Nelle scorse settimane, migliaia di ragazzi italiani tra i tredici e i quattordici anni hanno compiuto la prima importante scelta della propria vita, iscrivendosi ad una scuola superiore che li indirizzerà e formerà per i prossimi cinque anni. Ma cosa stanno scegliendo effettivamente i ragazzi italiani? Quali sono i percorsi formativi più gettonati e perché? La risposta a queste domande va ricercata in quello che è diventata oggi la scuola italiana, una delle più importanti Istituzioni del nostro paese sempre più preda di dinamiche e correnti di pensiero che ne hanno modificato natura e funzioni.
Iniziamo con i dati del Miur. Secondo il Ministero, per l’anno scolastico 2023-2024, il 57,1% degli studenti italiani, insieme alle loro famiglie, ha scelto un Liceo, il 30,9% un Istituto tecnico, il 12% un professionale. Si conferma una tendenza che vede in aumento gli studenti che scelgono i tecnici a discapito dei Licei. Se si guarda poi all’interno delle macrocategoria, si notano ulteriori significativi movimenti che si riveleranno utili per il proseguo del nostro ragionamento.
In particolare, all’interno dei Licei, il Liceo Classico cala di mezzo punto rispetto allo scorso anno (5,8%) mentre salgono di poco i Liceo Scientifici (26,1% rispetto al 26%) e il Liceo delle Scienze Umane (11,2% rispetto al 10,3%). Tra i tecnici, il balzo in avanti più significativo lo fanno registrare quelli ad indirizzo “Amministrazione, Finanza e Marketing” mentre rallentano gli istituti tecnologici.
La cosa interessante da notare è che questi dati confermano la vulgata che va per la maggiore nel dibattito pubblico italiano quando si parla di scuola. E cioè che la scuola debba essere una sorta di “palestra” per il mondo del lavoro e quindi abbia la funzione di instradare i giovani verso una più facile ricerca di un’occupazione. Abominio che può essere frutto solo della miopia di una società volta all’immediato, all’oggi massimo al domani, incapace di immaginare un vero futuro.
Non è un caso che a crescere siano gli istituti tecnici, specialmente quelli inerenti settori che più interessano le aziende o le istituzioni finanziarie. O che tra i licei cresca quello scientifico, giudicato il più idoneo per ottenere un’agognata laurea nelle discipline Stem (science, technology, engineering and mathematic), orrido acronimo inglese che serve a conferire una connotazione moderna, giovane, smart, da spendere nei colloqui con le grandi aziende del settore, dove il neolaureato si aspetta di trovare lavoro con risoluta certezza.
E questa triste vulgata che la scuola serva a preparare per il mondo del lavoro è stata persino incoraggiata dagli esecutivi di tutti i colori politici. Il caso più emblematico, è la riforma del Governo Renzi sull’alternanza scuola-lavoro, un provvedimento che ha avuto uno spettro di conseguenze negative che vanno dal comico (studenti di Licei a lavorare nei McDonald) al tragico, come per il caso del ragazzo morto sotto una lastra di metallo in provincia di Venezia lo scorso settembre, presso l’azienda dove stava svolgendo il tirocinio.
Questa mentalità è inoltre incoraggiata da ricerche, studi, analisi di istituzioni pubbliche e associazioni private, incentrate a scovare le relazioni tra scuola e mondo del lavoro. Come lo studio pubblicato nel 2021 da MIUR e Ministero del Lavoro sull’occupabilità che un determinato tipo di diploma garantisce agli studenti non appena usciti da scuola.
Le funzioni della scuola
Non è nostra intenzione negare che la scuola e il mondo del lavoro devono necessariamente parlarsi e rimanere in contatto. Sarebbe balzano il contrario. Ma l’ enfasi data alla tematica del lavoro rischia di oscurare quelle che sono le vere, fondamentali funzioni che l’Istituzione Scuola pubblica dovrebbe esercitare all’interno di una liberaldemocrazia come l’Italia. In primis, la scuola dovrebbe assicurare a tutti gli studenti la consapevolezza di cosa voglia dire essere cittadini. E no, non ci riferiamo solo all’annosa questione dell’Educazione Civica. Essere cittadini non significa conoscere a menadito la Costituzione ma sentirsi parte della Civitas, della propria comunità, incarnarne i valori e condividerne gli scopi.
Su questo punto occorre soffermarsi. Una democrazia non si regge solo sul proprio architrave istituzionale, sul bilanciamento dei poteri, su una Corte Costituzionale che vigila sul rispetto delle regole. Una democrazia si regge se i suoi cittadini credono in essa e si assumono le proprie responsabilità. Se vanno a votare alle elezioni, se si occupano dei problemi della comunità e non solo dei propri, se si sentono parte di quella comunità e quindi se ne curano.
Pensiamo quindi a quanto è importante il ruolo della scuola che deve preparare ragazzi e ragazze a diventare cittadini, a sobbarcarsi quella che in fondo è una vera e propria responsabilità. I sudditi non hanno responsabilità. Hanno un re, un tiranno, un dittatore che si occupa della loro sorte. Un suddito ha molto meno bisogno di andare a scuola. Per un cittadino è essenziale. È essenziale per se stesso e per la comunità in cui vive.
La seconda funzione importantissima è la trasmissione del sapere, delle tanto vituperate “nozioni” che oggi si vuole soppiantare con le cosiddette “competenze”. Si parla ormai solo di “saper fare”, piuttosto che di “sapere”, un approccio improntato alla praticità, allo sviluppo di abilità piuttosto che all’apprendimento di conoscenze. La trasmissione del sapere è invece fondamentale per lo sviluppo dell’individuo. Innanzitutto perché tra questi saperi vi è quello non secondario dell’utilizzo della propria lingua madre. I dati sull’analfabetismo funzionale in Italia sono assai preoccupanti. Secondo i dati OCSE-PIAAC, nel nostro paese circa il 28% della popolazione si ritrova in questa condizione.
Analfabetismo funzionale significa non essere in grado di comprendere ciò che si legge, non conoscere nozioni storiche basilari o non saper fare operazioni matematiche banali. E per comprendere ciò che si legge è necessario studiare la grammatica di un testo, la logica, l’analisi del periodo, capire le relazioni che intercorrono tra una frase e un’altra. Per sapere la matematica occorre studiarne le regole. Per sapere la storia bisogna leggerla sui libri. Si devono apprendere nozioni, appunto, forse noiose e stantie ma che permettono di sviluppare la capacità di ragionare e comprendere.
In questo ambito, non si può non citare l’infimo dibattito sull’insegnamento del Latino o del Greco antico, additato come un retrogrado ancoraggio al passato senza mai soffermarsi sugli immensi benefici formativi che tradurre una versione comporta, sullo sforzo logico che impone. Per non parlare dell’importanza dello studio della letteratura, della filosofia e della politica greche e latine, ancestrali precursori del nostro modo di pensare e vivere, latrici di valori che imperniano ancora oggi la cultura occidentale.
Alcune gravi criticità della Scuola italiana
Passando ad un livello più pratico, la scuola italiana si trova ad affrontare una serie di questioni che ne minano credibilità e autorevolezza. Primo, negli ultimi vent’anni, i Governi si sono occupati di scuola unicamente in chiave economica e, per lo più, in termini di tagli, razionalizzazioni del personale, riduzione dei fondi. È chiaro che l’aver svilito da un punto di vista economico l’istituzione scolastica abbia contribuito a danneggiare l’immagine della scuola, con la figura dell’insegnante che ha perso il ruolo e il rispetto che un tempo gli erano attribuiti.
Secondo, non è mai stata pensata una riforma complessiva della didattica scolastica e del metodo di insegnamento che adegui le storiche funzioni della scuola (sviluppo della cittadina, trasmissione del sapere) con gli enormi cambiamenti sociali e tecnologici avvenuti dopo la rivoluzione digitale. No, fare lezione con un power point e una lavagna digitale non è la risposta. Come non lo sarà inondare le scuole di tablet e PC grazie ai fondi del PNRR.
Infine, la questione a nostro avviso più allarmante: la scuola non boccia più. Non perché si sia alzata la qualità degli studenti che anzi, al contrario, sta crollando ma a causa di un approccio pedagogico, che potremmo definire approccio della cura, incentrato sul venire incontro allo studente, piuttosto che sull’importanza dell’insegnamento. L’attenzione ai dati soggettivi dei singoli discenti è chiaramente un valore ma non può mettere a repentaglio la funzione formativa della scuola. E la funzione formativa della scuola si esercita anche attraverso la bocciatura che non deve essere intesa come un’umiliazione dello studente fermato ma come un’opportunità di recuperare le lacune e le mancanze accumulate durante l’anno.
La tendenza a non bocciare è particolarmente marcata alle elementari e alle medie dove secondo i dati del Miur nel 2022 sono stati promossi circa il 98% degli studenti. Non è un caso che l’unica classe in cui si registra un aumento delle bocciature è quella del primo anno della scuola superiore di secondo grado dove evidentemente si crea una sorta di imbuto che ferma parte degli studenti che hanno accumulato un ritardo nel corso dei primi otto anni di istruzione. Si può forse pensare che una scuola che non boccia sia una scuola più inclusiva, più attenta ai bisogni dei singoli studenti e più capace di intercettare il disagio degli alunni e ad aiutarli a superare le difficoltà magari di situazioni economiche e familiari difficili.
Ma non è così. La prova è nel fatto che, secondo i dati dell’OCSE, uno studente che proviene da condizioni svantaggiate ha una probabilità 1,5 volte più alta di essere bocciato rispetto a un suo coetaneo che viene da una famiglia più benestante. Dunque il cambio di approccio pedagogico, l’attenzione ai problemi del singolo e alle difficoltà degli alunni provenienti da un contesto a forte vulnerabilità non hanno sortito gli effetti desiderati.
Inoltre, questo approccio educativo ha provocato un generale abbassamento della preparazione dei ragazzi che, lungi dall’aiutare le classi più svantaggiate, acuisce ancor di più le differenze. Una famiglia ricca, infatti, potrà permettersi ore e ore di ripetizioni private per colmare le lacune del proprio figlioletto mentre chiaramente una famiglia più povera non potrà farlo.
Non vogliamo però far passare l’idea che la scuola italiana sia ormai in malora. I nostri studenti sono ancora tra i più apprezzati al mondo quando vanno all’estero. Le scuole italiane riescono ancora a fornire una preparazione dignitosa e molte sono delle vere e proprie eccellenze non solo durante le regolari ore di lezione ma anche e soprattutto nel fornire agli studenti numerose e importanti attività extrascolastiche, corsi di approfondimento e momenti educativi di varia natura.

Certo le problematiche restano e vanno affrontate in modo serio e rapido. Forse, innanzitutto, è necessario riportare la scuola al centro del dibattito politico italiano dato che essa, più di ogni altra istituzione repubblicana, ha un ruolo chiave nel determinare il futuro del nostro paese. Lo storico Ernst Kantorowicz diceva: «Ci sono tre professioni degne di portare la toga: il prete, il giudice e lo studioso.» Non osiamo sperare in cotanta considerazione. Ci accontenteremmo anche solo di un dibattito serio, ragionato, volto alle problematiche del mondo scuola e scevro da condizionamenti politici e affaristici.