“Divide et impera” è una delle locuzioni latine più conosciute, in ragione dei successi delle sue innumerevoli applicazioni. Oggi si trovano impegnati nella sua messa in pratica, inseriti nel caldo scenario della guerra d’Ucraina, gli arcinemici della Federazione Russa, consapevoli del più grande punto debole di Mosca: l’eterogeneità etnica, risultato in potenza della sua vastità.
La variegata componente etnoculturale di uno Stato, definita da molti come una risorsa, è spesso causa di preoccupazione per chi è chiamato a evitare la nascita di centri di potere antagonisti a quello centrale, oppure quinte colonne, funzionali agli interessi di attori stranieri. In ragione maggiore se lo Stato in questione è la Federazione Russa, il più vasto al mondo, oggi precipitato in una crisi economica e impantanato in una guerra dalla quale sembra sempre più difficile trarre una vittoria. Queste circostanze saldano lo spirito della nazione ma, allo stesso tempo, possono diventare motivo d’inasprimento di spiriti secessionisti già presenti, mai del tutto sopiti.
Recenti dichiarazioni di Zelensky, a seguito dell’annuncio di Putin riguardo la mobilitazione parziale, accusano i vertici di Mosca di trattare il proprio popolo come “carne da cannone”. Il presidente ucraino tocca un tasto dolente, facendo leva sulle divisioni interne all’opinione pubblica russa, tra chi preme per un aumento d’intensità della campagna militare e chi rifiuta la guerra e i suoi sempre più evidenti e drammatici effetti.
A recepire maggiormente l’appello ucraino sono le minoranze etniche interne alla Federazione Russa, vittime anche loro della mobilitazione parziale voluta dal Cremlino e meno inclini allo spirito di sacrificio nazionale. Minoranze etniche meno sensibili al conflitto con la nazione ucraina, che non esiste secondo la narrazione russa, e quindi inquadrate in divisioni largamente spedite al fronte anche nei primissimi mesi del conflitto.
In tempi di guerra e in tempi di pace era l’ideologia comunista lo strumento principe per mantenere l’ordine interno all’Unione sovietica e alla domina provinciarum in primis. Invero, professando l’ateismo e il riconoscimento di tutti i popoli sotto un’unica classe, con uguali interessi e aspettative, l’ideologia rossa tendeva ad attenuare qualsiasi spirito secessionista, offrendo a tutti i popoli una causa comune, prescindendo da qualsiasi differenza culturale.
Da quando l’URSS si è disgregata e il comunismo non è più la religione di Stato, la Russia ha dovuto reinventare la sua narrazione per evitare che lo spirito della disgregazione colpisse anche la prima repubblica socialista fondata nel 1917. Prescindendo dagli innumerevoli interventi nelle ex repubbliche sovietiche dopo il ’91, volti a rendere il meno amara possibile la fine dell’impero, la neonata Federazione Russa ha dovuto fare i conti con questioni interne di primaria importanza.
Il caso del Caucaso e della Cecenia
La regione del Caucaso è emblematica se parliamo di conflitti etnici e di lotta centro-periferia. Rimangono irrisolte ancora oggi le questioni territoriali scaturite dai conflitti venutisi a creare dopo la caduta dell’URSS, con la Russia coinvolta in maniera indiretta, e la nascita di tre repubbliche a riconoscimento parziale: l’Artsakh, al centro dello scontro tra armeni e azeri e l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, rivendicate dai georgiani.
A riprova dell’eterogeneità etnica del Caucaso, notiamo come le repubbliche autonome all’interno dello sconfinato territorio russo sono ventuno (escludendo la Crimea); solo nella relativamente piccola regione del Caucaso settentrionale se ne contano sette. Inoltre, i popoli caucasici professano l’islam e la percentuale di Russi che vivono in quei territori è relativamente esigua.
All’interno di questo contesto l’assidua spina nel fianco della Russia, sin dall’impero zarista, rimane la Cecenia. Mosca considera la Repubblica Cecena un territorio troppo importante, ergo non è ammissibile la sua secessione. La presenza di petrolio e di gasdotti che corrono nel sottosuolo sono degli asset la cui perdita costerebbe cara al Cremlino. Nonostante ciò, la Cecenia riuscì, de facto, per un lasso di tempo che va dalla caduta dell’URSS all’inizio della seconda guerra cecena, ad essere indipendente dalla Russia, con la denominazione di Repubblica di Ichkeria.
Dopo il riassetto del controllo russo nella piccola repubblica, ottenuta a carissimo prezzo, diviene chiara l’esigenza di un rigido controllo per evitare nuove escalation nella regione. È in quel contesto di necessità che viene a galla l’attuale capo della Repubblica Cecena, Ramzan Kadyrov. Accusato più volte di mantenere il controllo tramite l’abuso della forza, Kadyrov si è rivelato l’uomo giusto al momento giusto.
Sebbene la dittatura kadyrovita abbia sortito gli effetti sperati, il malcontento latente è emerso a più riprese, fino all’attuale scoppio in concomitanza con la guerra d’Ucraina, dove i ceceni khadyroviti e gli oppositori indipendentisti combattono all’ombra dell’apparente conflitto russo-ucraino e le proteste a Grozny aumentano d’intensità e frequenza. Proteste figlie di un malcontento sobillato da 1ADAT, un’organizzazione nata nel 2020 su Telegram al fine di condividere notizie, video e immagini dei soprusi che i ceceni, critici del regime, subiscono nelle strade delle città. Movimento considerato organizzazione estremistica dalla corte suprema cecena e finanziata e protetta da chi ha interessi nel farlo, Ucraina in primis.
Sul campo di battaglia, Dudaev e Mansour sono i nomi di due battaglioni composti da indipendentisti ceceni, idealmente ispirati alla repubblica di Ichkeria, già attivi in Ucraina dal 2014 e oggi partecipi al conflitto contro la Russia, in particolare contro i battaglioni connazionali, composti da fedelissimi kadyroviti. Fine ultimo esplicito dei battaglioni ribelli è di portare la guerra nel Caucaso settentrionale, risvegliando la sopita repubblica di Ichkeria.
L’Ucraina è quindi anche campo di battaglia della guerra civile cecena, un’opportunità per i nostalgici secessionisti di riaprire una ferita mai del tutto guarita in seno alla Russia e di destabilizzare ulteriormente Mosca, distraendo attenzioni e risorse dal fronte ucraino.
Siberia e Tatarstan
Nel mese di luglio si è tenuto a Praga il secondo forum delle nazioni libere della Russia. Un’iniziativa che ha avuto come ospiti dissidenti del regime russo, politici est europei, attivisti ed esiliati rappresentanti delle comunità etniche presenti sul territorio della federazione. Si è discusso di come il regime russo sia imperialista e oppressivo nei confronti delle minoranze etniche e di come esse debbano “decolonizzarsi” e autodeterminarsi. Un disegno che vede una Russia divisa in tanti centri di potere autonomi quante sono le repubbliche che la abitano.
Tra queste repubbliche la più grande (non si intende per estensione geografica) e, potenzialmente, quella che potrebbe creare maggiori problemi a Mosca è la repubblica del Tatarstan. Inverno, il secondo gruppo etnico della federazione Russa sono i tatari (circa cinque milioni), di religione islamica e lingua turcica. È una delle zone più sviluppate del paese, quindi dove gli effetti economici della guerra sono più evidenti, e ha visto perdere progressivamente la sua autonomia a causa della crescente centralizzazione del potere voluta da Mosca.
Da sempre i tatari sono restii all’assimilazione e la Turchia appoggia minoranze turciche dovunque esse siano. Da poco tempo Farit Zakiyv, presidente del “centro pubblico di tutti i tatari”, ha lasciato la Russia per rifugiarsi in Turchia, definendo la guerra inaccettabile, opinione condivisa dai suoi seguaci e da parte della comunità tatara.
L’altra regione potenzialmente sovversiva è la Siberia. Con un clima inospitale e una scarsa demografia, comprende circa il 77% del territorio russo e all’interno si trovano il 70% delle risorse energetiche che la Russia sfrutta ogni giorno per finanziare le casse dello stato. In ragione di questo sfruttamento energetico, i siberiani tendono a percepire Mosca come una potenza estranea, interessata solo a estrarre le risorse energetiche presenti nel territorio. Ancora in epoca zarista alcuni intellettuali, tra cui l’anarchico Bakunin, teorizzarono il progetto di una siberia indipendente, ovviamente una velleità inattuabile all’epoca.
Le ultime grandi proteste nella regione risalgono al 2020, a causa dell’arresto del governatore del territorio di Khabarovsk, considerato sleale dal Cremlino e rimpiazzato con un sostituto più gradito. Oggi le spinte indipendentiste nella regione si stanno ripresentando, con il beneplacito di Cina e Giappone, due attori attratti dalle risorse del sottosuolo e che considerano la Russia una potenza “abusiva” in Siberia.
All’interno di ogni repubblica autonoma possiamo trovare delle spinte secessioniste, corroborate da casi di attivismo, iniziative, proteste e altrettanti arresti o esili volontari. Come nella repubblica autonoma dell’Udmurtia, dove una legge ha proibito lo studio delle lingue indigene, essendo l’idioma etnico un elemento identitario fondamentale. In risposta a questa legge, l’attivista Albert Razin si diede fuoco nel 2019 davanti alla sede del parlamento della repubblica autonoma. Potremmo fare altri esempi, resta il dato che tensioni indipendentiste si trovano in ogni entità autonoma russa, tuttavia in alcune in misura maggiore che in altre.
È davvero possibile una disgregazione della Russia?
A chi giova realmente una disgregazione totale della federazione russa? Sicuramente ai suoi vicini di casa, storicamente vassalli e ora nemici giurati: polacchi, baltici e ucraini, desiderosi di mettere mano alle risorse energetiche e colmare gli eventuali vuoti di potere che si verrebbero a creare. Al contrario i cinesi, anche se attratti dai territori siberiani, non possono tuttavia permettersi di perdere un alleato come la Russia in questo momento storico di transizione multipolare.
Italiani, tedeschi e francesi vedono nel collasso russo un danno, in primis per la potenziale nascita di un Europa a trazione Visegrad, con la Polonia in testa. In secundis, per la perdita di un importante e potenziale partner per ricattare e schermarsi, per quanto possibile, da Washington.
Infine, agli Stati Uniti conviene? Sicuramente no. Il contenimento russo è funzionale a due interessi: tenere unita la compagine europea contro un nemico comune e dare un senso all’infrastruttura NATO che permette una capillare presenza sul territorio del Vecchio continente. Puntare a una disgregazione parziale, come nel caso della Cecenia, potrebbe invece essere un’alternativa per indebolire Mosca e tenerla maggiormente occupata negli affari interni piuttosto che in quelli esteri.
Tuttavia, una disgregazione federale completa sarebbe evitata con qualsiasi mezzo da Mosca, anche a costo di usare l’arma nucleare come extrema ratio, soprattutto se questo spirito disgregativo dipendesse dalle sorti della guerra. La Russia sta vivendo una parabola discendente in favore del vicino cinese e ciò è sotto gli occhi di tutti. L’ultimo vertice di Samarcanda è stato la riprova di questa traiettoria, estesa allo spazio post-sovietico e al suo rango internazionale.
Diversi soggetti vorrebbero vedere la disgregazione federale una realtà, ma per ora i principali attori di peso non vogliono l’avverarsi di questo scenario, e nemmeno la Russia stessa è disposta a concedere questo privilegio ai suoi nemici.
Foto in evidenza: Mikhail Evstafiev – Mikhail Evstafiev, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=343741