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Scopri Il ritorno delle guerre

L’ultimo numero della rivista di Aliseo, dedicato allo studio dei conflitti contemporanei. 14 analisi per capire come sono cambiate le guerre e perchè ci toccano da vicino

Dove la Cina sogna altre basi militari all’estero, dall’Africa al Pacifico
Al momento il Dragone conta sulla sola base di Gibuti, ma la diplomazia cinese si muove per costruire una rete di punti di appoggio globale
cina basi militari

Un “centro logistico”. Nel 2016 il portavoce del ministero degli Esteri cinese Hong Lei descriveva in questo modo l’installazione che la Repubblica popolare cinese avrebbe inaugurato nel piccolo Stato di Gibuti. Una definizione ambigua per celare l’apertura della prima base militare all’estero dell’Esercito popolare di liberazione. L’accordo con il governo gibutino era stato favorito dal finanziamento di due grandi progetti infrastrutturali, un porto franco e la ferrovia Gibuti-Etiopia, per un valore di sette miliardi di dollari.

Appollaiata su uno dei bracci di mare più importanti del pianeta – per cui passa il 12% del traffico – la base di Gibuti segnalava l’ingresso del Dragone in una nuova fase, improntata all’acquisizione di capacità di proiezione globali. Passo necessario per la sfida con gli Stati Uniti, capaci di schierare truppe in ogni angolo del globo proprio grazie all’immenso reticolato di installazioni militari all’estero.

Dal 2020 le strutture della base africana, che sorge nell’area di Dwalih a pochi chilometri dalla base americana di Camp Lemmonier, sono state ammodernate per ospitare i vascelli più grandi della marina cinese – portaerei, cacciatorpedinieri e sottomarini nucleari. Accanto alla base marittima è stata poi aggiunta una pista per il decollo di droni. Si stima che almeno 2000 uomini delle forze di marina stazionino permanentemente a Gibuti.

Quella di Gibuti è una base situata in uno degli snodi fondamentali del sistema internazionale. Recentemente il Dragone aveva tentato un “raddoppio”, cercando un punto di appoggio presso un altro cruciale corridoio marittimo, lo stretto di Hormuz. Secondo i funzionari americani, Pechino stava costruendo nel segreto una base militare nel porto di Khalifa, negli Emirati arabi uniti, all’interno del terminal commerciale gestito dalla Cosco Shipping, colosso cinese della logistica.

Qui furono determinanti le pressioni degli Stati Uniti, che “avvertirono” le autorità emiratine dei piani cinesi – anche se è difficile pensare ad una completa ignoranza di Abu Dhabi. Nel novembre del 2021 alcuni ufficiali americani visitarono il luogo in questione accertando che i lavori di costruzione erano stati interrotti. Tuttavia, la necessità di proiettare la propria influenza all’estero e di salvaguardare i propri traffici ha continuato a informare la diplomazia cinese, a partire dal Continente nero.

La Cina aprirà altre basi militari in Africa?

La base nel microstato africano resta per il momento l’unica stazione permanente delle forze armate del Dragone all’estero. Ora però la Cina scalpita per dotarsi di strutture analoghe in altri punti cruciali per la competizione con Washington. A partire da quell’Africa in cui ha investito centinaia di miliardi negli ultimi anni. Un report del Pentagono pubblicato nel 2021 affermava che Pechino stesse considerando almeno 13 diversi paesi nel continente per l’apertura di nuove installazioni militari, aggiungendo che “probabilmente ne sono già state aperte in Namibia”.

In quest’ultimo caso, alcune indiscrezioni, poi smentite, avevano fatto pensare all’area di Walwis Bay – il cui porto dispone di installazioni in grado di fare attraccare alcune delle navi di media taglia della marina cinese. Al momento non si conoscono sviluppi. I rapporti però si sono fatti più stretti negli ultimi anni. Non solo Pechino dispone dal 2001 di una stazione satellitare a Swakopmund ma è diventato praticamente l’unico fornitore di equipaggiamento militare del paese.

Una mappa delle potenziali installazioni militari cinesi in Africa

Anche la Guinea equatoriale ormai acquista quasi esclusivamente armi cinesi (90%). Lo scorso anno un anonimo ufficiale dell’intelligence americano rivelava al Wall Street Journal che le trattative per l’apertura di una base militare del Dragone erano a buon punto – complice anche il fatto che circa il 50% del debito straniero del paese è in mano cinese. Non si conosce lo stato attuale di avanzamento, ma quella in Guinea è forse la tappa più importante del disegno cinese.

Da qui la Cina potrebbe mettere un piede a terra nel golfo di Guinea, ricco di idrocarburi ma anche di pirati. E proprio la pirateria potrebbe essere un passepartout per la proiezione di Pechino, che come già fatto nelle acque del Golfo di Somalia potrebbe intestarsi le operazioni di sicurezza marittima – che al momento sono anche l’unico modo per costruire expertise reale negli equipaggi della Marina cinese.

Tanzania e Isole Seychelles appaiono come località suggerite per l’apertura di installazioni militari in un documento del 2014 prodotto dal Chinese Naval Research Institute, rispettivamente presso i porti di Dar es Salaam e Port Victoria.

Nel caso della Tanzania, sono riprese di recente le trattative per la costruzione di un nuovo porto a Bagamoyo, finanziato per 10 miliardi di dollari dalla Rpc. Come per tutte le altre località individuate dal documento – con l’eccezione di Gibuti – non esistono ancora basi della marina cinese attive, nonostante la tela di rapporti commerciali (e gli investimenti) sia stata potenziata meticolosamente.

Sognando l’Asia

Se l’obiettivo finale, quasi irraggiungibile, del Dragone è costruire una tela globale che possa una domani rivaleggiare con quella degli americani, quello di medio termine è certamente puntellare le rotte sensibili, cruciali per la sicurezza nazionale. Allontanare le possibilità che “il dilemma di Malacca” – dal nome dello stretto malese per cui passa il 70% del greggio consumato in Cina – deflagri lasciando a secco la fabbrica del mondo.

Per ridurre i rischi ci sono due strade da battere. La prima è aumentare la presenza militare nelle acque dello stretto – e per farlo servono punti di appoggio più vicini rispetto alle isole Spratly occupate dalla Cina. La seconda consiste nel trovare un altro accesso all’Oceano Indiano, per tramite di paesi amici, da collegare con infrastrutture portuali e ferroviarie al sistema commerciale nazionale.

Tra tutti i progetti di nuove basi militari cinesi segnalati dell’intelligence americana, quello della base presso Ream, in Cambogia, è forse il più concreto. I rumors vanno avanti da anni, tra le smentite delle autorità di Phnom Penh. Certo è che la Cina sta supervisionando la manutenzione e il rinnovamento di una sezione del porto militare – una notizia confermata dalle immagini satellitari di Maxar diffuse nell’agosto del 2021.

Secondo anonimi ufficiali americani sentiti dal Washington Post “la Cina ha un accordo segreto per l’utilizzo di una parte della base navale di Ream per i propri militari”. Lo stesso articolo riportava poi che “un funzionario di Pechino ha confermato che i militari cinesi, e gli scienziati, avranno accesso a una porzione della base”.

Poco meno di un mese fa alcune nuove strutture sono state inaugurate alla presenza dell’inviato speciale di Pechino in Cambogia Wang Wentian, che nell’occasione dichiarava: “la cooperazione militare sino-cambogiana è il pilastro di una partnership di ferro”. A pochi chilometri dal confine con il Vietnam – sempre più vicino agli americani e lontano dai cinesi – e affacciata sul Golfo di Tailandia, un punto d’appoggio per le navi del Dragone qui sarebbe un notevole passo in avanti per la tutela dei propri interessi in quelle acque di passaggio.

Lo stesso report del Pentagono che metteva in guardia sulle mire africane di Pechino, nominava una simile possibilità anche per il Pakistan, lo Sri Lanka e il Myanmar. Tre luoghi accomunati da una fortissima influenza cinese, da una stabilità politica fortemente compromessa e dal fatto di situarsi ad occidente delle “forche caudine” di Malacca.

Il golpe di febbraio 2021 in Myanmar ha inizialmente rappresentato una battuta di arresto per l’influenza di Pechino nel paese e ha generato un’ondata di instabilità che si è ripercossa anche sui lavoratori cinesi (indicati come complici della giunta militare e oggetto da violente aggressioni da parte dei manifestanti antigovernativi). Dopo un’iniziale fase di cautela – la Cina era molto vicina al governo di Aung San Suu Kyi abbattuto dai militari – i progetti e gli investimenti si sono pian piano riassestati. Mentre tutto il mondo condannava il colpo di mano e la repressione, il Dragone si è mostrato prima neutrale e poi disponibile a risolvere la situazione disastrosa del paese.

Una mappa delle potenziali installazioni militari cinesi in Asia

Non si conoscono progetti per una base militare cinese in Myanmar, ma gli ultimi cinque anni hanno visto la costruzione di imponenti infrastrutture di terra (ferrovie prevalentemente) che collegano la provincia cinese dello Yunnan ai porti burmensi della costa occidentale (Kyaukpyu a nord e Yangon a sud). È l’ossatura del China – Myanmar Economic Corridor, bretella della via della seta per un accesso libero o quasi all’oceano indiano. Una base militare qui sarebbe addirittura rifornibile dalla madrepatria – al netto dell’instabilità del confine, dilaniato dall’attività di gruppi di ribelli.

Un’evenienza simile potrebbe verificarsi anche in Pakistan. Il corridoio economico sino-pachistano è ad oggi l’arteria più importante della via della seta e il suo terminale marittimo principale, il porto di Gwadar, è dotato di infrastrutture portuali ideali per l’attracco di grandi navi. La luna di miele tra Pechino e Islamabad è storia vecchia, cementata dalla recente costruzione di un’intera linea di fregate per la marina pachistana, ma nel medio periodo potremmo assistere a un salto di qualità.

L’emittente indiana News18 riportava circa un mese fa di pressioni sempre più marcate da parte degli inviati cinesi sulle autorità pachistane per la concessione di una base militare a Gwadar – in cambio di uno sgravio sul debito estero del paese. Dal punto di vista di Pechino si tratta di un passo in avanti necessario anche per la protezione del personale cinese che lavora in Pakistan (decine di migliaia di persone), sempre più di frequente bersagliato dagli attacchi dell’indipendentismo armato del Balocistan.

Menzione d’onore per uno dei più remoti avamposti del Dragone in Asia centrale. Poche settimane dopo il ritiro dei soldati americani dell’Afghanistan, la Cina annunciava la costruzione di una base militare sul suolo del Tajikistan, che sarebbe stata presa in carico dalle forze di polizia armata (insieme al ministero degli Affari interni locale), un corpo che svolge essenzialmente funzioni di intelligence e contro-terrorismo.

La base, insieme ad una serie di altre piccole installazioni a ridosso del confine tagico con l’Afghanistan, non ha particolare valore strategico se non quello di esercitare controllo sul territorio del cosiddetto “corridoio del Wakhan”, che collega il paese dei Talebani alla Repubblica popolare cinese. Da qui Pechino teme che i gruppi terroristici dell’Afghanistan, qualora l’emirato di Kabul fosse incapace di esercitare un controllo sulle sue periferie, possano sconfinare e solidarizzare con i movimenti uiguri del Xinjiang, incendiando la periferia orientale della Cina.

Argentina: una stazione sospetta

Caso a parte è quello dell’Espacio Lejano Station, una stazione per l’osservazione dello spazio situata in Argentina, sotto il controllo della forza strategica di supporto dell’esercito cinese. Inaugurata nel 2017, non ricopre compiti miliari, come ribadisce un impegno formale della Cina del 2016. Nel paese, d’altronde, è attiva anche una stazione che svolge compiti simili per l’Esa, anche se in questo caso il personale è completamente civile.

La cogenza militare “convenzionale” della base sarebbe comunque limitata dalla sua posizione, lontana dalle coste, sperduta nel deserto della Patagonia, tuttavia le infrastrutture spaziali si prestano per loro natura a un doppio uso. Da una parte l’osservazione del cosmo, dall’altro la telemetria e l’intelligence – ad esempio il monitoraggio di satelliti avversari.

L’antenna dal diametro di 35 metri dell’Espacio Lejano Station

In ogni caso, l’Espacio Lejano rappresenta una sfida più che personale per Washington. Uno sfregio a quella dottrina Monroe che non ha mai smesso di essere la bussola della politica estera americana. A maggior ragione perché la partnership tra Buenos Aires e Pechino si va approfondendo sul piano commerciale e dell’export di materiale bellico. Alcune voci, rilanciate dagli Stati Uniti, parlano della riqualificazione della base navale di Ushuaia, all’estremo sud del continente, che potrebbe essere condotta da compagnie cinesi – un copione molto simile a quello della “base” cambogiana di Ream (anche questo tutto da confermare).

Dalle Isole Salomone alla Papua Nuova Guinea: il Dragone nel Pacifico

“La Cina può, in base alle proprie esigenze e con il consenso delle Isole Salomone, effettuare visite navali, effettuare rifornimenti logistici e fare scalo nelle Isole Salomone”. Dalla bozza del patto di cooperazione e sicurezza tra Repubblica popolare cinese e Isole Salomone. Parole come sempre ambigue che potrebbero schiudere a Pechino la possibilità di dislocare, un domani, soldati e installazioni sul piccolo arcipelago pacifico.

Nonostante il primo ministro di Honiara, Manasseh Damukana Sogavare, giuri e spergiuri che nessuna base cinese sarà costruita nel suo paese, la bozza dell’intesa sembra puntare in quella direzione. Specie perché oltre al passaggio, ai cinesi viene appaltata la possibilità di intervenire, se richiesto dal governo delle Salomone, per ristabilire l’ordine pubblico e tutelare i lavoratori cinesi nelle isole.

Sul finire del 2021 un’ondata di violente proteste sconvolse il piccolo arcipelago. I manifestanti si scagliavano proprio contro l’eccessiva influenza che il governo aveva accordato al Dragone – nel frattempo diventato un partner commerciale insostituibile e un fornitore di aiuti umanitari e materiale militare. Il cambio di passo nelle relazioni trai due paesi è avvenuto nel 2019, quando le Salomone smisero di riconoscere l’isola di Taiwan come Cina “legittima” e si volsero verso Pechino. Poco dopo vennero firmati sei accordi di cooperazione, legati principalmente al settore delle infrastrutture.

Adesso l’Australia – che nelle Salomone ha sempre visto il proprio giardino di casa – e gli Stati Uniti parlano di “una linea rossa” da non superare in merito all’apertura di una base militare cinese, ma è possibile che i giochi siano già fatti – sebbene bisognerà aspettare qualche anno e probabilmente un “casus belli” rilevante perché la Cina decida di adoperarsi ufficialmente per una presenza stabile nel paese.

La penetrazione cinese tra gli atolli del Pacifico è stata favorita da un biennio molto difficile per le genti isolane. Trattandosi di paesi che dipendono da materie prime importate, fortemente ancorati al settore turistico, le isole del Pacifico hanno accusato ben più di altri posti la crisi pandemica Il debito (già molto ampio), è cresciuto in maniera smisurata. Il 22% di questo (prendendo in considerazione tutti gli stati insulari) è detenuto dalla Cina – una cifra che per alcuni paesi, come Tonga, Samoa e Vanuatu si avvicina al 50%.

La presa della Repubblica popolare cinese nella regione non è ancora sicura come Pechino vorrebbe far credere. Lo dimostra il fatto che il 30 maggio una proposta per un patto sulla sicurezza e sullo sviluppo regionale, esteso a dieci delle piccole nazioni del Pacifico, sia stata rifiutata anche da alcuni degli “amici” storici del Dragone nel Pacifico (come la Papua Nuova Guinea).

Il nuovo tassello del domino potrebbe cadere a Kiribati. Anche qui i rapporti commerciali e politici hanno conosciuto un salto di qualità nel 2019, in seguito al disconoscimento di Taiwan, avvenuto in contemporanea con le Salomone. Pechino sta realizzando per il governo locale dei lavori di ampliamento di una pista per aerei nell’isola di Canton.

Secondo quanto dichiarato a Reuters da un anonimo funzionario americano la Cina esercita pressioni sul governo di Tarawa perché l’installazione – che dista appena 3000km dalle Hawaii – venga concessa in gestione alle forze armate cinesi, che ne potrebbero fare “una portaerei galleggiante”.

In molti hanno visto la mano cinese dietro la decisione presa a inizio luglio da Kiribati di abbandonare il Forum delle isole del Pacifico, che include alcuni alleati di ferro degli Stati Uniti come Australia e Nuova Zelanda. Una mossa che ha spinto gli Stati Uniti a promettere una rinnovata attenzione (specie in termini di aiuti e investimenti) in tutta la regione. Nonostante la Cina e il governo di Kiribati abbiano rigettato al mittente le accuse, diversi esperti hanno messo in luce una dinamica molto sospetta nell’uscita dal Forum, a partire dall’inconsistenza della giustificazione ufficiale (una disputa sulla leadership dell’organizzazione).

Tra le paure di Washington c’è anche quella che il Dragone possa allungare gli artigli sulla Papua Nuova Guinea. Lo stato più “consistente” della regione, che dal 2000 ha ricevuto più di 18 milioni di dollari in aiuti militari da parte della Cina. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha smentito l’ipotesi che ci potessero essere in atto delle trattative sull’apertura di una base militare nella zona economica speciale di Ihu – come ipotizzato da alcuni media australiani nelle ultime settimane.

I rapporti trai due paesi in questo caso sono di vecchia data. Fin dall’anno dell’indipendenza, nel 1976, la Papua Nuova Guinea riconosce infatti Pechino come “vera Cina”. Qui il Dragone porta avanti il progetto infrastrutturale più grande del Pacifico, un riammodernamento di tutta la rete viaria del paese per un totale di quattro miliardi di dollari (parliamo di uno stato il cui prodotto interno lordo è inferiore ai 24 miliardi). Un altro indicatore della vicinanza tra Port Moresby e Pechino si vide nel 2020, quando la Papua si schierò a favore della controversa legge sulla sicurezza di Hong Kong.

Tirando le somme…

In definitiva il Dragone ha molti piani, ma poco di concreto. I colloqui con buona parte dei paesi che dovrebbero accogliere i militari di Pechino sono sicuramente a buon punto – sull’onda di export militare e finanziamenti a debito, ormai un marchio di fabbrica della diplomazia cinese – ma come insegna il caso degli Emirati, una base non è una base fino a che non viene inaugurata e i soldati prendono posizione. Cosa la Cina riuscirà a concretizzare all’estero dipende in larga misura da quanto gli Stati Uniti si potranno permettere in termini di pressioni sugli stessi governi per fare in modo che questi abbandonino Pechino.

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Francesco Dalmazio Casini

Francesco Dalmazio Casini

Fondatore di Aliseo, archeologo redento, appassionato di studi strategici. Voglio raccontare la geopolitica, cercando di leggere tra le righe gli interessi di attori espliciti e meno espliciti. Credo che all'informazione italiana manchino due cose: il realismo e la capacità di prendersi un po' di tempo prima di raccontare quello che succede.

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