Quella che fino a pochi decenni fa veniva considerata una dimenticata periferia del mondo, remota quanto insignificante provincia dell’impero sovietico, sta recuperando una centralità tale che per trovare un precedente occorre andare indietro di molti secoli.
Anche senza scomodare Tamerlano dallo scranno sul quale campeggia fiero nella sua ex capitale Samarcanda, dopo le scorrerie cui è stato artefice e protagonista nel corso del XIV secolo, la storia ha avuto occasione di passare con frequenza dall’Asia Centrale prima e dopo di lui.
Le antiche Vie della Seta tornano d’attualità in forme simili ma con connotazioni aggiornate ai tempi. Le similitudini sono riscontrabili nelle direttrici lungo le quali si muovono le merci in direzione est-ovest, un tempo costituite da strade polverose e caravanserragli oggi da strade ferrate e stazioni, con le diramazioni utili a servire meglio la clientela dei cinesi lungo l’asse del mondo euroasiatico. Le differenze si riscontrano sui maggiori intrecci e gli attori in gioco, altri imperi ed altri impeti.
La religione ha inconsapevolmente legittimato e consolidato i governi laici postcomunisti usciti dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, in quello che si presenta come un paradosso solo a prima vista. Fatta eccezione per il cavilloso nodo della valle di Fergana, dove per volere di Stalin è stata realizzata una mescolanza etnica caratteristica della sua politica volta a disomogeneizzare le singole Repubbliche Sovietiche (casi simili sono attualmente alla ribalta in Donbass e nel Nagorno-Karabak), il resto della Regione non ha mai brillato per irredentismi religiosi o derive fondamentaliste, nemmeno in epoca sovietica quando moschee e madrase fungevano da magazzini o fabbriche.
Il nomadismo di kazaki e kirghisi ha configurato fin dall’inizio un islam dai connotati simbolici legati alla natura (con tratti animistici) e meno ortodossi rispetto alla dottrina araba. Inoltre gli inverni gelidi e la colonizzazione russa hanno portato a legittimare il consumo di bevande alcoliche; pur non risultando in una piaga sociale, resta vero che birra e vodka si possono consumare liberamente.
Anche l’architettura non esprime esattamente i dettami religiosi e capita di vedere decorazioni raffiguranti animali quando queste sono proibite dalla dottrina ufficiale.

Sotto l’aspetto meramente temporale la vicinanza con l’Afghanistan ha rappresentato il collante che ha convinto le maggiori potenze a chiudere più di un occhio, consentendo fin dall’inizio ai segretari delle Repubbliche di perpetrare il loro potere divenendo satrapi di Stati indipendenti. Basta leggere alcune pagine dell’illuminante Buonanotte Signor Lenin di Tiziano Terzani, scritto proprio nel 1991, per capire come fin da subito la via fosse quella, senza se e senza ma.
Le rivalità tra gli -Stan in Asia Centrale
Le relazioni fra i Paesi distaccatisi dall’URSS non sono sempre state eccellenti: contenziosi territoriali che comprendono diverse exclave nel dedalo di confini in cui s’incontrano e scontrano Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan hanno portato all’uso delle armi ancora in tempi recenti, in particolare quelli risalenti al 2021 e soprattutto al 2022 nella valle di Fergana fra kirghisi e tagiki per la delimitazione frontaliera e l’utilizzo delle risorse idriche.
A questo si aggiungono appetiti incrociati di acqua e terreni coltivabili: Uzbekistan e Kirghizistan hanno di recente concordato scambi territoriali proprio per contemperare tali rispettivi interessi, mentre a settembre il Kazakhstan ha bloccato il passaggio il passaggio di camion kirghisi sul suo territorio in quanto il governo non ha fornito i volumi d’acqua pattuiti dagli accordi.
Nel corso degli anni 2000 il presidente uzbeko Islom Karimov aveva assunto atteggiamenti bellicosi, per esempio inviando nottetempo forze speciali a conquistare appezzamenti di terreno a cui seguivano immediatamente gli operai per stendere il filo spinato; il giorno successivo i kirghisi si trovavano di fronte ad una frontiera spostata ed avevano difficoltà a riconquistare il terreno occupato, a causa delle minori forze militari a disposizione.
Gran parte dell’esercito kirghiso è costituito da non professionisti e in caso d’incidenti di confine la repressione uzbeka era sproporzionata rispetto alle perdite subite. In seguito, la normalizzazione dei rapporti con il Kirghizistan è passata tramite la concessione e lo scambio di piccoli territori.
Già ai tempi di Karimov (morto nel 2016) qualche accordo sui diritti di passaggio verso le exclavi avevano migliorato i rapporti, ottenendo che i militari kirghisi fossero meno fiscali nei controlli ai posti di confine, i quali potevano di fatto rendere quasi impossibile il raggiungimento delle città uzbeke inglobate nel loro territorio.
In tempi più recenti l’Uzbekistan ha ceduto appezzamenti di pianure disabitate ma coltivabili in cambio di territori montani ricchi d’acqua utili per irrigare le aride terre nazionali. Esistono ancora contenziosi marginali fra Uzbekistan e Tagikistan ma sembrano essere di minore portata.
Anche se non ha a che vedere con i confini, la vicenda del lago Aral offre un esempio di come i cambi di regime (che nella realtà dei fatti non ci sono stati) non abbiano coinciso con una svolta nelle politiche ambientali: il quarto lago più grande al mondo, ai tempi dell’Unione Sovietica fu considerato come un errore della natura (sic!) e la sua capacità venne ridotta al 40% deviando i due immissari; successivamente è stata costituita una diga sul fiume Amu-Darya che ha lasciato solo lembi d’acqua pari al 10% della superficie originale.

L’impossibilità di sganciarsi dalle coltivazioni di cotone avviate negli anni ‘60 ne hanno ormai decretato la fine; ma il conseguente prosciugamento non ha lasciato i terreni fertili paventati dai sovietici a causa del sale accumulato in superficie e dell’inquinamento dovuto all’uso indiscriminato di fertilizzanti che ha contaminato il sottosuolo.
Karimov ha ereditato il potere da sé stesso nel momento in cui l’Unione Sovietica si è dissolta, trasformando il partito comunista in socialista ma lasciando inalterato il gruppo di comando, esattamente come hanno fatto le altre ex Repubbliche. Ha instaurato un regime personalistico e dirigista, un islamismo di facciata ma molto laico nella realtà. Facendosi passare come buon musulmano grazie ad iniziative di edilizia religiosa, ha dato battaglia al fondamentalismo religioso guadagnandosi la stima di russi ed americani, i quali hanno prestato indulgenza su derive antidemocratiche e mancate riforme.
Governando con pugno duro ha traghettato il Paese nella sua fase più delicata, quando è rimasto orfano di Mosca e del comunismo, senza ideali ma soprattutto con industrie rese inservibili a causa di un modello sovietico che prevedeva la produzione verticalizzata, è stato innegabilmente in grado di evitare il caos politico ed economico. Probabilmente ha rappresentato il male minore per evitare fondamentalismi o situazioni anarchiche di altro genere, certo non un modello di democrazia come la si intende in Europa.
Non si sa con quanta convinzione, ma attualmente viene celebrato come una pietra miliare nella storia dell’Uzbekistan, secondo solo a Tamerlano; nel mausoleo di recente costruzione in cui riposa si vedono persone pregare quasi si trovassero al cospetto di un santo; difficile stabilire con occhi esterni quanto la propaganda influisca in un culto della personalità che va oltre la sua stessa vita.

I Paesi dell’Asia Centrale (fatta eccezione per il Turkmenistan) hanno recentemente realizzato che il modo più conveniente per restare indipendenti sia quello di dipendere da molti, ed i pretendenti certo non mancano. La Russia gode di un ruolo privilegiato dovuto alla rendita di posizione, essendo stata l’intera regione sotto il dominio prima zarista e poi sovietico per ben oltre un secolo.
Cina, Russia, Turchia: le mosse dei “grandi” in Asia Centrale
Il vincolo con Mosca è ancora forte per ragioni storiche, economiche e linguistiche, così come lo è (non sempre) la voglia di staccarsi politicamente; l’antico sistema di produzione industriale è solo un ricordo ma le catene di fornitura e di reciproca interdipendenza restano in piedi, mentre il russo è rimane la lingua di riferimento per tutti.
Oltre ad essere mezzo di comunicazione fra le varie etnie all’interno di uno Stato (tagiki e uzbeki in Uzbekistan sovente parlano in russo fra loro), è soprattutto indispensabile fra gli Stan ex sovietici, dal momento che l’inglese è parlato da un’esigua minoranza. La vicinanza con la Russia, se da un lato può porre legittimi dubbi di ordine strategico, dall’altro non offre molte alternative data la distanza dai cuori pulsanti del mondo. La Cina, nonostante confini montani poco agevoli, allunga i suoi tentacoli economici sfruttando la debolezza dei Paesi, attingendo materie prime dove possibile.
La strada che collega la frontiera posta sul Torugart Pass a Biškek (capitale del Kirghizistan) è un susseguirsi di camion cinesi che scendono carichi di auto e beni di ogni genere, non solo destinati al mercato interno ma anche verso il Kazakistan e la Russia; per contro il Dragone non dispone di sufficiente fiducia strategica poiché troppo vicino e potente.

Se la Cina punta direttamente alla conquista economica, gli arabi partono da lontano ma più solidamente mirano alle anime dei fedeli tramite generosi finanziamenti per la costruzione di moschee, madrase, ma anche opere di carattere sociale. In prima fila ci sono Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, poco interessati alle dinamiche di import-export, di più al soft power che consente loro di acquisire preziosi alleati iniziando dalla base sociale.
Nell’elenco dei pretendenti a giocare un ruolo attivo non può mancare la Turchia, facendo leva proprio sul fattore della turcofonia. Una politica tesa a valorizzare i legami “panturanici” fondati su lingua ed etnia non poteva di certo trascurare quelli che vengono considerati i fratelli sfortunati, usciti da lunghi anni di dominazione e da riportare all’interno del recinto panturco, forti dell’empatia parenterale dei turchi i quali originano proprio dall’Asia Centrale (e ancora prima in Siberia) per poi estendersi all’odierna Anatolia. In parallelo l’Iran blandisce il Tagikistan, unico Paese dell’area di lingua e cultura persiana.
Ad Erdogan può non può sembrare vero che popolazioni di cultura e lingua turcofona siano orfane e potenzialmente disponibili ad un intenso dialogo con una nazione che percepiscono come parente stretta. Con limitata approssimazione si può affermare che se la Cina punta alle relazioni politico – commerciali e gli arabi passano attraverso il canale spirituale (meno immediato ma più stringente), la Turchia va alla ricerca degli antichi legami che contemperano entrambi gli aspetti precedenti, pur non potendo mettere sul banco le finanze di cui dispongono cinesi e le monarchie del Golfo.
L’Occidente invece non gode di particolare fama a queste latitudini, in particolare gli Stati Uniti soffrono della pessima propaganda di epoca sovietica che viene oggi perpetuata dalla Russia. Gli americani vengono normalmente percepiti quale potenza egemone, gli europei succubi del loro protettore ed incapaci di svincolarsi dalle sue trame.
Quale ulteriore elemento confusione in merito all’aspetto linguistico si aggiunge l’alfabeto, passato dall’arabo al cirillico ad inizio secolo scorso e con tentativi di migrare verso quello latino, peraltro al momento con scarso successo; la cosa che favorirebbe un maggior dialogo col resto del mondo, soprattutto con l’evoluzione tecnologica e su internet. Il cinese per ora rimane confinato oltre la catena montana del Tian Shan.

Prove di modernità: da periferia a cardine della Bri
La malattia congenita dell’Asia Centrale è insita proprio nella sua posizione periferica legata ad un’orografia poco conciliante (alte montagne a sud o il niente stepposo a nord) e la lontananza dai mari. Come nota di curiosità va rilevato che l’Uzbekistan insieme al Lichtenstein è uno dei due Paesi al mondo senza doppio sbocco sul mare.
Significa che né l’Uzbekistan né i Paesi confinanti hanno sponde su mari aperti o oceani. Le nuove vie della Seta (Bri) contribuiranno a diminuire la marginalizzazione, ma saranno più utili a mettere la regione al centro dal punto di vista strategico e logistico, prima ancora che economico in senso stretto.
La delicata situazione attuale impone alle repubbliche dell’Asia Centrale un certo equilibrismo diplomatico sui vari temi di politica internazionale. Prendere apertamente posizione contro la Russia sull’Ucraina significherebbe ad esempio mettere a rischio di rimpatrio i 3 milioni di lavoratori uzbechi nella Federazione, con ammanco delle sostanziose rimesse e incremento della disoccupazione legata al rientro.
Per contro recentemente si è assistito ad un fenomeno migratorio in senso inverso, dove giovani russi hanno raggiunto Tashkent ed altre metropoli per sfuggire alla mobilitazione parziale voluta dal loro governo in seguito alla guerra in Ucraina (almeno nel primo anno di conflitto).
Il fenomeno si è poi affievolito man mano che alcune categorie sono state esentate (ad esempio tecnici informatici, ecc.) ma l’evidenza è ancora riscontrabile nell’alto costo degli affitti. L’immigrazione ha anche riguardato gli ucraini in fuga dalla guerra, ed alcuni dal reclutamento forzato. Il governo uzbeko ha subito dichiarato la sua neutralità vietando manifestazioni tanto da una parte che dall’altra e proibendo perfino l’ostensione di bandiere dai balconi privati.
La dipendenza dall’estero dei Paesi vicini perfino peggiore: le rimesse da lavoratori verso il Tagikistan rappresentano ben il 51% del Pil (record mondiale nel 2022), mentre per il Kirghizistan significano il 31%, rappresentando ovunque ossigeno vitale per l’economia e per l’equilibrio sociale.
Un equilibrio difficile da mantenere anche nei confronti degli altri Paesi indirettamente belligeranti: lo scorso mese di marzo il Segretario di Stato americano Antony Blinken si è recato in visita a Tashkent ed ha affermato che l’Uzbekistan con i suoi 36 milioni di abitanti è un Paese importante e pertanto deve prendere posizione schierandosi. Il presidente Shavkat Mirziyoyev ha risposto che avrebbe fatto il volere del suo popolo, non senza una certa enfasi demagogica, ma in sostanza non si è schierato in favore delle sanzioni.
Oltre al tema delle rimesse degli emigrati, l’Uzbekistan (ed in generale tutte le Repubbliche Asiatiche) ricavano preziosa valuta dai turisti russi impossibilitati ad andare in Europa, nonché al considerevole business delle triangolazioni di prodotti sotto sanzione. Le merci arrivano soprattutto via Turchia, ma anche tramite altri Paesi dell’Est Europa, dove i carichi vengono piombati e via camion o ferrovia arrivano in Uzbekistan; da qui passano in Russia senza problemi.
Lo stesso presidente Mirziyoyev ha attuato una serie di riforme volte ad aprire il Paese al mondo, allentando la morsa poliziesca, favorendo il turismo anche tramite l’eliminazione dei visti da molti Paesi, cercando non senza difficoltà di emanciparsi dal giogo del cotone (che costava sanzioni imposte dai Paesi occidentali), riformando il fisco e normalizzando i rapporti con i Paesi confinanti tramite la ricerca di compromessi territoriali.

Cenni di liberalizzazione si riscontrano anche in dettagli quali la possibilità di fotografare gli splendidi interni delle stazioni della metropolitana di Tashkent, prima ritenuti obiettivi sensibili. Al tempo stesso è stata data nuovamente voce ai muezzin (o meglio, agli altoparlanti situati in cima ai minareti) per chiamare i fedeli alla preghiera: sotto Karimov era proibita per non stimolare eventuali derive fondamentaliste.
L’allentamento della morsa va anche visto nell’ottica di un diminuito rischio di attentati di matrice islamica. La valle di Fergana è tradizionalmente conservatrice e l’interpretazione dell’islam è di stampo tradizionale, ma attualmente sembra che le derive fondamentaliste non rappresentino un pericolo. Certo il ritorno al potere dei talebani nel vicino Afghanistan è un latente quanto rischioso fattore di contagio, tanto che il governo di Tashkent fa di tutto per laicizzare la società, fino a valutare l’ipotesi di vietare il velo.

Il passato prossimo sotto l’egida di Mosca ha in qualche modo irretito le menti, amministrandone il pensiero e creando anche in Asia una versione di homo sovieticus squadrato come le sue architetture, in aperto contrasto con la mentalità arabo islamica dove di squadrato c’è poco, tanto nel modo di pensare quanto nelle forme artistiche. Ma i tempi cambiano al ritmo dei governi ed una geografia apparentemente ostile può restituire centralità all’Asia Centrale, in un amarcord che ha ben poco di romantico e potrebbe riqualificarla come nuova (croce)via della seta.
Foto in evidenza: Luigi Lanfranco