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I mercenari della Cina: dove sono e cosa fanno i “contractor” di Pechino

Nella Rpc il mercenariato è illegale, almeno sulla carta. Dal 2009 sono però attive moltissime Psc, necessarie alla tutela degli investimenti esteri in aree ad alto rischio

Da un decennio a questa parte lo sviluppo degli assetti bellici si è innestato su un “triangolo delle potenze” che ai propri vertici vede Mosca, Pechino e Washington. Dai caccia di quinta generazione alle armi ipersoniche, passando per i sottomarini nucleari, la trilaterale del potere si insegue nell’innovazione della guerra, correndo forsennatamente per non lasciare al nemico un margine di vantaggio. Eppure, quando veniamo a quello che è il più antico degli strumenti militari – quei mercenari che sempre di più si caricano del lavoro sporco su mandato degli Stati – il triangolo ci appare monco del vertice cinese. A patto che esistano, dove sono i mercenari della Cina?

Mercenari di oggi

Il mercenariato vive oggi una nuova giovinezza. Di fronte ai costi sempre più alti delle operazioni convenzionali, le potenze demandano con maggiore disinvoltura alcuni compiti alle aziende militari private. Stati Uniti e Federazione russa si appoggiano alle rispettive compagnie di bandiera ovunque risulti impossibile o poco conveniente inviare uomini in divisa, mentre il business delle lame al soldo tocca vette inimmaginabili e pensa addirittura di sostituirsi in toto alle armi convenzionali.

Nel 2018 Erik Prince, ex operativo della Cia e patron del colosso della sicurezza Blackwater (oggi Academi) rivolge al presidente Trump la singolare richiesta di appaltare l’intera (o quasi) guerra in Afghanistan ai suoi mercenari, titillando le velleità isolazioniste del tycoon – che con la promessa del ritiro dalle “neverending wars” è arrivato alla Casa Bianca. Budget? Appena 5 miliardi di euro all’anno, una frazione di quello che il Pentagono spende per per la permanenza nel cimitero degli imperi durante gli anni della guerra. Alla fine, l’accordo fallisce solo grazie alle pressioni del segretario della Difesa James Mattis.

I colleghi russi della Wagner non sono da meno. Esercito ombra del Cremlino guidato da Dmitry Utkin, schierato ovunque ci siano interessi di Mosca da difendere, ha acquisito negli anni vere e proprie capacità di prima linea. I mercenari russi si fanno le ossa in Donbass, Africa e Siria. Qui nel 2018 arrivano addirittura a ingaggiare una battaglia, a Khasham, contro i militari americani – che escono dalla situazione solo grazie a un intervento provvidenziale dell’Airforce.

Anni di esperienza, li portano a essere impiegati come forza de facto convenzionale durante l’invasione dell’Ucraina. Dall’inizio del conflitto gli uomini della Wagner sono tra le unità russe che si sono distinte meglio per efficienza in combattimento – al netto di diversi report sulle atrocità commesse ai danni dei prigionieri. Dell’esercito privato del Cremlino farebbe parte un pilota abbattuto con il suo Su-25 il 18 giugno nella regione di Bakhmut  – conferma definitiva dell’acquisizione del dominio aereo.

Quando veniamo ai mercenari cinesi, al contrario, risulta difficile persino verificarne l’esistenza e l’eventuale operatività. Nel report annuale che il Pentagono dedica al potere militare del Dragone – l’ultimo del novembre 2021 – non si fa menzione dell’utilizzo di compagnie private per la proiezione di potenza all’estero, nonostante vengano sottolineati gli sforzi della Cina per strutturare una rete di player attivi nel settore.

La realtà è che negli ultimi anni Pechino, trascinata nei contesti più torbidi del pianeta dai suoi progetti infrastrutturali, si è resa conto che per difendere i suoi interessi servono le armi asimmetriche che solo uomini senza divisa possono brandire. Necessità che va di pari passo con quella di convogliare sulla questione meno attenzioni possibile, pena assomigliare ai “colonialisti occidentali” agli occhi delle popolazioni del terzo mondo che senza sosta il Dragone cerca di sedurre.

I “mercenari” in Cina

Il settore della sicurezza privata in Cina è molto giovane. Le Psc – private security company – sono state rese legali solamente nel 2009. Appena quattro anni dopo, nel 2013, nella Repubblica popolare erano attive circa 4000 firme, per un totale di 4,3 milioni di impiegati. Nel 2018, data dell’ultima rivelazione del Mercator Institute for China Studies, le aziende avevano toccato quota 7000. Di queste, tuttavia, erano meno di una quarantina quelle che operavano stabilmente fuori dai confini nazionali, impiegando intorno ai 3500 uomini, per lo più ex militari.

La distribuzione delle Psc cinesi e gli assi delle nuove vie della seta | Fonte: Csis

Da sottolineare come il mercenariato vero e proprio risulti ancora illegale nel Celeste impero. A poter operare, sulla carta, sono infatti le Psc e non le Pmc – le private military companies, quelle aziende attive non solo nel settore della sicurezza ma che sono in grado di svolgere compiti, seppur secondari in genere, legati alla gestione di conflitti (scorta, addestramento, operazioni combat vere e proprie). Le stesse compagnie di sicurezza che operano all’estero oggi non hanno il diritto di utilizzare la forza se non per la difesa personale o quasi.

La penetrazione cinese in Africa e l’aumento della presenza di aziende in zone ad alto rischio come il Pakistan ha tuttavia messo Pechino di fronte a una realtà molto complessa. Tra 2018 e 2019 una serie di linee guida ha fornito un quadro di indirizzo per quel che riguarda la tutela degli investimenti cinesi all’estero. Non solo le società che intendono operare oltremare sono tenute a fornire al governo piani dettagliati per la sicurezza di lavoratori e siti produttivi, ma vengono anche fissati dei requisiti per la professionalizzazione del personale.

Nella gran parte dei teatri le aziende cinesi sono fortemente incoraggiate a rivolgersi alle compagnie di bandiera – i cui nomi restano per lo più sconosciuti in occidente. Trai player più importanti troviamo Hua Zhong An, che si concentra nel settore della sicurezza marittima, specie nel Golfo di Aden e in quello di Guinea, vessati dai pirati. Per quanto concerne le compagnie che forniscono servizi “a terra”, presidiando infrastrutture e snodi logistici, alcuni dei nomi più importanti sono Haiwei group e Frontier Service Group.

Trai fornitori privilegiati delle istituzioni cinesi e delle compagnie petrolifere troviamo poi il DeWe Security Group, una compagnia di sicurezza privata fondata nel 2011 da ex ufficiali dell’esercito e della polizia popolare. Dalla fondazione sono stati circa 70mila i contractor cinesi che sono stati addestrati dal gruppo, coinvolti in almeno un migliaio di incidenti gestiti con successo.

Oltre a garantire la sicurezza del più grande progetto energetico cinese all’estero, un campo di estrazione di gas naturale in Etiopia di proprietà dalla cinese Poly GCL PGH, DeWe svolge compiti di scorta e sorveglianza in Kenia e Sud Sudan. Tra i compiti dell’azienda è da segnalare l’attività di training impartita alle forze di polizia e di sicurezza private africane, per cui la compagnia fa anche da intermediario per l’acquisto di tecnologie militari da Pechino.

Si tratta di attori che lavorano principalmente con le grandi aziende cinesi a partecipazione statale – la cui spesa per la sicurezza tocca i 10 miliardi di dollari l’anno secondo il think tank China Overseas Security and Defense Research Center, circa un terzo del budget per la Difesa dello Stato italiano. Per fugare gli equivoci e allontanare lo spettro del mercenario/saccheggiatore all’occidentale, grande attenzione viene data al raggiungimento delle certificazioni internazionali e al rispetto del Documento di Montreaux, che detta le linee guida per il “corretto” comportamento di Psc e Pmc.

Episodi e controversie

A suonare la sveglia per Pechino sono una serie di episodi avvenuti nel primo decennio degli anni 2000. Nel 2004 alcuni lavoratori cinesi vengono uccisi in Afghanistan, probabilmente da un gruppo di Talebani. Un fatto analogo si ripete nel 2008 quando degli operai che lavorano nel settore petrolifero vengono rapiti nel Darfour, Sudan, e quattro di loro perdono la vita. Nello stesso stato africano, quattro anni dopo, ben 30 cittadini cinesi sono rapiti da milizie locali e poi rilasciati circa due settimane dopo. Le date coincidono con l’interesse del partito per il settore della sicurezza privata, che negli stessi anni inizia a spiccare il volo.

In occasione della crisi sudanese del 2012 si registra infatti il primo coinvolgimento “ufficiale” di una compagnia di sicurezza privata cinese all’estero. Gli uomini del Vss Security Group sono al fianco del governo del Sudan per coordinare le operazioni di salvataggio. Uno dei contractor, Li Xin, in quell’occasione sottolinea le difficoltà poste dalla limitazione sull’utilizzo e sul possesso di armi da fuoco per il personale di sicurezza, che da allora vengono allentate.

I rischi per le imprese cinesi all’estero aumentano esponenzialmente a partire dal 2013, con il lancio dell’immenso progetto delle nuove vie della seta, che proietta il business del Dragone in alcune delle aree più calde del globo. Con il decollo degli investimenti all’estero, sempre più spesso tacciati di fungere da mezzo per l’acquisto di asset strategici dei paesi interessati, Pechino attira l’odio di una schiera di milizie indipendentiste, gruppi terroristici e, in alcuni casi, della popolazione locale.  

Nel 2016 e nel 2019, ad esempio, il Kazakistan viene scosso da violente proteste anticinesi, che si concludono solo dopo centinaia di arresti. I manifestanti ad Almaty e Nur Sultan denunciavano l’approccio predatorio degli investimenti del Dragone – che oggi è primo partner commerciale del paese – e la persecuzione degli uiguri (turcofoni come la maggior parte della popolazione kazaka). Le proteste erano indirizzate in particolare contro una legge promossa dall’allora presidente Nazarbaev che metteva in conto il “noleggio” per diversi decenni di alcune porzioni di territorio agli investitori esteri (dunque alla Cina).

Lo stesso copione delle proteste in Myanmar durante i giorni del golpe del 2021. A Yangon i manifestanti assaltarono il quartiere industriale dove avevano sede diverse aziende cinesi, dandole alle fiamme e causando diversi feriti. Simili proteste sono state osservate nelle Isole Salomone, Kiribati e altri Stati insulari del Pacifico in cui la presenza cinese è stata spesso percepita come una minaccia all’autonomia delle comunità locali.

Nel 2020 un episodio analogo si verificò in Kyrghizistan, dove Pechino gestisce una fitta rete di imprese minerarie. Durante le proteste antigovernative del 2020 – che portarono all’assalto del parlamento di Biskek – una folla di dimostranti occupò le miniere di Ishtamberdi e Kichi Chaarat, entrambe di proprietà di aziende cinesi, costringendo i lavoratori ad interrompere le attività.

La situazione più delicata è sicuramente quella del Pakistan. Un punto di arrivo fondamentale della via della seta per tramite del corridoio sino-pachistano, che permette alle merci cinesi un accesso per l’Oceano indiano grazie ai grandi porti di Karachi e Gwadar. Nel 2018 i guerriglieri dell’Armata di liberazione del Balocistan colpiscono il consolato cinese di Karachi con tre attacchi suicidi, causando la morte di quattro di persone (nessuna cinese). Gli attacchi degli indipendentisti baluci aumentano di pari passo all’influenza cinese nella zona e culminano negli attentati di Dasu del 2021, in cui perdono la vita nove ingegneri cinesi.

Un altro attacco si verifica all’università di Karachi ad aprile del 2022 e costa la vita a tre cittadini cinesi, tra cui un tutor dell’Ateneo. In Pakistan dal 2016 sono aumentati gli sforzi per porre un freno a questi atti di violenza, con l’istituzione di una task force condivisa tra Pechino e Islamabad per coordinare il lavoro dei contractor lungo il corridoio.

Alcuni degli episodi in cui sono rimasti coinvolti contractor cinesi | Fonte: Merics

Nel corso dell’ultimo decennio la Cina ha sviluppato il comparto delle Psc per far fronte al deterioramento della sicurezza nelle zone di interesse economico, permettendo regolamentazioni più lasche sull’utilizzo della forza. In Africa – continente cruciale della nuova globalizzazione alla cinese – i contractor sono stati coinvolti in una serie di incidenti. Nel 2018 due cittadini cinesi vengono arrestati in Zambia perché coinvolti in operazioni illegali di addestramento di alcune forze di sicurezza locali, a cui sembra venissero fornite anche delle divise militari. 

Non è chiaro se i cittadini cinesi che nel 2013 spararono contro dei civili in Ghana fossero inquadrati all’interno di una Psc. Quell’anno il governo ghanese lanciò una campagna per il contrasto alle attività minerarie illegali che portò all’arresto di ben 100 lavoratori cinesi e alla morte di un minatore di 16 anni.

Ad oggi le compagni di sicurezza del Dragone sono attive in buona parte del continente nero. In particolar modo sono Tanzania ed Etiopia che ospitano i centri logistici più importanti delle compagnie di sicurezza cinesi, a partire a Haiwei.

Perchè la Cina non farà a meno dei mercenari

Pur partendo con qualche anno di ritardo è probabile che nel medio termine Pechino cercherà di conformare il comparto dei contractor agli standard degli altri due vertici del triangolo. Anche se difficilmente avremo conferme ufficiali della mutazione delle Psc in Pmc. La necessità di uno strumento asimmetrico andrà ad aumentare esponenzialmente adesso che la Rpc si afferma come uno dei principali attori africani – anche alla luce dell’interesse nel settore della vendita di armi e servizi di training alle forze locali, dove il Dragone insidia il monopolio dei russi.

Al contempo, guerra in Ucraina insegna, una rete di compagnie private può costituire un bacino di mano d’opera attivabile a comando in caso di situazioni emergenziali. Certo, sullo sviluppo del mercenariato cinese pesano problemi inediti per i colleghi occidentali. In primis c’è l’aspetto linguistico: il cinese è lingua molto complessa da imparare e molti cinesi, specie tra quelli che non fanno parte della borghesia cittadina come possiamo immaginare buona parte dei contractor, sono restii allo studio delle lingue occidentali.

C’è poi una questione di esperienza. Le forze armate del Dragone, dai cui ranghi proviene quasi in toto il personale di sicurezza, non sono impegnate in un conflitto dal 1979 – con conseguente mancanza di expertise che non può essere colmata dalle operazioni antipirateria e di peacekeeping per cui Pechino si adopera tanto. Una situazione peggiorata dalle strettissime leggi sul possesso delle armi da fuoco nella Repubblica popolare, che evitano la formazione di quei gruppi di “appassionati” del settore militare su cui possono contare i competitor (Stati Uniti in primis).

Va da sé i vettori per facilitare lo sviluppo del settore vanno cercati altrove. Da una parte Pechino può puntare su un costo del servizio molto inferioresecondo il think tank Carnegie assumere un contractor americano o britannico costa ben 12 volte di più rispetto ad un collega cinese. Al contempo la Cina può contare sul controllo statale, ufficiale o ufficioso, sulle aziende fruitrici e prestatrici dei servizi di sicurezza – situazione più vicina a quella della Federazione russa che al mercato occidentale.

Un caso in particolare può fare da cartina al tornasole per immaginare le prospettive del mercenariato cinese. Il Frontier Service Group (Fsg) nasce da un’inedita collaborazione tra la Repubblica popolare cinese ed Erik Prince, già fondatore di Blackwater e figura legata a doppio filo agli apparati americani. La società, fondata nel 2014, è specializzata nella sicurezza delle imprese cinesi che operano in Africa ed è controllata al 51% (come impone la legislazione cinese per le Psc) da Citic Group.

Sulla carta la società non fornisce servizi di protezione armata e training militare, ma è proprietaria di alcune partecipazioni in società attive nel settore dell’antiterrorismo e nella Austrian aviation company Airborne Technology. Quest’ultima è una società che fornisce sorveglianza aerea e che secondo The Intercept fungerebbe da “aviazione privata” dello stesso Prince, che avrebbe modificato alcuni aerei leggeri per ospitare armi e piloni per sganciare bombe al suolo.

Al netto delle speculazioni, è accertato che molti ex militari occidentali lavorino per il Fsg, che oggi è attivo in una decina di paesi africani. La presenza di soldati esperti potrebbe fare della compagnia un curioso hub per il trasferimento di esperienza militare al personale cinese, difficilmente in grado di riperirlo in patria. Al contempo l’apertura di centri di addestramento permanenti, come quello annunciato nel 2020 nella cruciale regione del Xinjiang, potrebbe rappresentare il primo passo per una professionalizzazione in chiave militare della Psc – anche alla luce del fatto che dal 2021 Prince non risulta più alla guida della compagnia.

Ulteriore conferma della percezione dei contractor come strumento di proiezione all’estero è una notizia del 2019. Per tramite del The Belt and Road News Network (media di Stato de facto), la Cina aveva infatti annunciato che le Psc di bandiera avrebbero potuto accedere al sistema di navigazione satellitare Beidou, alternativo al Gps americano. Scopo dichiarato: “evitare la dipendenza dalle tecnologie occidentali”. Un passo importante per trasferire in un settore a cavallo tra il privato e il pubblico quell’approccio competitivo, a livello geopolitico, che informa sempre di più la postura cinese all’estero.

Foto in evidenza: account Wechat di Hua Xin Zhong An’s

Francesco Dalmazio Casini

Archeologo redento, giornalista, appassionato di geopolitica. Nato a Roma e ritornato dopo una breve parentesi milanese per dirigere Aliseo. Mi piace raccontare i conflitti, le interazioni e il fattore umano degli attori internazionali. Ogni tanto faccio delle puntate nel campo dell’energia, della politica e della logistica. In altre parole mi piace spiegare cosa c’è dietro a quello che succede nel mondo. Una missione: portare la cultura dell’informazione approfondita (e lenta) in Italia.

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