La rapida ascesa del filone patriottico nel cinema indiano
L’industria cinematografica indiana, secondo un report del 2021, vale circa 90 miliardi di rupie (oltre 1 miliardo e mezzo di dollari americani). Nonostante la notorietà eclissante del cinema di “Bollywood”, termine che fonde le parole Bombay e Hollywood, il cinema indiano è estremamente diversificato e legato al territorio di produzione. In tempi recenti alcuni colossal, come l’osannato “RRR” (2022) del regista S. S. Rajamouli, prodotti dall’industria “telugu” hanno minato il primato, per fama e incassi, di Bollywood. Il cinema telugu dell’India centro-meridionale è girato nell’omonima lingua di origine dravidica, seconda solo alla hindi per numero di persone che la parlano nel paese, ed è l’industria emergente che cresce di più nel panorama cinematografico indiano.
Tra i film proposti da “tollywood”, come comunemente viene chiamato il cinema in telugu, vi sono titoli fortemente caratterizzati da analogie, o da vere e proprie ricostruzioni più o meno storiche, con la mitologia indù. Lo stesso “RRR”, vincitore nella categoria “migliore colonna sonora” al novantacinquesimo Festival degli Oscar, vuole chiaramente riportare alla memoria dello spettatore l’eroismo delle figure dell’epica indiana in chiave moderna. Nel film, comunque, e nel filone telugu in generale, il sentimento patriottico permea la trama e la vita dei protagonisti i quali, nonostante le differenze personali, trovano negli inglesi il loro nemico comune. La proposta di Bollywood in uno scenario in cui la celebrazione dell’identità indù viene esaltata è analoga ma ben più pericolosa.
Nel marzo 2022 usciva nei cinema indiani il controverso e campione di incassi (oltre 7 milioni di dollari nella prima settimana dal rilascio) “The Kashmir Files”, del regista Vivek Agnihotri. Il film si propone di raccontare, in maniera accurata da un punto di vista storico, il tragico esodo dei pandit, indù di casta brahmanica che abitano la regione del Kashmir, avvenuto tra il 1989 e il 1990 per mano di musulmani filo-pakistani che hanno causato la morte di centinaia di cittadini indiani. La volontà della pellicola è quella di fare luce su una pagina sanguinosa della storia indiana e kashmira narrando gli eventi che, a detta del regista, sarebbero stati insabbiati dal governo nazionale e dai media per quasi trent’anni. Le critiche del Congresso, il maggiore partito d’opposizione, e delle associazioni di indiani musulmani sono piovute sul film ancora prima dell’uscita nelle sale.
L’accusa di islamofobia sarebbe giustificata, a detta dei detrattori del film, da una sistematica rappresentazione dei personaggi musulmani come figure totalmente negative e prive di compassione verso i pandit indù. Proprio verso questi ultimi, vittime della violenza islamica, lo spettatore è portato a provare empatia e, di conseguenza, a condannare gli atti persecutori dei loro carnefici. Nella pellicola, inoltre, non si terrebbe conto delle decine di famiglie musulmane che hanno protetto in quegli anni i concittadini di fede indù arrivando per questo a pagare con la propria vita. Secondo il Congresso questa rappresentazione degli eventi sarebbe faziosa e addirittura allineata alla propaganda dell’attuale governo nazionalista a guida Modi.
È vero, infatti, che il PM Modi e il governo attuale abbiano spinto pubblicamente affinché il film avesse la massima diffusione possibile con misure molto spesso insolite quali giorni di ferie per andare al cinema e sconti nei cinema. Questo tipo di pubblicità del governo e il ribadito sostegno del regista Agnihotri al BJP hanno infiammato le opposizioni, che accusano Modi di usare il medium cinematografico come strumento di propaganda per diffondere false ricostruzioni storiche col solo scopo di inasprire le divisioni sociali e religiose. Il regista ha infatti rilasciato interviste in cui parla di “genocidio”, e non di esodo, e di oltre 4000 vittime tra gli indù, contro le circa 650 che le associazioni governative e quelle degli stessi pandit hanno sempre riportato nei dati della tragedia.

Un anno dopo la storia si ripete: il controverso “The Kerala story”
Nonostante i tentativi di boicottaggio delle associazioni musulmane e dei partiti d’opposizione, The Kashmir files non solo è stato visto da centinaia di milioni di cittadini indiani, ma sortisce anche l’effetto che il regista e il BJP avevano probabilmente sperato. Sono stati registrati innumerevoli casi in tutta l’india in cui gli spettatori, infiammati dalla crudezza e dalla violenza della pellicola, sono usciti dalle sale al termine della visione del film intonando canti nazionalisti e islamofobi. A seguito dei disordini, le critiche sono arrivate anche dalla scena cinematografica internazionale e molti registi si sono espressi contro la pellicola di Agnihotri: tra tutti il regista israeliano Nadav Lapid che in un’intervista alla domanda sul film ha parlato di “intento manipolatorio” e “propaganda mascherata da cinema”.
Appena un anno dopo le controversie legate a The Kashmir Files, il 5 maggio 2023, usciva nelle sale indiane una pellicola che segue, non senza polemiche, il sentiero tracciato dal film di Agnihotri. L’annuncio di “The Kerala story” ha generato indignazione e fervente attesa nel popolo indiano già dalla messa in onda del trailer del film. Il regista Sudipto Sen, sulla falsa riga di Agnihotri, si propone di raccontare una storia vera che i media mainstream e la politica avrebbero insabbiato per nascondere i dati reali delle conversioni forzate delle ragazze indù all’Islam. La trama del film è un espediente narrativo per raccontare la pericolosa presa che l’ISIS avrebbe sulle giovani indiane, mostrate come vittime inconsapevoli della propaganda del terrorismo islamico.
Siamo in Kerala, stato federale dell’estremo sud dell’India e diametralmente opposto al Kashmir. La storia che Sudipto Sen mette su pellicola è uno sguardo romanzato sulle vite di tre ragazze indiane, e indù, che iniziano un viaggio di conversione non del tutto spontaneo all’Islam. La manipolazione avviene quando le tre vengono avvicinate da una quarta giovane indiana, musulmana, che maliziosamente inizia a diffondere nel gruppo di ragazze le proprie idee politiche e religiose. Iniziando a prendersi gioco della cultura e degli dèi dell’Induismo porta le amiche ad avvicinarsi all’Islam radicalizzandole a poco a poco. Questo genere di iter di conversione mette sotto una luce sinistra l’intero mondo musulmano, colpevole di corrompere, più che affascinare, i propri fedeli.
Le stoccate all’interno del film non si limitano al tema religioso e non risparmiano la politica. Il padre di una delle ragazze è infatti descritto come, oltre che ateo, sostenitore dell’ideologia marxista-leninista. Proprio la figlia dirà nella pellicola che le idee politiche del padre avrebbero contribuito a tenerla lontana dall’induismo e che proprio una vita tradizionale nel rispetto dei valori indù le avrebbe evitato il tragico epilogo al quale andrà incontro nel finale. Le ragazze infatti verranno costrette a lasciare le proprie case, saranno strappate alle proprie famiglie e deportate in Afghanistan come schiave dai terroristi dell’ISIS. La faziosità della pellicola in qualche modo ricorda quella a cui ci aveva abituato The Kashmir Files con il proprio sottotesto islamofobo promosso dalla destra indiana.

Le armi della politica: disinformazione e terrore mediatico
Il film è accusato di alimentare la teoria del complotto nota come “Jihad dell’amore”. Diffusa a partire dal 2009 da un gruppo di attivisti impegnati nella promozione dell’hindutva, ideologia politica di stampo nazionalista e conservatrice, la “love jihad” è stata al centro di numerose campagne di disinformazione mediatica della destra indiana. Risultando determinante per la vittoria politica del BJP durante alcune campagne elettorali, come quella del 2014 in Uttar Pradesh, la teoria del complotto ha assunto man mano visibilità mediatica diffondendo nel paese paranoia e diffidenza verso i cittadini musulmani. Dopo l’elezione di Narendra Modi a Primo Ministro nel 2014, la “love jihad” è diventata sempre più popolare e continua ad essere usata come arma di propaganda dagli esponenti del Bharatiya Janata Party.
In prima linea nella lotta politica contro la conversione forzata delle ragazze indiane c’è Yogi Adityanath, governatore per il BJP dell’Uttar Pradesh (UP). Yogi Adityanath è uno degli uomini più vicini al PM Modi e ha trionfato nelle elezioni in UP per ben due volte, nel 2017 e nel 2022, presentandosi come il protettore dei valori indù. Oltre alle controverse dichiarazioni pubbliche riguardo la necessità di demolire moschee e di rispondere in maniera violenta agli attacchi terroristici di matrice islamica, Adityanath ha sostenuto in numerose interviste televisive come “non potendo fare ciò che vogliono, i musulmani usano il metodo love jihad per convertire le giovani indiane”. Sebbene vi siano stati in India e non solo casi di conversioni “subdole”, per così dire, i dati mostrano come la “minaccia reale” sia assai più contenuta di quella percepita.
Mesi prima dell’uscita di The Kerala story il regista Sudipto Sen ha dichiarato più volte che nel corso degli anni le ragazze indù e cristiane convertite con l’inganno all’Islam e unitesi all’ISIS sarebbero state oltre 32 mila nel solo stato del Kerala. Un report del 2019 stilato dal think tank indipendente ORF (Observer Research Foundation) ha tuttavia evidenziato come dal 2014 al 2018 sarebbero poco più di 60 gli indiani del Kerala sedotti dall’ideologia dell’organizzazione terroristica islamica. In tutto il paese il numero di indiani affiliati all’ISIS non supererebbe i 200 e il dato è da leggersi in maniera decisamente ottimistica poiché l’India è uno dei paesi con il più alto numero di cittadini musulmani. L’ideologia terroristica avrebbe potuto dunque richiamare un numero di affiliati ben maggiore di quello mostrato dal report dell’ORF.
Il PM Modi, in un comizio in Karnataka, ha commentato l’uscita del film sostenendo che The Kerala story mostri “la terribile verità dietro il terrorismo” e ribadendo come “bombe, armi ed esplosioni facciano rumore ma che solo il silenzio della cospirazione terroristica possa distruggere una società dall’interno”. Nella cospirazione ai danni dell’integrità dell’India è stato tirato in ballo anche il Congresso: il partito d’opposizione è stato accusato dallo stesso Modi di voler boicottare la pellicola nel tentativo di proteggere i terroristi islamici. Un’accusa gravissima che senza dubbio andrà ad impattare sul giudizio dell’opinione pubblica rispetto alla sinistra indiana, sempre più debole e ancora legata ad una comunicazione meno sensazionalistica e demagogica di quella proposta nell’ultimo decennio dal BJP.

La macchina della propaganda cinematografica è ormai in moto e sembra uno strumento perfetto per le politiche di assimilazione del nazionalismo indiano. L’annuncio del film “Tipu” di P. Sharma, la cui data di uscita è ancora incerta, sarà la prossima stoccata del governo ai propri oppositori e all’eredità che il mondo musulmano ha lasciato nel paese. Il film arriva dopo il provvedimento del governo che ha “cancellato” la storia della dominazione musulmana dai programmi scolastici e dai libri di testo, e si concentra sulla figura di un sultano dell’India medievale colpevole di aver distrutto oltre 8 mila templi indù e ucciso oltre 2 mila bramini nel corso del proprio, secondo il regista, “tirannico”, governo sul popolo indiano.
Curiosamente, l’analista politico che si è occupato di verificare le fonti storiche sul quale basare la trama del film, R. Sethi, è stato coinvolto in passato nell’attività politica del BJP. L’opera di riscrittura della storia indiana passa dal mondo della cultura a quello dell’arte e, prevedibilmente, non risparmia nemmeno il cinema. Il medium cinematografico sembra infatti ormai in mano alla politica e la divisiva propaganda anti-islamica degli ultimi anni sembra proiettare l’India verso una crescente tensione interna in cui il nemico religioso è bersagliato in maniera sempre più sistematica.
Immagine in evidenza: “Arrival of Narendra Modi, Prime Minister of India” by G20 Argentina is licensed under CC BY 2.0. “National Flag of India” by Sanyam Bahga is licensed under CC BY-SA 2.0. Foto di Sindre Aalberg su Unsplash