Il 12 settembre 1958 Jack Kilby otteneva il brevetto per il suo circuito integrato, il primo della storia. L’ingegnere della Texas Instrument di Dallas con la sua monolithic idea era stato in grado di dimostrare che l’inefficiente processo di assemblaggio manuale delle singole parti di un circuito si poteva eliminare incidendo quest’ultime direttamente su di un unico pezzo di semiconduttore.
Una straordinaria invenzione – quella di Kilby – che aprì la strada allo sviluppo dei cosiddetti microchip, “pezzetti” di silicio con peso e dimensioni minimi, in grado di effettuare autonomamente operazioni aritmetiche e logiche. La velocità e la precisione di tali dispositivi segnarono una svolta profonda in tutti i campi della tecnologia, non da ultimo quello difensivo e militare.
Fu sempre il pioniere dei microchip, infatti, a collaborare nel 1961 alla realizzazione del primo elaboratore per l’aviazione statunitense basato su circuiti logici e memoria a semiconduttori, ed in seguito, nel 1962, allo sviluppo del missile balistico intercontinentale Minuteman a testata nucleare, che impiegava proprio i nuovi circuiti integrati. In piena Guerra Fredda i chip divennero dunque un asset strategico, elemento chiave per assicurarsi la superiorità sul rivale, sviluppando armi, sistemi di difesa e tecnologie aereospaziali “intelligenti”.
Usa, Cina, Taiwan, Giappone e Corea del Sud: la frammentata catena del valore del chip
Da allora i “pezzetti di silicio” sono diventati il cervello di smartphone, pc, auto, televisori, frigoriferi, tecnologie di uso quotidiano che, secondo Bloomberg, oggi attribuiscono all’industria del chip un valore di 500 miliardi di dollari. Come indicato “profeticamente” dalla legge di Moore del 1965, la crescita esponenziale del mercato dei chip negli anni ha trovato il suo motore nella progressiva miniaturizzazione ed integrazione dei circuiti integrati; questa ha permesso di dimezzare le dimensioni dei chip di generazione in generazione, raddoppiando la loro produzione ed aumentando prestazioni e competitività sul mercato.
Tali dinamiche hanno informato una notevole frammentazione della filiera del chip, sia dal punto di vista produttivo che dal punto di vista prettamente geografico, da cui una stretta interdipendenza tra Stati Uniti, Cina, Europa, Giappone, Corea del Sud e Taiwan, i principali attori del settore. È proprio questa interconnessione a costituire il tallone d’Achille della catena del valore dei chip, causa delle insidie di questo mercato (si veda la crisi durante la pandemia da Covid-19) e humus dello scontro geopolitico già in corso tra le due maggiori superpotenze del pianeta, Stati Uniti e Cina.
La catena del valore di ogni processo produttivo è per definizione scandita da fasi limitate. E così è per i chip. Raramente le industrie che operano nel settore abbracciano l’intera filiera produttiva. Le eccezioni sono costituite dalle cosiddette Idm (Innovation, Development and Marketing), aziende che progettano i chip e li producono in stabilimenti di proprietà. I colossi IDM sono le americane Intel e Texas Instruments, e le sudcoreane Samsung e Sk Hynix. Tuttavia, le aziende più diffuse sono le fabless e le foundries; le prime si occupano esclusivamente del “disegno” del chip affidando il processo manifatturiero alle seconde.
Gli Stati Uniti dominano il comparto del design e della progettazione, con una quota di mercato che un report del 2021 di Cassa Depositi e Prestiti attesta al 65%, contro le piccole percentuali di Taiwan (17%), Cina (15%) e Ue (2%). Leader anche nelle vendite, gli States sono però carenti nella fabbricazione dei chip (8%), settore ad alta intensità di capitale, in cui detengono il primato le fonderie taiwanesi – prima fra tutte TSMC – con una quota di mercato totale del 65%, seguite da Corea del Sud (17%) e Cina (6%). Anche assemblaggio e testing, fasi caratterizzate da alta intensità di manodopera e ridotti margini di profitto, avvengono prevalentemente in Asia, con Taiwan ancora in vetta con il 53%, seguita da Cina (19%) e Usa (13%).
La Cina, dunque, tranne che nella lavorazione delle terre rare utili alla produzione dei dispositivi elettronici, non detiene primati in alcuna fase della catena del valore dei chip. Ragion per cui Pechino sta provando a tradurre in realtà il piano Made in China 2025, che impone al Dragone di rendersi autosufficiente nel settore semiconduttori entro il 2025. Per ora però la Repubblica Popolare continua a dipendere dalle importazioni, con il 36% dei semiconduttori acquistati provenienti da Taiwan.
Taiwan e il valore geopolitico di Tsmc
L’azienda taiwanese Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) è ad oggi la più importante al mondo nel settore chip, con una capitalizzazione di mercato pari a 500 miliardi di dollari (febbraio 2023). Con Cina (Huawei, Hisilicon, Alibaba) e Stati Uniti (Intel, Tesla, Apple, Qualcomm, Xilinx) come maggiori clienti, Tsmc riveste un ruolo strategico nei rapporti di Taipei con Pechino e con Washington.
Da un lato, la forte dipendenza del Dragone dalla fonderia taiwanese negli anni ha probabilmente contribuito a scoraggiare i piani di riannessione armata dell’“isola ribelle” da parte della Repubblica Popolare, in quanto una simile azione, mettendo a rischio gli impianti produttivi e l’intera filiera dei chip, costituirebbe un boomerang letale per l’economia cinese.
A tal proposito Morris Chang, fondatore di Tsmc, ha definito la sua azienda come una «importante montagna a difesa della nazione». Dall’altro lato, l’importanza di TSMC per Washington è stata sottolineata dalla visita della speaker della Camera Nancy Pelosi al Presidente della fonderia Mark Liu durante il suo viaggio a Taipei lo scorso agosto. Gli Stati Uniti vogliono assolutamente evitare che la propria proprietà intellettuale e il proprio know-how alla base delle tecnologie più avanzate che Tsmc produce per loro possano essere rubati e replicati dai cinesi con fini militari o di spionaggio.
Cina e Usa, la “guerra” dei microchip è cominciata
Washington vede nella Repubblica Popolare «l’unico attore che intende riformare l’ordine internazionale e che ha le risorse economiche, diplomatiche, militari e tecnologiche per farlo», come si legge nel documento sulla Strategia per la Sicurezza Nazionale del 12 Ottobre 2022. Per conservare la supremazia planetaria, è necessario conservare la supremazia tecnologica, ostacolando la Cina nello sviluppo di capacità di produrre chip avanzati. Per assolvere a questo imperativo strategico, gli Stati Uniti hanno intrapreso da alcuni anni politiche di restrizione via via crescenti ai danni della Repubblica Popolare.
Lungi dall’essere una tattica esclusivamente trumpiana, la guerra economica alla Cina è stata rafforzata e affinata dall’amministrazione Biden. Le misure restrittive, indirizzati durante l’era Trump a singole aziende (si veda Huawei), sono stati estesi a molte altre aziende cinesi. Tra queste, Ytmc, azienda cinese che produce semiconduttori, in cui gli Stati Uniti hanno smesso di installare nuove tecnologie e strumenti.
In questo scenario si colloca anche il Chip and Science Act, provvedimento bipartisan varato ad agosto 2022 da di 280 miliardi di dollari per sostenere la ricerca scientifica e rendersi più indipendenti nella produzione di semiconduttori, svincolandosi dalla dipendenza estera. Per sostenere l’industria dei chip in loco ci sono sul tavolo 52 miliardi di dollari. Le condizioni per beneficiarne prevedono l’impegno per i 10 anni successivi al finanziamento a non espandere la produzione dei semiconduttori nella Repubblica Popolare, definita nel documento come «country of concern» (paese che desta preoccupazione).
Con lo stesso obiettivo Washington ha richiesto e ottenuto, non senza alcune divergenze, che l’industria olandese Asml colosso nella produzione di macchine per la litografia a raggi Uv bloccasse le esportazioni dei suoi avanzati macchinari verso Pechino. La Cina parallelamente sta investendo miliardi di dollari per sviluppare un’industria nazionale indipendente, ma ha bisogno di attrezzature specializzate al pari di quelle il cui export è stato limitato dagli Stati Uniti. Analoghe misure dovrebbero essere prese dal colosso giapponese Electron.
Attorno ai pezzetti di silicio, quindi, non ruotano solo centinaia di miliardi di dollari generati dal loro mercato, ma soprattutto le strategie dei maggiori attori sullo scacchiere geopolitico internazionale. Con gli Stati Uniti accortisi che la dipendenza produttiva può rivelarsi esiziale per la propria supremazia. Ansiosi di poter acquistare una relativa autosufficienza nel settore attraverso ingenti stanziamenti di risorse.
Nel frattempo Washington crede che sia necessario limitare l’export verso la Cina, compattando su questa linea anche i propri alleati, per impedire che il Dragone possa replicare le sue sofisticate tecnologie. Dall’altra parte la Repubblica Popolare è consapevole di dover avanzare in ogni fase della catena del valore del chip, investendo in progettazione e ricerca. Solo in tal caso la Cina potrebbe ambire a strappare a Washington il ruolo di numero uno.