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Benedetto XVI: profilo storico di un pontificato – Agostino Borromeo

Il legato teologico, ecclesiologico e spirituale di Benedetto XVI come papa è vastissimo. Un viaggio nel pontificato di Ratzinger

benedetto xvi

Sabato 31 dicembre 2022, verso le nove e mezza del mattino, è serenamente spirato il papa emerito Benedetto XVI. Dopo la sua rinuncia al papato, annunciata l’11 gennaio 2013 e divenuta effettiva il successivo 28 febbraio, si era ritirato nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano, dal quale, negli anni seguenti, uscì in poche rare occasioni. Lo stato di salute del novantacinquenne pontefice emerito era andato peggiorando negli ultimi giorni, al punto che nel corso dell’udienza generale del mercoledì 21 dicembre, papa Francesco aveva invitato i fedeli a pregare affinché il Signore potesse sostenerlo nella sua testimonianza «di amore alla Chiesa fino alla fine».

In effetti, l’amore per la Chiesa è indubbiamente – insieme allo studio delle Sacre Scritture e alla riflessione teologica – la principale chiave di lettura di tutta la vita sacerdotale ed episcopale dello studioso Joseph Ratzinger, nonché dell’intero suo pontificato. Lo attesta la pregnante frase posta alla fine del testamento spirituale, reso pubblico poche ore dopo il suo decesso: «Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita [citazione dal vangelo di Giovanni 14, 6] e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo». Si tratta di una sintetica professione di fede, pubblicamente professata e intensamente vissuta per un’intera esistenza.

La vita di Benedetto XVI

Joseph Ratzinger era nato a Marktl am Inn, villaggio dell’Alta Baviera, il 16 aprile 1927, come terzo figlio di famiglia umile, ma profondamente religiosa, tant’è vero che sia il secondogenito Georg (1924-2020), sia il più giovane Joseph entrarono in seminario e furono ordinati sacerdoti il medesimo giorno, il 29 giugno 1951.

Joseph, dotato di un‘intelligenza acuta e profonda, proseguì gli studi. Conseguì il dottorato in teologia dogmatica nel 1953 e la libera docenza nel 1957. Da quell’anno prese l’avvio una brillante carriera accademica, culminata, nel 1969, con la titolarità delle cattedre di teologia dogmatica e di storia dei dogmi nell’università di Ratisbona. Nel frattempo, aveva avuto l’occasione di vivere una grande esperienza: la sua partecipazione alle quattro sessioni del Concilio Vaticano II (la prima aperta da Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962, l’ultima conclusa da Paolo VI l’8 dicembre 1965).

Ratzinger prese parte ai lavori nella sua veste di esperto. Durante i lavori conciliari, il giovane professore ebbe l’occasione di conoscere e farsi conoscere. Divenne così una personalità nota, anche per le opere che a mano a mano andava pubblicando. Non stupisce, pertanto, che, il 25 marzo 1977, Paolo VI lo nominasse arcivescovo di Monaco di Baviera e Freising, e, poco più di due mesi più tardi, il 27 giugno successivo, lo creasse cardinale.

A soli cinquant’anni, Ratzinger ascendeva ai vertici della Chiesa. Ma era soltanto l’inizio. Il 25 novembre 1981, Giovanni Paolo II lo chiamava a Roma per assumere l’incarico di Prefetto dell’allora Congregazione per la Dottrina della Fede. A un giornalista che gli chiedeva se egli non si sentisse a disagio, come teologo, per essere stato investito del compito di controllare il lavoro di altri teologi, egli diede una risposta consentanea alla sua personalità. Mai avrebbe egli accettato quell’incarico se fosse consistito principalmente in un’opera di controllo.

Aveva invece acconsentito a svolgere il servizio richiestogli, perché, con la riforma della Congregazione voluta da Paolo VI, nel 1965, all’istituzione era stato assegnato l’obiettivo prioritario di promuovere la retta dottrina per dare nuovo impulso all’evangelizzazione. A partire dal momento della sua nomina si creò uno stretto rapporto di collaborazione con Giovanni Paolo II, il quale non volle accettare le dimissioni, per raggiunti limiti di età (75 anni) del cardinale, sicché quest’ultimo, a 78 anni, era ancora in carica quando morì il pontefice. Nel contesto di questa stretta relazione, furono elaborate dalla Congregazione e approvate dal papa censure individuali e due documenti di condanna della teologia della liberazione di ispirazione marxista.

A prescindere dall’attività censoria, Ratzinger caldeggiò, sin dal 1983, una fondamentale iniziativa: quella di promuovere la dottrina attraverso la compilazione di una nuova stesura del catechismo. Ricevuta l’approvazione di Giovanni Paolo II nel 1986, il cardinale dedicò particolari cure a questo nuovo compito, coordinando il lavoro di una commisione. Al termine di sei anni di lavoro, il porporato poté presentare al papa, il 25 giugno 1992, la prima copia del Catechismo della Chiesa Cattolica, da lui concepito come strumento in grado di orientare la fede dei cattolici alla vigilia del Terzo Millennio.

Il suo servizio alla Chiesa non impediva al cardinale di vederne le pecche. Notevole eco suscitò la denuncia, contenuta nel suo commento alla IX stazione della Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo, il 25 marzo 2005: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui», cioè a Cristo. Già all’epoca quelle parole furono interpretate come una denuncia dei delitti di pedofilia commessi da chierici, dei quali cominciavano a circolare notizie.

Otto giorni più tardi, il 2 aprile 2005, moriva Giovanni Paolo II. Dal successivo conclave usciva eletto, il 19 aprile 2005, il settantottenne cardinale Ratzinger. Il nuovo pontefice sceglieva il nome di Benedetto, in onore di san Benedetto da Norcia, patrono d’Europa, e di Benedetto XV, il papa che tentò di prevenire lo scoppio della I Guerra Mondiale, e poi di promuovere invano trattative di pace tra le potenze belligeranti.

Il contributo spirituale di Benedetto XVI

Il legato teologico, ecclesiologico e spirituale di Benedetto XVI come papa è vastissimo. Esso è consegnato in tre encicliche, quattro esortazioni apostoliche, innumerevoli omelie, discorsi e altri documenti, oltre ai tre volumi del suo Gesù di Nazaret (2007-2012, tradotto in 53 lingue, per un totale di oltre 7 milioni di copie stampate). [1] Non potendo approfondire, per ovvie ragioni di spazio, un campo così vasto, mi limiterò a segnalare la prima enciclica Deus caritas est (25 dicembre 2005), perché è il testo che più efficacemente esalta la bellezza della fede cristiana. Dio ama ogni singola persona. E i credenti, nello scoprire questo dono divino, debbono non solo ricambiarlo, ma anche estenderlo al prossimo, come insegnano le Sacre Scritture e il Magistero della Chiesa.

L’umiltà manifestata da Benedetto XVI subito dopo la sua elezione sarà messa a dura prova nel corso del suo pontificato per alcune violenti critiche ad alcune sue iniziative. Il primo attacco si verificò in seguito a una lectio magistralis tenuta il 12 settembre 2006 dal pontefice nella sua antica università di Ratisbona. Nel contesto di una esposizione erudita, Benedetto XVI citò – definendo lo scritto «per noi inaccettabile» – un testo dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo nel quale questi denunciava le incitazioni alla violenza contenute nel Corano. Quella citazione, estrapolata dal suo contesto, scatenò sollevazioni popolari nel mondo islamico e, persino, assalti a chiese cattoliche. Il papa si scusò pubblicamente, spiegando che il suo discorso intendeva essere un invito al dialogo. Comunque sia, riletto oltre quindici anni dopo, il discorso di Benedetto XVI rimane una profonda riflessione sul rapporto tra fede e ragione, con la conseguente condanna della violenza ispirata da motivazioni religiose.

Altro momento di tensione fu originato da un evento puramente interno alla Chiesa cattolica. Il 21 gennaio 2009 Benedetto XVI revocava la scomunica fulminata contro quattro vescovi consacrati illecitamente dall’arcivescovo ultraconservatore e scismatico Marcel Lefebvre, anch’egli scomunicato. Avendo gli interessati manifestato il loro pentimento e chiesto di essere riammessi alla piena comunione ecclesiale, il papa aveva deciso di compiere questo primo passo in vista di una loro successiva reintegrazione in seno alla Chiesa cattolica.

Il suo gesto di perdono doveva scatenare reazioni imprevedibili: risultò, a cose fatte, che uno dei quatto vescovi, il britannico Richard Williamson, in precedenza aveva negato la realtà della Shoah. La notizia suscitò un vespaio, sia in campo ebraico, sia tra i cattolici ostili ai lefevriani. Il pontefice ammise che nella Curia romana si ignorava la posizione di Williamson, ma riuscì ad appianare il conflitto.

In una lettera del 10 marzo 2009, indirizzata a tutto l’episcopato cattolico, ribadì il suo dovere di ricomporre, ove possibile, l’unità della Chiesa, sottolineò che la rimozione di una sanzione disciplinare (la scomunica) non implicava l’autorizzazione all’esercizio legittimo di alcun ministero nella Chiesa e ringraziò «gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che … è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere». Il ristabilimento di un clima di rappacificazione con il mondo ebraico risultava fondamentale, perché, in quel momento, era in preparazione il viaggio papale in Israele, al quale si accennerà più avanti. Tuttavia l’episodio metteva il pontefice dinnanzi a una amara realtà: l’ostilità di alcuni ambienti cattolici contro certi indirizzi del suo governo.

Ma questa, per la verità, è stata una realtà alla quale altri papi prima di lui avevano dovuto far fronte. Né impedì a Benedetto XVI di raggiungere, durante il suo pontificato, storici traguardi. Nell’esaminare l’intera sua azione di governo risulta palese che una delle sue priorità fu quella di adoprarsi per la integrale e corretta applicazione del Concilio Vaticano II. Sin dalla prima udienza concessa alla Curia romana, il 22 dicembre 2005, il pontefice aveva notato la difficolta della ricezione dei decreti conciliari in grandi parti della Chiesa. Egli ne attribuiva la causa a una mancata loro corretta interpretazione (“giusta ermeneutica”). Da un lato individuava l’interpretazione distorta che privilegiava l’aspetto della discontinuità rispetto al passato, spesso esaltata dai mass-media; dall’altro, quella corretta che sottolineava lo sforzo di “rinnovamento nella continuità” compiuto dalla Chiesa.

Sullo stesso argomento sarebbe tornato alla fine del suo pontificato, in un incontro con il clero di Roma, avvenuto il 14 febbraio 2013, tre giorni dopo l’annuncio della sua rinuncia. In quella circostanza, Benedetto XVI richiamava le due categorie del concilio dei media e del vero concilio, notando con soddisfazione come quest’ultimo si andasse ormai manifestando «con tutta la sua forza spirituale». Evidentemente il pontefice dimissionario aveva la percezione che i suoi infaticabili sforzi cominciassero a produrre i loro frutti.

La “sporcizia” nella Chiesa

L’altro fronte sul quale il papa si impegnò strenuamente fu quello della lotta contro la “sporcizia” nella Chiesa. Già da cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il futuro papa aveva inasprito, nel 2001, le norme contro il delitto di pedofilia commesso da chierici. Benedetto XVI fu il primo pontefice a volere incontrare le vittime degli abusi: iniziò questa pratica il 17 aprile 2008, durante la visita apostolica negli Stati Uniti, e la proseguì poi nei successivi viaggi.

Fu anche il primo pontefice a chiedere pubblicamente, nel 2010, perdono a Dio e alle vittime, impegnandosi a prendere tutte le misure possibili per impedire il ripetersi di simili delitti. Ed infatti, il successivo 15 luglio la Congregazione pubblicava una serie di misure, approvate in precedenza dal papa e intese a snellire le procedure giudiziarie, aggravando le pene contro gli autori degli abusi.

Ma “sporcizia” vi era anche nell’amministrazione delle finanze della Santa Sede. Scandali erano emersi nell’ultimo quindicennio del pontificato di Giovanni Paolo II. Dopo la sua elezione, Benedetto XVI iniziò a sostituire, in modo discreto, secondo il suo stile, i precedenti dirigenti con persone irreprensibili di sua fiducia. Nel 2010 promulgò le prime norme vaticane volte alla creazione di nuovi organismi di controllo finanziario, nonché alla prevenzione e al contrasto del riciclaggio dei proventi di attività criminose ovvero del loro impiego per finanziare il terrorismo. In questa materia, ha spianato la strada alle più articolate riforme poi effettuate da papa Francesco.

I viaggi di Ratzinger

Alla stregua di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI compì numerosi viaggi. Alto valore simbolico ebbe la sua visita, nel 2006, al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Primo papa tedesco a recarvisi, di fronte all’orrido scenario che si schiudeva dinnanzi ai suoi occhi, lanciò un’esclamazione angosciata. Solo il silenzio poteva in quei luoghi essere adeguato, ma «un silenzio che è un interiore grido verso Dio: perché hai potuto tollerare tutto questo?» (discorso del 28 maggio 2006). Fu anche il primo pontefice, dopo lo scisma di Enrico VIII del 1534, a incontrare, all’inizio suo viaggio apostolico in Gran Bretagna (16-19 settembre 2010), la regina Elisabetta II e il principe consorte Filippo, a Edimburgo, e a tenere un discorso sul ruolo della religione nella società, a Londra, nell’edificio che ospita il parlamento inglese. Altro incontro storico avvenne alla Habana, durante il viaggio a Cuba (26-28 marzo 2012), allorquando presso la locale nunziatura apostolica ricevette Fidel Castro.

Tra tutti i suoi viaggi di Benedetto XVI uno speciale rilievo assume il pellegrinaggio apostolico in Terra Santa (8- 15 maggio 2009). Sin dall’inizio, il pontefice volle chiarire che egli si recava in quei Luoghi Santi prima di tutto come semplice pellegrino, forse per sgomberare il campo da opposte interpretazioni politiche del suo viaggio. «Come innumerevoli pellegrini prima di me, è ora il mio turno di soddisfare il profondo desiderio di toccare, di trarre conforto dai luoghi dove Gesù visse e che furono santificati dalla sua presenza e di venerarli». Nel confronto delle autorità laiche, il papa mantenne un atteggiamento di rigorosa equidistanza. Visitò, in Israele, il Mausoleo di Yad Vashem, eretto in memoria delle vittime dell’Olocausto, e, nei Territori palestinesi, l’Aida Refugee Camp, il campo profughi situato a ridosso del muro che divide Betlemme.

Un’apertura nei confronti delle autorità civili, in tutt’altra area del mondo, è contenuta nella lettera ai cattolici nella Repubblica Popolare Cinese del 27 maggio 2007, indirizzata tanto a quelli in comunione con Roma, quanto ai seguaci dei vescovi consacrati illecitamente, senza mandato pontificio e soggetti all’autorità statale. Il pontefice, oltre a impartire a tutti orientamenti circa la vita pastorale, auspicava l’individuazione di vie di dialogo con il potere civile. L’iniziativa non diede risultati apparenti, ma ha, anche in questo caso, aperto la via alle recenti iniziative di papa Francesco.

La rinuncia

E arriviamo all’epilogo, la rinuncia al papato, un atto per molti ancora oggi incompreso. Ciò che la maggioranza dei cattolici ignora è che tale atto risulta espressamente contemplato dal Codice di Diritto Canonico del 1983. Nel canone 332, paragrafo 2, la rinuncia del papa è prevista alle esplicite condizioni che sia fatta in piena libertà e che venga debitamente manifestata. Al termine del concistoro ordinario (la riunione dei cardinali presenti a Roma) riunita l’11 febbraio 2013 per tre canonizzazioni, l’ormai ottantacinquenne Benedetto XVI lesse un breve testo.

In esso dichiarava: «[…] Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Di conseguenza «con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro». Le condizioni previste dal diritto canonico erano rispettate: il papa si era pronunciato in «piena libertà» e in forma debita, visto che l’annuncio era stato manifestato in una riunione solenne di cardinali.

Fu un atto di umiltà, di coraggio e di responsabilità. Di umiltà, perché non era facile ammettere pubblicamente di non avere più le energie adeguate ad adempiere i propri compiti. Di coraggio, perché il papa sapeva che non sarebbero mancate le incomprensioni e le critiche. Di responsabilità, perché esprimeva la consapevolezza che il Successore di Pietro deve poter disporre della pienezza delle proprie forze per affrontare le gravose responsabilità connesse all’ufficio. Tutti questi elementi riflettono l’altissima concezione che Benedetto XVI aveva del proprio ministero come servizio.

Foto in evidenza: Marek.69 talk – Marek Kośniowski, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5544448

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