e collaboratori che per 20 anni hanno sofferto accanto ai suoi soldati, come potrà in futuro raccontarsi di nuovo come il faro della civiltà?
Il motivo per cui la sconfitta afghana non è quella degli Stati Uniti è facile da capire, ma richiede un cambio di prospettiva. Gli Stati, a maggior ragione un impero planetario quale è l’America, esistono in base a freddi calcoli di potenza. Alle volte questi possono essere viziati da paure, emozioni e analisi fallaci, ma restano pur sempre calcoli. Ora, per vendere questa brutale verità all’opinione pubblica (che sconterà sulla sua pelle il fardello del conflitto), i Paesi hanno la necessità di costruire narrative accattivanti e credibili: democrazia, diritti umani, ecc.
Troppo spesso, quando queste vengono meno di fronte all’urto della storia, siamo portati a credere che insieme a loro naufragheranno anche gli attori che le hanno portate avanti. Come se alla geopolitica importasse qualcosa della coerenza. La crudele verità è che per quanto l’Afghanistan affogherà nel sangue delle rappresaglie talebane e poi diventerà una teocrazia islamica (dunque possiamo dire che la missione “umanitaria” è ampiamente fallita), l’influenza sulla salute dell’egemonia USA sarà minima.
Il perchè dell’Afghanistan
Oggi possiamo dire che l’intervento in Afghanistan fu un errore, ma all’epoca esistevano motivazioni che poterono far pensare il contrario. Innanzitutto il calcolo fu viziato dal particolare assetto del sistema internazionale. In pieno momento unipolare, senza nemici (pericolosi) all’orizzonte, una nuova guerra sembrava conveniente semplicemente perché mancavano elementi a sfavore dell’intervento. Serviva poi una rappresaglia da consegnare ad un’opinione pubblica stravolta dall’11 settembre, che dimostrasse che gli USA erano ancora la prima potenza militare del pianeta. Uno show di forza per scacciare l’idea che il terrorismo si potesse permettere di colpire il cuore dell’impero senza ritorsioni.
In secondo luogo c’era la necessità di mantenere attivo il complesso militare-industriale e tutta l’infrastruttura militare. Avversari non ce n’erano, ma ne sarebbero tornati. Le forze militari dovevano restare attive, per allontanare il rischio di trasformarle in un mastodontico apparato “smobilitato” e incapace di affrontare le sfide di domani (tara che non a caso affligge le armi dei ben più pacifici europei). Al contempo la popolazione di casa doveva restare “abituata” alla mobilitazione generale, all’idea che nel mondo, da qualche parte a migliaia di chilometri di distanza, soldati americani stavano soffrendo per l’interesse nazionale.
Oggi che Russia e Cina tornano ad occupare il ruolo di nemici sistemici degli USA, la visione del Medio Oriente è profondamente cambiata. Washington crede che i suoi vassalli nella regione (Israele, Arabia Saudita, Turchia) possano provvedere a portare avanti i suoi interessi locali – ormai quasi solo strategici con la fine della necessità di approvvigionamento petrolifero. Adesso le preziose risorse militari schierate in quel teatro (soprattutto sistemi anti-missile, droni e aerei da guerra), servono altrove, nel Pacifico, per contrastare l’ascesa del dragone.
D’altro canto, l’Afghanistan in mano ai Talebani è un potenziale focolaio di instabilità alle porte della Cina e dello spazio post-sovietico. Una repubblica islamista che può solidarizzare con i separatisti Uiguri e incendiare il cortile di casa dei Russi – troppo lontana da casa per arrecare mai danno al territorio americano o alleato. Non è un caso se i diplomatici di Mosca e Pechino in questi giorni fanno gli straordinari per accattivarsi le simpatie dei mullah.
L’Afghanistan talebano non può minacciare gli USA
Il segreto dell’impero americano è proprio questo. Giocare sempre e comunque in trasferta, allontanando la linea del fronte a migliaia di chilometri da casa. Dalla Guerra di Corea, passando per il Vietnam e le primavere arabe, gli States combattono (e perdono) guerre che non potranno mai rivelarsi davvero pericolose. Intanto l’ossatura del dominio americano, la proiezione globale assicurata dal controllo del continente europeo e dall’affaccio oceanico, rimane intatta.
Capaci di perdere una decina di guerre a terra, anche in maniera imbarazzante, gli USA lasciano a sé stessi i teatri che non sono più utili ai disegni egemonici. Non c’è spazio per curarsi della sorte di chi ha aperto loro le porte di casa perché speranzoso di un avvenire democratico. La grottesca fuga da Saigon nel 1975 rimanda alla stessa identica logica. Eppure, 16 anni dopo quella cocente umiliazione, la Guerra Fredda era stata vinta. Prassi che non sarà umanitaria, ma quantomeno efficiente.
Certo, il danno all’immagine rimane. Come rimarranno i dubbi sui rapporti dell’intelligence che stimavano almeno a 3 mesi la rotta dell’esercito governativo (sono state forse tre settimane). Danno d’immagine incrudelito dalla giravolta americana di ieri sera, quando 5000 uomini sono stati rimandati in fretta e furia a Kabul per assicurare l’estrazione del personale diplomatico. Chissà se senza il tam tam mediatico le potenze occidentali si sarebbero davvero interessate alla sorte di interpreti e collaboratori afghani che in questi istanti vengono caricati sui voli che li porteranno in salvo (si spera nel numero maggiore possibile). Insomma, si poteva organizzare tutto un po’ meglio, ma la memoria dell’opinione pubblica è breve – rivedere l’esempio di Saigon per conferme.
Quel che è certo è che la vicenda afghana dice molto sul futuro delle guerre e degli interventi umanitari. Gli eserciti occidentali, inarrivabili nella tattica, soffrono l’assenza di una dottrina adeguata a gestire teatri di guerriglia virulenta, in Afghanistan come in Iraq e altrove. Di fatto, anche volendo, quella guerra non sarebbe mai stata vinta. E poi c’è l’ennesima doccia fredda sull’approccio internazionalista alle relazioni internazionali. 20 anni di peacebuilding e di “educazione” alla democrazia liberale non sono durati un mese di fronte alle scimitarre dei mullah. Quasi che tale augusto modello non funzioni a tutte le latitudini del mondo. Siamo forse giunti alla fine di un trentennio di utopia civilizzatrice? Accetteremo mai, fuori dalle cerchie nascoste dei decisori, la via realista alla geopolitica? Chissà.