La politica è uno spontaneo prodotto della società e non può esprimere condizioni che non siano già poste in essere. Invero, il politico di successo è colui che riesce, meglio di altri, a interpretare i bisogni e le esigenze della collettività nella quale vive e agisce. Tuttavia, quest’organizzazione di esseri umani che chiamiamo società, è in costante divenire, estremamente difficile da inquadrare e mettere a fuoco, soprattutto quando si è nel mezzo di un suo stravolgimento. La grande rivoluzione in corso, che qualcuno riesce a percepire, è conseguenza oggi, come cinquant’anni fa, dell’innovazione tecnologica.
Il grande pubblico, figlio del fenomeno televisivo del secolo scorso, sta mutando consistenza. I cittadini non si costituiscono più un’omogenea platea televisiva, ma in un eterogeneo vortice, subordinato alle logiche della nuova realtà mediatica. Sotto questa luce la politica prova a reinventarsi, sposando le spinte centrifughe di una realtà sempre più frammentata e polarizzata.
Televisione e democrazia
Negli ultimi cento anni la società è mutata radicalmente e la politica di conseguenza, seppur con lievi ritardi e con scarsa capacità di adattamento. Le masse – o meglio dire le folle, per citare Le Bon – indiscusse protagoniste dei secoli XIX-XX, hanno perso la loro centralità a seguito dell’introduzione di un apparecchio tecnologico apparentemente innocuo, ma con effetti e potenzialità spaventose, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “quinto potere”: la televisione.
Le adunate in piazza si ridimensionano notevolmente in frequenza e consistenza, gli spazi privati sono preferiti a quelli pubblici e le sedi dei partiti di massa cominciano a svuotarsi, prodromo della loro prossima fine. Le masse, che iniziano a diventare un pubblico anonimo e senza volto, sono rapite dalla seducente scatola grigia.
Presto la politica si adegua ai nuovi ritmi e alle nuove regole del crescente fenomeno televisivo: cambia radicalmente il rapporto politico-elettore, le logiche di mercato prendono piede e la politica è ridotta alla stregua di uno spettacolo da mandare in onda a un certo orario. Il teleschermo – ironicamente preconizzato da Orwell in 1984 – , in mancanza di valide alternative, oltre all’obsoleta carta stampata, diviene voce di un’unica verità assoluta, riuscendo a diffonderla con una velocità, un raggio d’azione e un sensazionalismo mai visti prima.
In questo modo, offrendo un prodotto autorevole e generalmente standardizzato, le tendenze centripete spingono verso un’omologazione del pubblico e la ricerca, per i partiti politici, della vittoria al centro dello spettro politico. Questa struttura, così brevemente presentata, prende il nome di “democrazia del pubblico”, che si sostituisce alla democrazia dei vecchi partiti di massa.
Democrazia e anarchia sui social
La televisione è oggi in piena crisi d’identità, oltre che di ascolti. I dati segnalano un costante calo degli spettatori; essi non scompaiono, ma cambiano semplicemente fonte di entertainment. A fare concorrenza al colosso televisivo è internet e, più precisamente, tutti i social di massa, spopolati con l’introduzione degli Smartphone nella vita quotidiana di ognuno di noi.
Concorrenza che non verte unicamente sullo spettacolo, ma anche sull’informazione (Secondo uno studio del Censis, il 31,4% degli Italiani utilizza Facebook per informarsi, inoltre 4,5 milioni di italiani si informano unicamente tramite i social network; numeri destinati a crescere). Il web è un fenomeno in costante studio, ma si sono subito notate delle differenze rispetto alla televisione, due tra le più importanti: la democraticità e l’anarchia.
Si è sentito spesso dire che internet è un’arena democratica, dove ognuno può esprimere la sua opinione e condividere informazioni, vere o false che siano, anche attraverso l’anonimato. L’anarchia è l’assenza di controllo e filtraggio su queste opinioni e informazioni condivise, essendone ogni giorno scambiate nella rete a milioni. Inoltre, queste informazioni non sono, come avveniva nel caso della televisione, destinate a un pubblico omogeneo e condivise da un organo d’informazione ufficiale.
Dov’è la verità nei nuovi media?
Invero, internet è diventato con il tempo anche il luogo della controinformazione, dove prendono vita le più bieche teorie del complotto e proliferano le fake news, anche utilizzate come efficace strumento politico. Fenomeni da sempre esistiti, senz’altro mai diffusi come oggi.
È cosi che nasce una grande questione: dov’è la verità? Se la televisione perde gradualmente il suo ruolo d’informatore ufficiale e il pubblico si sposta verso altre fonti d’informazione, inevitabilmente incontrollate e incontrollabili, e su cui agiscono dinamiche inedite, l’omogeneo pubblico televisivo inizia a sgretolarsi e la verità ufficiale, propugnata dalla televisione, perde il suo carisma. Come è già stato detto, il web è una rete pressoché infinita di stimoli e informazioni. Solo una piccolissima parte di quello che viene condiviso arriva ai nostri occhi.
Prendiamo il caso delle notizie: esse devono essere necessariamente sensazionali; questo per il semplice motivo che abbattere il muro divisorio tra ciò che diviene virale e ciò che resta invisibile è un’impresa ardua. Ecco quindi il tema della post-verità: una condizione basata sulla sensazionalità della notizia e sulle forti suggestioni che riesce a provocare nel pubblico, l’oggettiva veridicità dell’informazione passa in secondo piano e l’ipersemplificazione diventa un dogma. La scomparsa di un’unica verità diventa, in primis, un problema per le autorità ufficiali e, in secundis, un problema per il dibattito pubblico.
Le folle digitali
Il pubblico che popola il web non è quello che popola la televisione. Le c.d. folle digitali, per citare Giò Fumagalli, autore di un’interessante postfazione della celeberrima opera di Le Bon: “psicologia delle folle”, ci spiega come agiscono. Il pubblico televisivo è generalmente passivo, non decide la locandina televisiva e l’unica cosa che può fare, se non gradisce il prodotto, è cambiare canale. Nel fenomeno del web le folle ritornano alla ribalta, pur vivendo in un ambiente virtuale e non spalleggiandosi in una piazza. Sono loro i giudici: decidono sulle tendenze del momento, su chi deve essere rispettato e su chi deve essere stigmatizzato, su quali fatti bisogna giovarsi e su quali indignarsi.
Come fanno a far sentire la loro voce, essendo milioni d’individui isolati? Giò Fumagalli recita:
«Online, le persone generano la massa necessaria per diventare folla attraverso la ripetizione di determinati messaggi, di determinati sentimenti, di determinate suggestioni e di determinate azioni. L’assembramento che dà vita alla massa digitale è un assembramento che avviene quando i like crescono, i follower aumentano, le condivisioni o le views danno vita a fenomeni di viralità. L’individuo perde la propria individualità e si assimila alla folla attraverso un’osmosi che non passa più dalla prossimità, ma dalla ripetizione: tutti condividono contenuti relativi a un certo argomento e quindi li condivido anche io; tutti seguono una determinata figura pubblica e quindi inizio ad ascoltarla anche io; tutti si indignano per un fenomeno e di conseguenza il senso d’indignazione cresce anche dentro di me»
Possiamo dire che il web è un’enorme echo-chamber.
La bubble democracy
Caliamoci nello specifico: cos’hanno in comune tra di loro i social media, che non ha la televisione? Sostanzialmente due funzionalità: la prima è l’algoritmo. Un algoritmo, calato nell’ambito dei social, è un filtro intelligente, che capisce, in base alle nostre azioni, quali sono i prodotti di nostro gradimento e quali no, mostrandoci così esclusivamente i primi. Se sommiamo a questa prima funzionalità la seconda, che è semplicemente la facoltà di bloccare qualsiasi persona o contenuto a noi sgradito, si delinea un quadro molto suggestivo.
Ognuno di noi, durante la navigazione sui social, viene intrappolato, inconsapevolmente, all’interno di una bolla autoreferenziale, contenente le informazioni e gli utenti che condividono la nostra stessa versione dei fatti, che noi crediamo essere l’unica veritiera. Automaticamente le nostre convinzioni pregresse vengono corroborate dall’interazione con contenuti e utenti che la pensano esattamente come noi. Questo meccanismo non fa altro che radicalizzare le nostre idee, moderate o estreme che siano, e il confronto con persone che la pensano diversamente da noi, anche loro succubi di questa meccanica, diventa una lotta dove ognuno crede di avere fermamente ragione.
Qual è il ruolo della politica in tutto questo? Oggi i partiti e la classe politica sono travolti da un grande clima di sfiducia e disaffezione. Le miriadi di bolle che popolano il web sono un fenomeno in costante crescita e aspettano solo di essere politicizzate. La politica dovrebbe interessarsene, e lo farà veicolando messaggi politici rumorosi, per trovare un reale riscontro mediatico, e sicuramente più radicali.
Si delinea così una nuova polarizzazione e una nuova comunicazione politica, tutta costruita intorno al web, strumento dalla potenza ineffabile. Eccoci quindi all’alba della Bubble Democracy: un paradigma che nascerà dalla graduale morte del fenomeno televisivo e dalla costante crescita dell’asfittica arena digitale, caratterizzata da molte indiscutibili verità, individui isolati, insoddisfatti della classe politica attuale, dell’informazione ufficiale e fortemente radicalizzati. Il continuum politico si allunga verso gli estremi e la politica deve reinventare sé stessa.
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