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Cosa vince e cosa perde Pechino in Ucraina

Il portamento ambiguo del Dragone: schierarsi senza farlo

La leadership del PCC è praticamente digiuna di esperienza militare. Dal conflitto in Ucraina può imparare molto.

«La Cina, ecco un mostro che dorme, quando si risveglierà la faccia del mondo sarà cambiata». A Napoleone Bonaparte il merito di aver compreso, un paio di secoli prima dell’evo corrente, la statura di un Drago che all’epoca sembrava dovesse dormire in eterno. Un sonno profondo entro cui celare la propria ascesa a superpotenza planetaria, che la leadership cinese ha tentato di prolungare il più possibile. Fino all’ultimo secondo.

Nel discorso sull’Ascesapacifica della Cina, pronunciato nel 2003 al forum asiatico di Boao, il politologo cinese Zheng Bijian descrisse al mondo una «strategia che trascenda le vie tradizionali che le grandi potenze hanno per emergere». Sono anni di fuoco per il Dragone. Il ricordo del massacro di Tiennamen è sbiadito e la Cina ha fatto tanto per andare oltre, tanto che nel 2001 gli States, in piena ebbrezza idealistica da mondo unipolare, la ammettono nel WTO. Per proseguire la crescita a doppia cifra, la Repubblica popolare deve mostrare il volto pacifico del panda, non quello truce del Dragone. E dunque Zheng parla al mondo di sviluppo, di pace, di globalizzazione.

Sonno cercato e perseguito dall’avvento di Deng, con lo scopo di evitare attenzioni indesiderate. Leggasi, americane. Certo, non sempre il più tranquillo dei riposi. Ma gli scossoni, in definitiva, sono stati pochi. Nel ’95 Clinton inviò le portaerei nello stretto di Formosa quando Pechino, di fronte alle prime elezioni libere di Taiwan, minacciò l’invasione. Avvertimento ribadito dallo stesso presidente, in maniera molto yankee, con il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado. Dormite, che è meglio.

I cinesi segnarono l’affronto – che non sarà mai dimenticato – e si rimisero a letto. Segue un decennio e mezzo di miracolo economico e proficui rapporti diplomatici. Fino al 2016 almeno, quando l’amministrazione Trump fece della guerra commerciale a Pechino uno dei punti di forza della corsa alla Casa Bianca. Lungi dall’essere una velleità strampalata dell’ex presidente, Washington promosse un cambio di narrativa in tutto il mondo occidentale. Ora la Cina non poteva più dormire e gli States suonavano la grancassa per svegliarla.

Belgrado, resti dell’ambasciata cinese bombardata dagli USA nel ’99: un affronto che la Cina non ha mai dimenticato

Il Dragone aveva riposato per troppo tempo, accumulando abbastanza carte da risultare in prospettiva uno sfidante per l’egemonia globale. Lo scontro doveva cominciare ora. Adesso che gli Stati Uniti avevano ancora il polso della situazione. Dal canto suo, la Cina provava a dormire, continuava a presentare al mondo la faccia del panda: mansuetudine artefatta favorita da anni di pacifico sviluppo. Operazione di propaganda in parte andata a buon fine, complice anche la diffusa ostilità dei partner americani nei confronti dell’inquilino della Casa Bianca.

Fino al 2020. La pandemia, come ogni grande crisi, costringe i rapporti di forza a mostrarsi sotto gli occhi di tutti. I Cinesi, trascinati nella battaglia della narrativa dagli astuti americani, ora rispondono colpo su colpo alle provocazioni occidentali. I jet di Pechino compiono incursioni nei cieli taiwanesi. La narrativa del panda sembra archiviata fino a data da destinarsi. 

Perché introdurre così un’analisi sulla Cina nel conflitto in Ucraina? Perché la guerra di Putin segna il non ritorno anche per il sonno del Dragone. Costretta a seguire, almeno in un primo momento, la Russia nel fronte dei “cattivi”, Pechino deve giocare nella crisi come il player globale che è: come gli americani vogliono che faccia – volontà segnalata dall’incontro romano tra il consigliere della sicurezza nazionale Sullivan e il ministro degli esteri cinese Wang Yi. La Cina vorrebbe dormire, continuando ad accumulare, ma non può.

Per dirla terra terra. Se un tuo amico, che è anche tuo vicino di casa, inizia a sparare e una buona metà degli abitanti della città (il mondo) risponde al fuoco, fare spallucce non è un’opzione. Se non altro per evitare che qualche proiettile vagante entri anche nella tua di casa.

Come si comporta la Cina

“jie líng hái xu xì líng rén” – “Spetta a chi ha legato il sonaglio al collo della tigre il compito di toglierlo”. Così il presidente cinese Xi Jinping al suo omologo Joe Biden durante il bilaterale del 18 marzo scorso. Tradotto: avete costretto la Russia ad agire in questo modo, ora vedetevela voi. Dall’inizio dell’offensiva russa la posizione della Cina è stata abbastanza silenziosa, ma netta.

Quella ufficiale è di un tacito supporto alle ragioni della Russia, descritta come assediata, messa all’angolo dall’allargamento della NATO. Di guerra i cinesi parlano molto poco, di invasione praticamente mai. Spendono parole per la pace e la fine delle ostilità ma non condannano, mai. Rilanciano le ragioni del Cremlino quando i due belligeranti si rinfacciano stragi e fatti di sangue. Quando poi russi e cinesi si incontrano, come accaduto a Tunxi a inizio aprile, i comunicati parlano di “amicizia senza limiti”.

Sulle sanzioni la linea è chiara. Uno strumento unilaterale «privo di fondamenti nel diritto internazionale», dice Zhao Lijian, battagliero portavoce del ministero degli Esteri.

I più animosi trai diplomatici e gli attivisti pechinesi vanno giù più pesante. Diffondono gli stessi meme che fioccano negli ambienti filorussi d’occidente, tirano fuori gli episodi più controversi degli interventi militari americani – dalla celebre (e falsa) provetta di Colin Powel ai bombardamenti in Iugoslavia. È il caso della missione diplomatica permanente in UE, che risponde al segretario della Nato Stoltenberg con una nota di raro zelo:

«Il popolo cinese comprende bene i dolori e le sofferenze degli altri Paesi perché non dimenticheremo mai chi ha bombardato la nostra ambasciata in Iugoslavia. Non abbiamo bisogno di lezioni di giustizia da chi abusa del diritto internazionale»

La retorica degli alti papaveri del Dragone è più moderata. Specie quando si va a parlare con i leader occidentali, Pechino vuole far passare l’idea che «non è una parte in causa nel conflitto in Ucraina», come ha detto il capo della diplomazia cinese Wang Yi all’omologo spagnolo un paio di settimane fa. Una posizione ribadita anche dal comportamento ai tavoli internazionali.

Durante le votazioni all’ONU contro Mosca, la Cina si è astenuta. In Consiglio di Sicurezza non ha posto il veto di fronte alle risoluzioni per condannare l’invasione. Mossa simbolica, dato che bastava il no della Russia, che segnala però la volontà (impossibile da realizzare) di restare fuori dal conflitto.

Quando si presenta ai meeting di alto livello, la Cina fa di tutto per non esporsi troppo. Ma ci riesce poco. Più volte, sia durante l’incontro con il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan che nell’incontro con la diplomazia UE, gli occidentali hanno chiesto di parlare dell’Ucraina. La Cina invece ha preferito parlare di altro: Taiwan, Uiguri, commercio. Se avanza tempo, qualche parola sull’Ucraina. Una postura che come prevedibile ha causato qualche malumore negli interlocutori.

Vladimir Putin alle esercitazioni militari congiunte “Vostok 2018”

Cosa perde la Cina

Consideriamo nella maniera più schematica possibile pro e contro dell’invasione russa vista da Pechino, adottando una lente che sia il più macroscopica possibile

  • Crescita pacifica addio. Lo scoppio delle ostilità e la nuova militarizzazione del fronte occidentale costringe la Cina a mostrare i muscoli. In questo senso la guerra di Putin è più indice che fattore scatenante. Entriamo in un ciclo in cui la distribuzione del potere cambia e le situazioni di crisi si moltiplicano. Come ha scritto Caracciolo su Limes, «trent’anni fa scambiammo la fine della pace per la fine della guerra» – e della storia, aggiungiamo noi.  Per Pechino, nello specifico, si tratterà di dirottare risorse sempre più ingenti dal welfare alle armi, rischiando di mettere in crisi il patto non scritto su cui si regge il totalitarismo del PCC: benessere in cambio di libertà
  • L’Occidente in armi. Gli Stati Uniti sfrutteranno il clima da mobilitazione generale per colpire l’ascesa cinese nell’Indo Pacifico. Lo Zar ha fornito a Washington una leva per mettere a tacere i malumori sulla permanenza degli alleati nell’alleanza atlantica. La superpotenza farà di tutto per orientare la direzione di questa Nato rinnovata sulla rotta di collisione Dragone, con possibile saldatura con gli alleati storici della regione. Non è un caso che al meeting straordinario di Bruxelles lo scorso marzo abbiano partecipato, oltre ai 30 membri del patto atlantico, anche Australia, Giappone e Corea del Sud, i pilastri del contenimento americano della Cina
  • In prospettiva il riarmo delle sornione collettività europee riduce il margine per una convivenza pacifica. E perché un domani (facciamo dopodomani) potrebbe alterarne l’antropologia nazionale in senso militarista e perché gli USA tenteranno di coinvolgerle all’occorrenza in operazioni tipo Fonops nell’Indo Pacifico, con le inevitabili tensioni che ne conseguiranno.
  • Il fronte dei cattivi. L’orrore della guerra galvanizza una visione colpevolistica delle relazioni internazionali. Tira una linea tra buoni e cattivi con il risultato di rendere (chissà per quanto) la Federazione Russa un paria internazionale. L’appellativo di “macellaio” che Biden ha rivolto a Vladimir Putin non è una gaffe (come spesso non lo sono, le sparate dell’inquilino della Casa Bianca) ma è un segnale agli alleati titubanti. O con noi o con l’orrore. Se per i liberali “la guerra è una crociata o è un crimine”, in questo caso abbiamo la netta percezione che siamo per la seconda. Per quanto il Dragone possa dissimulare il suo appoggio al Cremlino, evocando il feticcio della competizione tra grandi potenze per invitare alla distensione, il supporto ai russi segna il transito, forse definitivo, nel “fronte dei cattivi”.
  • L’instabilità. Terrore più grande che si possa evocare alla corte dell’imperatore rosso Xi Jinping, il caos rischia di dilagare anche nell’impero di mezzo se accadesse l’impensabile. Nell’improbabile caso in cui la guerra in Ucraina, le sanzioni o altro determinassero il collasso del sistema di potere putiniano, gli esiti sarebbero imprevedibili. Di certo il disordine e la violenza straborderebbero di là del confine da 4200 chilometri che divide i due giganti eurasiatici. Per non parlare della possibilità (remotissima) che all’era dello Zar segua un nuovo ciclo di marca filo-occidentale.
  • L’offensiva russa trasforma il Mar nero in campo di battaglia, costringe navi in porto e peggiora le prospettive di ripresa mondiali. Se è vero che gli occidentali (oltre ai russi ça va sans dire) pagheranno lo scotto peggiore, la Cina – alle prese con la fase più dura della pandemia da Covid19 – vede un quadrante fondamentale della sua via della Seta andare a fuoco e le proprie stime di crescita ulteriormente compresse dagli strascichi globali del conflitto. 

E cosa vince

  • Nuovi rapporti di forza. L’offensiva economica scatenata dagli occidentali ai danni della Federazione Russa – Bloomberg parla di un calo del Pil su base annuale del 9,2% – la costringerà a guardare a Oriente. A ben vedere, c’è il rischio che la Repubblica popolare diventi vero e proprio polmone d’acciaio dell’economia russa. Al netto del canale privilegiato di accesso agli idrocarburi e un’altra manciata di merci, la Russia non rappresenta un mercato particolarmente vivace su cui scaricare l’imponente surplus commerciale cinese. Il Dragone potrebbe tentare di esigere un dividendo politico in cambio del supporto economico-finanziario al Cremlino. Costringendo ad esempio la Russia a prendere una posizione più netta sui dossier che interessano alla dirigenza cinese, da Taiwan alla questione Uigura.
  • Gas e petrolio. Al netto dei proclami ecologisti, è improbabile che la Repubblica popolare dismetterà o ridurrà nel medio termine il consumo di energia da fonti fossili. Nei prossimi anni Russia e Cina lavoreranno per costruire un’infrastruttura per l’export energetico di livello simile a quella che porta gli idrocarburi russi in Europa. Volontà condivisa esplicitata dal raddoppio del gasdotto Power of Siberia, a pochi giorni dall’invasione dell’Ucraina. Oggi che in Europa di parla esplicitamente di embargo alle forniture russe, il Cremlino deve correre per sviluppare un mercato alternativo su cui scaricare il surplus energetico e il margine è ancora molto alto, considerato che parliamo di un solo gasdotto contro la schiera di quelli che arrivano in Europa (Yamal, Nord Stream I e II, Blue Stream, Turkstream e altri).
  • La cooperazione energetica aumenterà, ma a fare la parte del leone saranno i cinesi. Le grandi compagnie petrolifere cinesi hanno confermato quasi subito che i contratti in essere sarebbero stati onorati, ma sono state molto caute nel parlare del futuro. A inizio aprile colossi come Sinopec, Cnooc, PetroChina Sinochem ancora non avevano annunciato il destino delle forniture per il mese di maggio. Il 25 marzo Sinopec aveva già congelato un investimento da 500 milioni di dollari nel settore del gas in Russia. Il peso delle sanzioni di certo, ma non solo. Le aziende cinesi sono strumento di potenza nelle mani del partito. Rispondono a logiche geopolitiche ben prima che a quelle economiche. E se un supporto che sia il più cauto possibile ai russi aiuta a non passare per complici di Putin, le titubanze cinesi servono anche a notificare a Mosca il nuovo stato delle cose. Nel breve periodo a raggiungere accordi più vantaggiosi, nel lungo a far sì che al Cremlino capiscano bene che il rapporto di dipendenza è unilaterale. Discorso simile vale e varrà per cereali, nichel e altre materie sensibili.
  • Più la Russia soffre, più si schiaccia su Pechino, più dovrà concedere su quei dossier dove compete direttamente con la Repubblica Popolare – le crepe dell’asse sino-russo che i diretti interessati tengono a mantenere ben lontane dai riflettori. La penetrazione di cittadini cinesi in Siberia, il colonialismo economico di Pechino nella sfera di influenza ex-sovietica e a breve la competizione per i mercati di vendita di hardware militari, per dirne qualcuna.

E’ tutta esperienza…

Per tirare le somme la crisi scatenata da Vladimir Putin offre alla Cina tanti rischi e qualche opportunità. Soprattutto la costringe a dismettere le ambiguità sulla propria statura, le stesse che le hanno permesso di crescere in maniera tutto sommato pacifica negli ultimi 20 anni.

C’è anche un altro aspetto. Un domani il Dragone dovrà competere direttamente con gli Stati Uniti per l’egemonia globale. Oggi è carente nell’armamentario sotto tutti i punti di vista. Oltre ad armi, risorse e capitale tecnologico, la leadership cinese è soprattutto digiuna di esperienza. Specie se messa a confronto di quella americana, capace di mantenere il predominio globale attraverso un secolo di crisi, guerre e shock economici. Iniziare a navigare le acque del caos è presupposto fondamentale per farsi avversario credibile.

Quanto accade sul campo di battaglia mostra il terribile potenziale delle armi difensive a spalla operate da forze militari inferiori contro avversari corazzati. Dimostra la letalità di droni da pochi milioni di euro anche contro truppe regolari e che un missile anti-nave basta e avanza per affondare un incrociatore da 12mila tonnellate. Considerazioni (specie quest’ultima) che la dirigenza comunista terrà in considerazione, pensando ovviamente a Taiwan.

L’offensiva multi-livello che l’occidente ha scatenato contro la Federazione russa racconta a Pechino quanto pesa davvero l’ira della superpotenza – e di questo solo i prossimi tempi ci potranno dare contezza. Certo è che gli americani restano campioni di guerra asimmetrica, capaci ancora di scatenare quel “conflitto senza limiti” sognato dagli strateghi cinesi una ventina di anni fa.

Senza sparare un colpo gli Stati Uniti hanno mosso i satelliti europei perché subissero il colpo più duro dal conflitto senza tirarsene fuori, reso le forze di Kiev una potenza militare di tutto rispetto e rilanciato una retorica idealista nella discussione sulla politica internazionale. Forse il canto del cigno dell’impero morente, forse la pietra tombale sulle speculazioni che vogliono gli Stati Uniti sull’orlo del declino. In cinque anni al massimo sapremo dove sta la ragione.

E poter studiare le mosse del nemico senza che le conseguenze si riverberino sulla propria pelle, è un privilegio raro…

Francesco Dalmazio Casini

Archeologo redento, giornalista, appassionato di geopolitica. Nato a Roma e ritornato dopo una breve parentesi milanese per dirigere Aliseo. Mi piace raccontare i conflitti, le interazioni e il fattore umano degli attori internazionali. Ogni tanto faccio delle puntate nel campo dell’energia, della politica e della logistica. In altre parole mi piace spiegare cosa c’è dietro a quello che succede nel mondo. Una missione: portare la cultura dell’informazione approfondita (e lenta) in Italia.

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