In un’intervista concessa lunedì 20 maggio al The New York Times Volodymyr Zelensky ha toccato varie tematiche ed esortato Stati Uniti e soci a fare di più. In quasi un’ora di conversazione ha voluto mandare un messaggio ai suoi partner europei e oltreoceano: è tornato a chiedere “armi e permessi” per colpire obiettivi ubicati nella Federazione Russa, mossa a suo dire indispensabile per difendere parti di territorio nuovamente sotto attacco.
Zelensky ha criticato i timori occidentali di un’escalation nucleare e, infine, ha accusato alcuni Paesi di non aver chiuso completamente le porte a Mosca, contribuendo al fallimento del suo isolamento. Il momento storico in cui arriva questa intervista, particolarmente critico per l’Ucraina, ha spinto Zelensky a lanciare un segnale d’allarme che, nelle sue speranze, possa portare a maggiori aperture da parte di Washington.
Anche per il Presidente ucraino il momento non è dei migliori. Proprio il giorno dell’intervista scadeva infatti il suo mandato presidenziale, prorogato solo grazie alla legge marziale.
L’Istituto di sociologia di Kiev, termometro dei sentimenti locali, all’inizio dell’ “operazione militare” speciale misurava un consenso per il Presidente vicino al 90%, mentre oggi rileva che tale valore non supera il 60%[1]. Nonostante rimanga saldamente popolare, il calo di gradimento segnala un certo raffreddamento dei rapporti fra il Presidente e il suo popolo.
Fra le cause da annoverare: la fallita controffensiva della scorsa estate con tanto di epurazione del popolarissimo ex comandante capo delle forze armate ucraine Valerii Zaluzhny, il capovolgimento degli esiti delle operazioni belliche a favore di Mosca e, da ultimo, la sofferta ma inevitabile approvazione della legge che abbassa l’età di mobilitazione da 27 a 25 anni.
Negli ultimi mesi, Kiev ha adottato un cambio di tattica propedeutico a mitigare le gravi e palesi carenze di risorse umane dopo due anni di guerra. La correzione di rotta è stata dettata anche dal ritardo nella consegna di armamenti da parte statunitense, causato dall’ostruzionismo repubblicano alla Camera dei Rappresentanti, uno stallo di neanche 5 mesi, sufficiente però a far scadere le capacità militari dell’Ucraina.
All’inizio delle ostilità la compattezza del fronte interno, il supporto tout court di Washington e un sufficiente numero di soldati hanno consentito agli apparati ucraini di adottare tattiche più spregiudicate, dalla già citata controffensiva alla difesa a oltranza di obiettivi più simbolici che strategici.
Ora, venuti meno questi fattori, le forze di Kiev sono costrette ad attività asimmetriche quali azioni di sabotaggio a raffinerie di petrolio, depositi di carburante e munizioni ubicati anche nella Federazione russa.
Plurimi gli obiettivi di Kiev: innanzitutto prendere tempo, in modo da permettere alle proprie truppe di ripiegare su linee meglio difendibili e più fortificate, aspettando armi e munizioni; rallentare, per quanto possibile, l’energivora macchina bellica moscovita; danneggiare l’economia russa; segnalare a una sempre più rassegnata e depressa opinione pubblica la capacità di attaccare il nemico a casa sua.
Proprio i blitz ucraini verso hub energetici e logistici russi sono stati fonte di forte attrito fra Washington e Kiev, con l’amministrazione Biden e gli apparati di sicurezza statunitensi più volte esprimenti dissenso nei confronti di tali azioni.
Questo, a grandi linee, il contesto caratterizzante l’Ucraina dalla fine del 2023 alla prima settimana di maggio quando, sorprendentemente, le truppe di Mosca hanno scatenato una nuova offensiva nel Nord-Est del Paese.
L’esercito russo, forte di una superiorità in termini di mezzi e uomini, dal 10 maggio ha lanciato un nuovo attacco nell’Oblast di Kharkiv. Sebbene non sembri possedere le capacità e le risorse adeguate e non paia intenzionata a una nuova conquista della seconda città ucraina per popolazione, con la sua mossa Mosca punta a logorare le già scarse e stanche forze di Kiev.
Allungando il fronte, il Cremlino spera di distogliere truppe nemiche dall’Est – Donbas – e da Sud – Oblast di Kherson e Zaporizzja – in vista di una più ampia offensiva estiva? Da vedere. Sicuramente questo conferisce un più ampio margine di manovra alle truppe lì stanziate. La riapertura del fronte potrebbe pure segnalare la volontà della Federazione Russa di crearsi una sorta di zona cuscinetto, onde mettere in sicurezza l’Oblast di Belgorod, da tempo bersaglio di incursioni di forze ucraine.
Il Regno Unito, rappresentato dal suo Ministro degli Esteri David Cameron in visita a Kiev nei primi di maggio, ha pubblicamente dichiarato e sostenuto l’utilizzo di armi britanniche contro infrastrutture critiche situate nella Federazione Russa.
L’ex primo ministro britannico ha affermato che sostanzialmente spetta a Kiev decidere se compiere tali operazioni o meno. All’appello britannico si sono presto aggiunti, nei giorni successivi, quello di Macron, di esponenti dei Governi di Polonia, Lituania, Lettonia e Svezia, favorevoli ad abbracciare tale nuova linea.
Più freddi Germania e Italia. Anche a Washington, nonostante per il momento continui a risuonare il mantra adottato dai primi giorni dopo il 24 febbraio 2022 consistente nel supportare l’Ucraina per tutto il tempo necessario ma senza permettere l’utilizzo di armi statunitensi contro obiettivi militari russi e non inviando propri militari, il dibattito è più aperto che mai.
Di fronte alle difficoltà ucraine riportate sul campo di battaglia aumentano di pari passo le pressioni verso l’amministrazione Biden affinché riconsideri il suo veto. Pure Jean Stoltenberg, Segretario Generale della Nato, in un’intervista al The Economist del 24 maggio si è unito al coro di quelli che richiedevano un ripensamento. Interessante il passaggio in cui, pur auspicando un allentamento delle regole sull’utilizzo di armi occidentali, Stoltenberg ha ribadito come l’Alleanza Atlantica non invierà le sue truppe in Ucraina.
In piena campagna elettorale, a 6 mesi dalle elezioni presidenziali, improbabilmente gli Stati Uniti muteranno approccio, anche a dispetto di un mutato contesto bellico potenzialmente idoneo a giustificare riposizionamenti tattici. Washington ha bisogno di congelare almeno uno dei conflitti (Israele e Ucraina) per necessità strategiche, Mosca lo sa e pone le condizioni per un cessate-il-fuoco.
Putin, in una due giorni di visita all’omologo bielorusso Lukashenka dal 24 al 25 maggio, consapevole di aver raggiunto minimi obiettivi e che difficilmente potrebbe ricavare di più dal teatro ucraino senza una nuova dolorosa mobilitazione, lancia segnali di distensione.
Esorta a riprendere i colloqui da dove erano terminati, riferendosi alla bozza di accordo raggiunta a Istanbul nell’aprile del 2022, partendo dalla realtà fattuale e non dalla volontà di una parte.
La palla passa ora nuovamente a Washington. Non potendo presentarsi agli elettori democratici americani con un cessate-il-fuoco, ammissione di sconfitta, l’amministrazione Biden puntellerà le difese di Kiev onde evitare ulteriori sfondamenti russi ma non cederà alle lusinghe di Zelensky e soci.
[1] Comunicati stampa e rapporti – Direzione degli affari nel paese e fiducia nei personaggi politici, militari e pubblici (kiis.com.ua)
Foto in evidenza: By President.gov.ua, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=116824789