La visita di Joe Biden ad Hanoi che si è tenuta tra il 10 e l’11 settembre, congiuntamente a un summit cui hanno partecipato i rappresentati di importanti società americane e vietnamite, è di per sé storica: per la prima volta un presidente degli Stati Uniti è entrato nella sede centrale del Partito Comunista del Vietnam.
L’accordo al centro dell’incontro è di portata ugualmente rilevante: gli Stati Uniti sono ora elevati al rango di “Partner strategico globale”, qualifica prima riservata solo a Cina, India, Russia e Corea del Sud. Il significato formale di tale status indica semplicemente che il Vietnam e il Paese partner condividono interessi politici a lungo termine, e non implica necessariamente un’alleanza in ambito militare o di sicurezza.
Tuttavia, l’inclusione degli Stati Uniti tra i partner di maggior prestigio del Vietnam potrebbe suonare come un campanello d’allarme per Pechino, che ora vede Washington rivendicare un nuovo accordo con un Paese asiatico, dopo quelli stipulati con Giappone, Corea del Sud e Filippine.
Mare Cinese Meridionale e fiume Mekong: tensioni tra Cina e Vietnam
Hanoi nutre ormai da tempo una crescente preoccupazione per le politiche di Pechino, i cui punti di maggiore attrito riguardano le contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale e la gestione dei flussi del fiume Mekong.
Nel Mar Cinese Meridionale le tensioni tra Vietnam e Cina sono generate dalle reciproche rivendicazioni per le rispettive Zone Economiche Esclusive. Le isole Spratly, arcipelago vitale per le rotte marittime e ricco di giacimenti di idrocarburi e risorse ittiche, sono oggetto di contesa anche da parte degli altri Paesi della regione, tra cui Filippine e Taiwan. Negli ultimi anni si sono intensificati gli scontri tra pescherecci vietnamiti e guardia costiera cinese, che non esita a fare uso di speronamenti e idranti per allontanare le imbarcazioni vietnamite.
A dimostrazione dell’importanza strategica della regione è la militarizzazione di alcune delle isole artificiali costruite dalla Repubblica Popolare Cinese, la cui vicinanza alle coste vietnamite è motivo di inquietudine per Hanoi. In risposta negli ultimi anni il Vietnam ha implementato i lavori di drenaggio in molti degli atolli in possesso, raggiungendo una misura ancora nettamente inferiore rispetto agli ettari a disposizione dalla Cina, ma la cui portata è significativamente più ampia rispetto ai precedenti sforzi per il rafforzamento della sua posizione nelle Spratly.
Una situazione analoga vede contrapposti di nuovo Hanoi e Pechino nel secondo arcipelago più importante del bacino, quello delle Isole Paracelso, occupate dalla Cina nel 1974.
Un’altra criticità tra il rapporto sino-vietnamita è rappresentata dalle numerose dighe che Pechino ha costruito negli ultimi anni lungo il corso del fiume Mekong, il corso d’acqua che sfocia nel Mar Cinese Meridionale e attraversa Myanmar, Thailandia, Cambogia, Laos e Vietnam.
La Repubblica Popolare, controllando la parte superiore del fiume, ha la capacità di poter fermare il corso dell’acqua del Mekong inferiore, provocando importati problemi ambientali e economici per i Paesi in cui scorre. Si tratta della cosiddetta “Guerra dell’acqua”, strumento che Pechino può sfruttare a proprio piacimento per aumentare la propria influenza sugli Stati della regione.
La “Diplomazia del bambù”: il Vietnam apre agli Stati Uniti, ma non chiude a Mosca
Ciononostante, il governo del Vietnam ha sempre preferito evitare di generare un’escalation mantenendo costanti rapporti diplomatici con Pechino piuttosto che alimentare le tensioni con manovre azzardate. L’azione vietnamita in politica estera si contraddistingue proprio per la capacità di non privarsi dalla possibilità di dialogo con nessun Paese, in linea con la cosiddetta “Diplomazia del bambù”.
Un approccio alla politica internazionale flessibile che consente al Paese di districarsi nella politica estera associandosi secondo convenienza a quei paesi che più possono essere d’aiuto a soddisfare i propri interessi. Il termine è stato coniato dal Segretario del Partico Comunista Nguyễn Phú Trọng nel 2016 per richiamarsi alle caratteristiche del bambù, la cui forza delle radici si traduce nella flessibilità dei rami, metafora della resilienza e indomabilità vietnamita.
La “Diplomazia Bambù” ha origine con il fallimento dell’alleanza con l’Unione sovietica durante la guerra fredda, quando Mosca decise di interrompere il proprio supporto ad Hanoi durante l’invasione della Cambogia dei “Khmer Rossi” per rafforzare le relazioni con i cinesi, che invece sostenevano il governo cambogiano. Da allora i leader vietnamiti compresero i possibili rischi derivati delle alleanze militari in politica estera, e trassero da questa lezione la dottrina che poi avrebbe guidato la successiva politica di non allineamento.
Una chiara manifestazione del pragmatismo di Hanoi consiste nella politica di Difesa dei “Quattro no”: il governo si proibisce dallo stipulare alleanze militari, ammettere basi straniere sul proprio territorio, allinearsi con un secondo Paese contro un terzo, e ricorrere all’utilizzo della forza per la risoluzione delle dispute internazionali. Questi quattro divieti possono essere violati alla sola condizione che la stessa sicurezza e sovranità vietnamita siano messa in pericolo.
A dimostrazione delle capacità di Hanoi di muoversi contemporaneamente su più fronti, proprio nei giorni del rafforzamento dei rapporti bilaterali con Washington, un articolo del New York Times ha riportato un accordo segreto riguardante l’acquisto da parte del Vietnam di un grande quantitativo di armi dalla Russia, contravvenendo alle sanzioni degli Stati Uniti.
L’accordo, per quanto rischioso, potrebbe andare a soddisfare due impellenti esigenze per il Vietnam: da una parte un aggiornamento degli aerei di combattimento, volto a sostituire i modelli antiquati in possesso dell’esercito; e dall’altra una fornitura a lungo termine di petrolio per sostenere la rapida crescita economica del Paese. L’indiscrezione si basa su un documento proveniente dal ministero delle finanze vietnamite e datato a marzo 2023, e non ha ricevuto commenti né da parte di Washington, né da parte di Hanoi.
Semiconduttori e terre rare: leggere la cooperazione tra Vietnam e Stati Uniti
In virtù della politica di non allineamento vietnamita, la nuova partnership stipulata tra Biden e il Segretario generale del Partito Comunista Trong non deve essere sovrastimata: Hanoi non permetterà di diventare una pedina geopolitica degli Stati Uniti, e allo stesso tempo, nonostante le reciproche diffidenze, continua a mantenere canali di dialogo con la Cina, e a dimostrare di essere libero di stringere accordi con i nemici dichiarati di Washington.
Lo stesso status di “Partner strategico globale” assegnato agli Stati Uniti, è stato ridimensionato a seguito dell’aggiunta della Corea del Sud a dicembre 2022 e dall’annuncio di Hanoi di star valutando di includervi anche l’Australia, Singapore e l’Indonesia. Questa rapida espansione potrebbe essere indirizzata a minimizzare la portata del miglioramento dei rapporti con gli Stati Uniti agli occhi di Pechino.
Ma nonostante la partnership presenti dei limiti che paiono insormontabili soprattutto nel campo della sicurezza, vi sono altri ambiti in cui la collaborazione tra i due paesi può trovare terreno fertile. Nell’annuncio congiunto al termine dell’incontro, Biden e il Segretario generale del Partito Comunista Nguyễn Phú Trọng hanno sottolineato la necessità di rafforzare la posizione del Paese nella catena di fornitura globale dei semiconduttori.
I semiconduttori sono materiali essenziali per la costruzione dei chip presenti in computer, smartphone e televisori, ma anche negli impianti fotovoltaici e nelle auto elettriche. La forte crescita della domanda di questi prodotti, alimentata dalla pandemia Covid, ha indotto i maggiori importatori a ricercare soluzioni alternative a Taiwan, che da solo detiene il 60% del mercato globale per la fabbricazione di circuiti.
Il Vietnam è stato individuato come Paese particolarmente promettente per la produzione di semiconduttori, in virtù di un costo inferiore del lavoro rispetto a Taiwan e della vantaggiosa posizione geografica, che garantisce un facile accesso alle principali catene di fornitura di semiconduttori del mondo che attraversano Cina, Giappone e Corea del Sud.
Taiwan è tuttora primo produttore mondiale di semiconduttori, tuttavia i chiari rischi geopolitici a cui è soggetta aprono le porte del mercato al Vietnam, che è consapevole dei benefici che questo nuovo ruolo potrebbe garantire al Paese. Ne sono la dimostrazione l’istituzione di un fondo predisposto allo sviluppo dell’industria dei semiconduttori e alla formazione di centri di ricerca, insieme all’adozione di misure volte ad attrarre investimenti esteri.
Gli stati Uniti hanno da tempo intensificato la propria presenza in Vietnam. In concomitanza con la visita americana ad Hanoi si è tenuto il Vietnam-U.S. Innovation & investment Summit, che ha visto la partecipazione di importanti società americane quali Google, Intel e Boeing. L’obiettivo dell’incontro è incentivare le opportunità di cooperazione nell’ambito tecnologico e dell’innovazione.
Hanoi ha intenzione anche di espandere il proprio ruolo nell’estrazione delle terre rare, elementi chimici strategici utilizzati nell’industria dell’elettronica e della difesa, ma anche nel settore medico e fondamentali per la transizione energetica verso fonti rinnovabili (e per l’elettrificazione in generale). Il Vietnam conta sulle seconde riserve di terre rare al mondo, dietro solo alla Cina, che da sola deterrebbe il 40% dei depositi e circa il 70% della produzione mondiale.
Fino ad ora gli investimenti vietnamiti sono stati scoraggiati dai prezzi bassi fissati dalla Cina grazie al potere di monopolio che esercita sul mercato. Manifestazione della posizione cinese è stata la limitazione, in vigore dal primo agosto, alle esportazioni di gallio e germanio, due metalli rari utilizzati nei semiconduttori, per i quali ora gli esportatori dovranno richiedere un’apposita licenza al ministero del Commercio.
I rischi correlati alle restrizioni delle esportazioni e alle controversie con gli Stati Uniti hanno indotto diversi paesi a guardare ad Hanoi come una fonte di approvvigionamento alternativa. Le potenzialità del Vietnam, in termini di capacità industriali e di disponibilità di materie prime, sono di particolare interesse per gli Stati Uniti, che vedono nel Paese asiatico una chiara opportunità per ridurre l’esposizione economica dalla Cina, più che capace di utilizzare il commercio di terre rare come arma geopolitica.
È proprio grazie al supporto degli investimenti stranieri che il governo programma di riavviare la miniera di Dong Pao, la più grande del Paese. Lo sfruttamento efficace di Dong Pao spingerebbe il Vietnam tra i massimi produttori di terre rare e, se unita al programma di sviluppo di ulteriori miniere, potrebbe portare il Vietnam a passare dal 5% al 15% della produzione cinese entro la fine del decennio, accreditandosi come uno dei maggiori attori internazionali in un mercato in forte crescita.
Le criticità interne di Hanoi
Se il Vietnam si trova in una condizione particolarmente favorevole per lo sviluppo della produzione di semiconduttori e per l’estrazione di terre rare, sul fronte economico e sul fronte politico le criticità non mancano. Secondo i dati del governo, nel primo trimestre del 2023 la crescita del Pil si è fermata al 3,3%, dato che ha deluso le aspettative degli analisti finanziari a seguito della crescita registrata nell’anno precedente, pari all’8%.
Le cause di questa improvvisa inversione di tendenza vanno individuate soprattutto dal generale calo dell’espansione dei commerci internazionali registrati finora nell’anno in corso, che ha impattato in modo significativo sull’economia vietnamita, caratterizzata da una forte vocazione all’esportazione. D’altra parte la forte inflazione che ha colpito Europa e Stati Uniti, che insieme rappresentano la destinazione di quasi la metà delle esportazioni del Paese asiatico, ha ridotto ulteriormente le prospettive di crescita del Vietnam.
Sul versante politico, l’anno è cominciato con una serie di avvenimenti che hanno alimentato le incertezze amministrative in Vietnam. A gennaio il presidente Nguyen Xuan Phuc è stato obbligato dal Comitato Centrale del Partito Comunista a presentare le proprie dimissioni in seguito alle accuse per una serie di episodi di corruzioneavvenuti sotto il suo governo. In aggiunta nei mesi successivi diversi burocrati e ufficiali sono stati arrestati con l’accusa di essere responsabili del pagamento di tangenti nell’ambito della fornitura di kit per test Covid durante la pandemia.
Tali provvedimenti vanno letti in riferimento alla campagna anticorruzione avviata dal Segretario generale del Partito Comunista Nguyễn Phú Trọng, il vero leader politico del Paese. L’iniziativa potrebbe essere diretta a indebolire l’ala del partito considerata più pro-occidentale e maggiormente favorevole e nuove aperture economiche, di cui faceva parte l’ex primo ministro Phuc, in contrasto con la fazione cui fa capo lo stesso Trong, che invece vede nella Cina il proprio punto di riferimento ideologico ed è tendenzialmente più conservatrice in ambito economico.
In questo senso non sorprende la nomina a presidente dello scorso marzo di Vo Van Thuong, uomo vicino a Trong, che molto probabilmente porterà a un consolidamento del potere del segretario generale sulla politica del Paese.
Presto però il Vietnam potrebbe ritrovarsi nella condizione di dover scegliere con chi schierarsi: nella visita del 20 ottobre a Pechino, Xi Jingping ha ricordato al presidente Vo Van Thuong del percorso storico che accomuna i due Paesi, sottolineando come entrambi dovrebbero restare fedeli allo spirito originario dei loro rapporti e tenere a mente gli obiettivi e gli ideali condivisi.