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Verso un nuovo conflitto tra Etiopia e Eritrea?

L'accesso al mare e le dispute storiche avvicinano il conflitto tra Etiopia e Eritrea, con la Cina che osserva da vicino il Corno d'Africa

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Le tensioni internazionali sono tornate a infiammarsi nel Corno d’Africa, in una regione già flagellata da violenti conflitti etnici e dalla proliferazione di attori armati non statali. A incrinare una situazione già precaria è stata la crisi dei rapporti tra Addis Abeba e Asmara, che potrebbe innescare un nuovo conflitto tra Etiopia ed Eritrea.

Lo scorso 13 ottobre il premier etiope Abiy Ahmed ha presentato in parlamento una bozza programmatica intitolata significativamente L’interesse nazionale dell’Etiopia: principi e contenuti, incentrata sulla necessità di guadagnare uno sbocco sul Mar Rosso per l’Etiopia. La rivendicazione di un accesso marittimo, basata su antiche pretese storiche risalenti all’Impero etiope, è sempre stato un punto dolente dei rapporti tra i due Paesi.

La regione eritrea è stata per secoli governata da sovrani locali vassalli dell’Imperatore etiope fino a che nel 1889 fu annessa dall’Italia, come parte di una serie di accordi con Addis Abeba. Dopo la fine dell’impero coloniale italiano a seguito della Seconda Guerra Mondiale, l’Eritrea fu trasformata in una provincia dell’Impero etiope.

Divisa tra molteplici etnie al suo interno, l’Etiopia ha a lungo sperimentato un problema di violenza intercomunitaria, a cui recentemente si è aggiunta la frizione con l’Eritrea circa la provincia settentrionale ribelle del Tigray.

Il conflitto tra Etiopia e Eritrea

Tuttavia, l’aver ignorato le tendenze autonomiste degli eritrei – che già l’avevano resa una delle colonie più sensibili alla penetrazione culturale italiana – innescò una sanguinosa ribellione contro il dominio etiope. Dopo trent’anni di guerra, nel 1991 l’Eritrea ha ottenuto finalmente l’indipendenza ma questa non ha significato la fine delle ostilità. Dispute confinarie portarono a una nuova guerra tra il 1998 e il 2000, che si concluse in una lunga fase di rancore silenzioso tra le due parti.

L’attuale Primo Ministro etiope Abiy Ahmed, arrivato alla guida del suo paese nel 2018, l’anno successivo vinse il Nobel per la Pace proprio per l’apertura diplomatica che pose fine a questi due decenni di odio reciproco. Le intese di pace tra Ahmed e il dittatore eritreo Isaias Afwerki furono salutate come una svolta per l’intera regione, ma gli eventi successi hanno dimostrato quanto premature furono quelle speranze.

Lo scoppio della guerra civile etiope (nota anche come Guerra del Tigray) ha inizialmente rappresentato un’occasione di rafforzamento dei rapporti tra i due paesi. L’Eritrea infatti è intervenuta con i suoi soldati a sostegno del governo etiope contro i ribelli tigrini, che pure appartenevano al medesimo gruppo etnico. Molti osservatori hanno salutato in questa mossa come il prodotto di una storica convergenza he aveva trasformato due nemici storici in alleati. Tuttavia, l’illusione non era destinata a durare.

Un carro armato abbandonato nella regione di Oromia, nell’Etiopia centro-orientale. Dopo la fine della fase coloniale italiana, la regione del Corno d’Africa è stata attraversata da frequenti fasi di violenza etnica intra-statale e di guerra aperta tra i tre paesi maggiori: Etiopia, Eritrea e Somalia.

Il conflitto tra Etiopia e Eritrea ha il colore del mare

Dopo la conclusione del conflitto con gli accordi di Pretoria, conclusi il 2 novembre 2022, l’Eritrea infatti non ha ritirato le proprie forze, approfittando dell’evidente incapacità militare etiope di rimuoverle dal proprio territorio. L’impatto destabilizzante di queste manovre ha portato al collasso delle intese bilaterali, tra le quali una serie di accordi concernenti proprio la proiezione marittima etiope.

Come parte dell’apertura del 2018 infatti, i porti di Assab e Massaua hanno visto lo sviluppo di progetti di ampliamento e di collegamento ferroviario che avrebbero dovuto agganciarli sul piano infrastrutturale alle città etiopi. Ma l’infrangersi di questo scenario ha portato alla crisi diplomatica in corso.

«Vogliamo lavorare per l’ottenimento di un porto con mezzi pacifici, ma se ciò non fosse sufficiente, siamo pronti all’uso della forza» ha dichiarato il capo del governo etiope, ventilando apertamente la possibilità che Addis Abeba ritornasse al 1998 e al tentativo di aprirsi la strada verso il mare manu militari. Ma le dispute storiche hanno poco a che fare con il passato e il molto più (geopoliticamente) con il futuro che l’Etiopia sogna di darsi.


«Il Mar Rosso e il Nilo sono determinanti per l’Etiopia, sono la base del suo sviluppo o in alternativa potrebbero sancire la sua scomparsa» ha dichiarato Ahmed nel presentare il suo piano geopolitico, chiarendo quali fossero le direttive essenziali per l’Etiopia: il Nilo, maggiore asse fluviale africano, rappresenta una vitale arteria commerciale e un trampolino infrastrutturale centrale della visione di rilancio etiope (come l’immenso progetto della “Diga del rinascimento etiope”, la DRE, dimostra), nonostante le obiezioni egiziane e sudanesi.

Il Mar Rosso invece rappresenta la realizzazione geografica della proiezione di potenza etiope, il suo tentativo di agganciarsi alle catene di produzione globali per via marittima, senza il quale l’Etiopia vivrebbe in una «prigione geopolitica».

Centrale in questa visione è il rapporto con la Cina: Pechino ha finanziato grandi infrastrutture (come la stessa DRE) in Etiopia ed è stata il motore dell’ingresso di Addis Abeba nel gruppo Brics, un risultato eclatante per la diplomazia del paese africano, considerando anche gli strascichi e le distruzioni della recente guerra civile.

Macchine agricole importate dalla Cina. Pechino ha investito molto negli ultimi anni per fornire strumenti, tecnologie e infrastrutture ai paesi africani, in cambio di spazi commerciali e influenza politica. Anche la Grande Diga del Rinascimento Etiope risulta oggi per circa un quinto finanziata da banche cinesi.

Nel Mar Rosso la Cina ha un ruolo e l’Occidente no

La stessa Cina coltiva l’idea di “allevare” le emergenti potenze regionali africane, per farne partner su cui imperniare la propria visione di un nuovo ordine internazionale de-americanizzato. Tuttavia, Pechino non ha intenzione di alimentare conflitti che possano turbare la sua penetrazione globale né di compromettere i suoi asset regionali, come la base navale nel vicino Gibuti, creata in funzione anti-pirateria (ma capace di accogliere una portaerei) e al momento l’unica installazione militare cinese al di fuori dei suoi confini.

Non a caso il 26 ottobre Ahmed ha rettificato le sue precedenti dichiarazioni, asserendo che Addis Abeba non ha intenzione di usare la forza contro i suoi vicini. L’uscita, significativamente rilasciata in occasione della Giornata nazionale dell’Esercito, è avvenuta pochi giorni dopo il viaggio di Ahmed in Cina, in occasione del terzo Forum sulla Nuova Via della seta. Progetto a cui peraltro anche l’Eritrea ha aderito, come ha confermato la visita del Presidente Afwerki a Pechino lo scorso maggio.

La pressione internazionale sembra per il momento aver arrestato l’escalation della crisi, almeno finché l’Etiopia resterà troppo indebolita per far seguire alle parole i fatti. Ci sono però almeno due aspetti di questa congiuntura che devono essere rilevati.

Il primo è che questa pressione estera è di stampo marcatamente non occidentale. Le cancellerie europee e americana sono state quasi completamente assenti di fronte alla crisi che si dipanava in Africa orientale. Anche l’Italia, che pure avrebbe ragioni storiche e commerciali per interessarsi della regione, ha mantenuto un ruolo molto defilato. Il tanto pubblicizzato viaggio della premier Giorgia Meloni l’aprile scorso sembra essere ormai solo uno sbiadito ricordo.

Il premier etiope Abiy Ahmed mentre accetta il Nobel per la Pace nel 2019. La sua azione di governo non ha successivamente risposto alle speranze di pacificazione regionale che erano state riposte in lui e presto o tardi la sua visione di una nuova Etiopia potrebbe richiedere una guerra per realizzarsi.

L’Etiopia si vede al suo gran debutto

L’altro aspetto da valutare è che se le ragioni della de-escalation sono da ricercare fuori dai confini etiopi, i motivi della crisi vanno invece indagati nel frammentato fronte interno della grande nazione africana. Ahmed coltiva il sogno di creare un moderno stato nazionale dal crogiolo di etnie e comunità tribali che è stata a lungo l’Etiopia, una configurazione che ne ha plasmato la storia tanto sotto l’impero quanto dopo il rovesciamento del Negus.

La fine della monarchia coincise con l’ascesa di un regime comunista, il Derg, guidato dal colonnello Menghistu Hailé Mariam, figlio di schiavi dell’aristocrazia etiope liberati al momento dell’invasione italiana del paese. Il Derg fu sconfitto nel 1991 dopo una brutale guerra civile che vide la vittoria del Fronte Democratico Rivoluzionario Popolare Etiope, alleanza composta da quattro partiti in rappresentanza delle maggiori etnie del paese: i tigrini, gli amhara, gli oromo e le popolazioni dell’Etiopia meridionale.

All’interno del Fronte Popolare i tigrini hanno mantenuto sempre una forte influenza, grazie anche a Meles Zenawi, leader tigrino che divenne il primo capo del governo post-Derg e che rimase in carica fino alla morte nel 2012. Zenawi fu seguito dal breve governo di Hailemariam Desalegn, un etiope meridionale, ma una generazione dopo la fine della guerra le ragioni della compattezza etnica iniziavano a venire meno: lo scoppio di proteste etniche, soprattutto oromo, indusse Desalegn alle dimissioni nel 2018, aprendo la strada ad Ahmed, il primo oromo alla guida dell’Etiopia.

Una volta arrivato al potere, Ahmed ha cercato di avviare un percorso di riforme radicali volte a superare la storia etiope. Il Fronte Popolare, con la sua complessa partitocrazia etnica, è stato sciolto e fuso per formare il Partito della Prosperità, nel tentativo di superare le logiche settarie basate sulla vecchia tetrarchia etnica. Ahmed ha amnistiato molti prigionieri politici e concluso la pace con la vicina Eritrea, nell’intento di garantire la pacificazione locale.

Il tentativo di scalzare i tigrini dal potere dopo quasi un trentennio di egemonia ha però indotto questi a insorgere nel 2020, alleandosi con una serie di formazioni minori (tra cui anche l’Esercito di Liberazione Oromo, la stessa etnica di Ahmed) ostili alla de-etnicizzazione promossa dal nuovo corso. Due anni di guerra e centomila morti più tardi i tigrini sono stati battuti dalla coalizione di etiopi lealisti e militari eritrei ma la pace regionale era ormai infranta.

In questo contesto, Ahmed sa però che un nemico esterno, come lo storico avversario eritreo (che appartiene allo stesso ceppo etno-linguistico dei tigrini e che dunque mantiene un legame ambivalente verso la regione etiope del Tigray), può servire a mobilitare e ricompattare il fronte interno di un Paese sconvolto dalla guerra civile. Soprattutto se questo nemico viene presentato come l’ostacolo al futuro di prosperità, modernizzazione e “rinascimento” che Ahmed e i suoi alleati promettono.


Secondo una parte del pensiero politologico, l’ingresso nella modernità industriale corrisponderebbe a una fase di ampi sconvolgimenti sociali che, in assenza di un evento catartico (come una guerra), tenderebbero a sfociare in una congiuntura autoritaria che imponga il processo di modernizzazione bilanciando l’instabilità sociale con la stabilità politica della loro leadership (Atatürk, Indira Gandhi, Reza Pahlavi, Nasser, Lenin vengono tutti citati come esempi di tale tesi). Ahmed sembra aspirare a ricoprire lo stesso ruolo e diventare il padre di una nuova Etiopia moderna. E laddove la sua autorità non dovesse bastare, una guerra potrebbe farlo.

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Immagini: “Flag map of Ethiopia” by Pnn2013 is licensed under CC BY-SA 4.0; “Ethiopia regions map” by Peter Fitzgerald is licensed under CC BY-SA 3.0; “Abandoned army tank in Ethiopia’s Oromia region.” by www.ralfsteinberger.com is licensed under CC BY 2.0; “Power-tillers imported from China” by IFPRI is licensed under CC BY-NC-ND 2.0; Ethiopian Prime Minister Abiy Ahmed receiving the Nobel Peace Prize in Oslo 2019″ by Bair175 is licensed under CC BY-SA 4.0.

Federico Sangalli

Nato a Milano. Classe 1998. Ho fatto il Liceo Classico, poi mi sono laureato in Politiche Europee e Internazionali presso la facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell'Università Cattolica di Milano. Al momento sono in procinto di andare a lavorare alla FAO a Roma. Appassionato inguaribile di Storia, Geopolitica e Relazioni Internazionali. Collaboro con Aliseo per unire la serietà dell'informazione alla facilità d'accesso della divulgazione.

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