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Balcani occidentali: iniziative per rilanciare il processo di integrazione

I Paesi dei Balcani occidentali tra dispute e la questione dell'adesione all'Ue. Da Open Balkan alla nuova metodologia di allargamento

«L’Unione Europea non è completa senza i Balcani occidentali». Queste le parole che l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha pronunciato durante la sua prima visita ufficiale in Kosovo, il 30 gennaio 2020.

A partire dalla fine degli anni ’90 con la conclusione dei conflitti che hanno incendiato l’ex Jugoslavia, l’Ue persegue l’obiettivo di garantire la pace, la stabilità e lo sviluppo della regione tramite il processo di integrazione.

Più di due decenni dopo però, questa politica non ha ancora dato i frutti sperati. Nonostante tutti questi Paesi siano inseriti in una prospettiva – più o meno chiara – finalizzata ad una loro adesione, ad oggi, soltanto Slovenia (2004) e Croazia (2013) sono Stati membri.

Il cammino intrapreso da Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia e Kosovo si è invece rivelato complesso e caratterizzato da questioni storiche ancora aperte, dispute bilaterali, territoriali e linguistiche che ne hanno ostacolato il progresso.

Sullo sfondo, permangono i forti interessi di alcuni attori terzi – dalla Russia alla Cina, dagli Stati Uniti alla Turchia – intenzionati a dire la loro circa il futuro a breve e medio termine della regione e che l’Ue non può sottovalutare data la vicinanza geografica, l’importanza strategica e securitaria di questa zona per tutto il continente.


L’azione dell’Ue

Considerando gli aspetti economici e commerciali, l’Ue è l’attore di gran lunga più influente nell’area. Leggendo gli ultimi dati forniti da Eurostat, quasi il 70% delle esportazioni dei suddetti sei Paesi è diretto verso Stati membri, dai quali provengono più della metà delle loro importazioni. Tra tutti, la Serbia ha visto crescere il volume dell’export del 6,5% annuo tra il 2010 e il 2020; a ruota tutti gli altri che, seppur con tassi minori, hanno registrato significativi incrementi.

L’Unione fornisce anche una robusta assistenza macrofinanziaria: per far fronte alle conseguenze della pandemia di Covid-19 e riconoscendo «il ruolo chiave dei Balcani occidentali nelle catene del valore mondiale che riforniscono l’Ue», la Commissione europea ha previsto lo stanziamento di più 14 miliardi di euro di fondi IPA (Instrument for Pre-accession Assistance) per il periodo 2021-2027, investimenti che si prevede possano arrivare fino a 20 miliardi di euro utilizzando il nuovo strumento di garanzia per i Balcani occidentali.

Inoltre, la Commissione ha elaborato un nuovo pacchetto di aiuti economici – dal valore di un miliardo di euro – per contrastare gli effetti a breve e medio termine della crisi energetica conseguente alla guerra in Ucraina. Si tratta di interventi significativi, tenendo presente che il Pil complessivo della regione è poco maggiore di quello della Toscana.

I motivi dello stallo

Nonostante questo, l’adesione dei sei Paesi è in stallo ormai da anni a causa di errori non solo di quest’ultimi ma dell’Ue stessa. Si pensa che la motivazione principale sia causata da una mancanza di commitment degli Stati membri che, negli ultimi 15 anni, hanno dovuto far fronte a crisi di vario tipo – da quella economica del 2008 a quella migratoria dal 2015, fino alle più recenti provocate dalla pandemia di coronavirus e dall’aggressione russa in Ucraina – tralasciando così in secondo piano la questione dell’allargamento.

Oltre a ciò, senza una riforma che introduca il sistema di voto a maggioranza qualificata in sede di Consiglio per questa materia, si correrà il rischio che future e nuove dispute bilaterali ostacolino nuovamente le iniziative di adesione: si pensi alla decennale disputa tra l’allora Repubblica di Macedonia e la Grecia e quella più recente tra Bulgaria e Macedonia del Nord, ancora non risolta.  

D’altro canto, sorgono numerose preoccupazioni quando si osserva quanto poco i sei Paesi in questione abbiano fatto per ridurre il livello di corruzione – questa ben percepibile a partire dagli apparati giudiziari – e migliorare lo stato della propria democrazia e rule of law. Il celebre rapporto annuale pubblicato dalla Ong americana Freedom House, che misura il livello di libertà civili e diritti politici nei Paesi del mondo, classifica tutti questi Stati come “parzialmente liberi” e ben lontani da alcuni standard europei considerati prerequisiti fondamentali per l’accesso all’Unione.

Mentre recenti sondaggi sottolineano come almeno la maggioranza relativa della popolazione di ogni Paese sia favorevole all’ingresso nell’Unione Europea, si nota la difficoltà di molti leader politici ad intraprendere le riforme e le politiche necessarie a colmare il divario con gli altri membri e soddisfare i criteri dell’acquis communautaire.

Più rilevanti ancora i diversi “contesti” in cui essi sono inseriti. Oltre alla già menzionata disputa che ha frenato la Macedonia del Nord – e in modo indiretto l’Albania – la Bosnia-Erzegovina è ostacolata dall’assetto costituzionale su cui è stata “costruita” a partire dagli Accordi di Dayton del 1995 e le conseguenti tensioni tra le tre comunità territoriali che la compongono (bosgnacchi, serbi e croati).

Serbia e Kosovo – quest’ultimo non riconosciuto da cinque Stati membri – sono invece impegnati, tra alti e bassi, nel difficile dialogo che dovrebbe concludersi con un accordo vincolante per normalizzare le loro relazioni. In ultimo il Montenegro che, nonostante abbia visto aprire i negoziati di adesione già nel 2012, è stato ostacolato da un intenso periodo di instabilità e divisioni politiche.

L’iniziativa tedesca

Una delle iniziative più incisive per risolvere lo stallo in questione è il “Processo di Berlino”, lanciato già nel 2014 dall’ex Cancelliere tedesco Angela Merkel. Con gli obiettivi primari di facilitare i vari processi di riforma e di risoluzione di dispute bilaterali tra i Paesi dei Balcani occidentali, l’azione diplomatica è stata una risposta alle parole dell’allora Presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, intenzionato a mettere “in pausa” il processo di allargamento almeno per i successivi cinque anni.

I Paesi che partecipano al “Processo di Berlino”; in grado scuro i Paesi non Ue, in grado medio i Paesi Ue, in verde chiaro i Paesi non partecipanti | Wikimedia Commons

Un decennio dopo l’avvio del Processo, si ritiene che questo sia stato un forum di dialogo fondamentale tra i Paesi della regione e tra questi e gli altri partecipanti, tra cui Italia, Regno Unito, Francia, Grecia e la stessa Germania. Esso è stato infatti in grado di tenere viva l’attenzione sul tema, sapendo coinvolgere anche i vari attori della società civile, i quali hanno potuto partecipare ai vertici intergovernativi e dire la loro in un’ottica di maggiore trasparenza e democraticità.  

L’interesse di Berlino verso la regione è di lunga data ma è cresciuto di grado a partire dalla metà del decennio scorso a causa del sempre maggiore numero di migranti – provenienti in gran parte dalla Siria, dove imperversava la guerra civile, e diretti soprattutto in Germania – che hanno deciso di intraprendere la “rotta dei Balcani occidentali” per spostarsi verso i Paesi dell’Unione.

Sempre su impulso del Processo di Berlino e per perseguire gli obiettivi fissati da quest’ultimo, nel 2018 è stata proposta dal Primo Ministro dell’Albania, Edi Rama, la creazione di un’area di libero scambio e libera circolazione di merci e persone nei Balcani occidentali, poi denominata “Open Balkan”.     

Una “mini-Schengen”?

Annunciata nel 2019 dai leader di Albania, Macedonia del Nord e Serbia ed entrata effettivamente in vigore solo nel 2021, l’iniziativa è descritta come «un’opportunità per rafforzare la cooperazione economica regionale, promuovere le quattro libertà di movimento su cui si basa l’integrazione europea e superare le barriere sociali, economiche e commerciali che ostacolano la crescita della regione».

La novità più significativa del progetto è l’assenza di ogni tipo di partecipazione da parte degli Stati membri. In altre parole, è un’azione di alcuni Paesi della regione per lo sviluppo della regione stessa, anche a causa di una protratta mancanza di iniziativa da parte dell’Ue.

Tra i maggiori successi di Open Balkan vi sono alcuni accordi volti ad armonizzare le procedure di controllo ai valichi di frontiera, riducendo così i tempi di attesa, e altri per il riconoscimento reciproco degli operatori economici autorizzati.

La debolezza principale è invece data dal fatto che non tutti i Paesi dell’area vi abbiano aderito. In particolare, Pristina ha sottolineato il rischio che la piccola “comunità” venga dominata dagli interessi di Belgrado che, così facendo, agirebbe ancor più come testa di ponte per le azioni russe (e cinesi) nei Balcani.

Sembra quindi che questo tipo di cooperazione regionale – seppur importante per un maggior sviluppo, anche economico – sia destinata a sortire pochi effetti sulle possibilità di adesione all’Ue di queste nazioni.

Aleksandar Vucic, Zoran Zaev ed Edi Rama durante l’incontro del 2021 | Wikimedia Commons

Una nuova strategia

Mentre nel 2019 il processo di allargamento subiva una nuova battuta di arresto a seguito della decisione francese di rimandare l’apertura dei negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord (era stato firmato da poco l’accordo di Prespa), la Commissione europea ha deciso di riformulare la metodologia di allargamento, in modo più pragmatico, andando incontro alle richieste provenienti, in primo luogo, da Parigi.

Nella comunicazione della Commissione (intitolata “Rafforzare il processo di adesione – Una prospettiva europea credibile per i Balcani occidentali”) spicca il ruolo più rilevante che viene assegnato al Consiglio – e quindi agli Stati membri – che avranno più possibilità di esaminare, monitorare e prendere parte alle trattative per l’allargamento.

Inoltre, viene richiesto un maggiore impegno da parte dei leader dei Balcani occidentali nell’attuare le necessarie riforme circa lo Stato di diritto, la lotta alla corruzione, l’economia e il buon funzionamento delle istituzioni, ribadendo come i futuri negoziati sulle questioni fondamentali “saranno avviati per primi e chiusi per ultimi”.


In ultimo, si prevedono dei “bonus” – ovvero maggiori investimenti e finanziamenti, ma anche un’accelerazione dell’intero processo di integrazione – a favore dei Paesi candidati in grado di progredire sui capitoli di riforma più importanti, accompagnati altresì da alcune misure in grado di sanzionare «qualsiasi stallo o regresso grave o prolungato».

Alessandro Taviani

Sono nato nel 1998 e abito in provincia di Firenze. Storia è da sempre la mia materia preferita ma da anni studio e mi interesso di politica internazionale, delle relazioni tra Stati e del mondo della diplomazia. Laureato in Scienze Politiche nel 2021, adesso sono laureando presso la magistrale di Studi Internazionali dell'Università di Pisa. Collaboro con Aliseo per il puro piacere di scrivere e approfondire temi inerenti all'attualità.

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