La lotta contro il deficit commerciale degli Stati Uniti non è una novità della seconda presidenza di Donald Trump. Già con l’Ordine Esecutivo n. 13783 del 28 marzo 2017, durante il suo primo mandato, Trump aveva ordinato di identificare le cause del crescente deficit commerciale degli Stati Uniti, un fenomeno che da decenni caratterizza l’economia americana e che il tycoon considerava, e considera tuttora, una sfida esistenziale.
Trump accusava apertamente altri Paesi, in particolare la Cina, di adottare pratiche commerciali scorrette, applicare tariffe eccessive e imporre barriere protezionistiche. L’anno successivo, la sua amministrazione introdusse dazi per oltre 300 miliardi di dollari sui prodotti cinesi, colpendo soprattutto beni tecnologici e legati alla proprietà intellettuale.
In questo secondo mandato Trump sta inasprendo la sua strategia commerciale, con l’annuncio per il 2025 di un dazio universale del 10% su tutte le importazioni negli Stati Uniti e tariffe ancora più elevate per 57 partner commerciali. Tuttavia, il 9 aprile è stato annunciato un dietro front con la sospensione di 90 giorni dell’applicazione della maggior parte dei dazi con l’eccezione di quelli imposti alla Cina.
Pechino ha dovuto attendere fino alle interlocuzioni del 12 maggio a Ginevra per la sola riduzione dei dazi al 30%. A far cambiare registro negoziale alla Casa Bianca è stata la reazione dei mercati azionari, che tra crollo degli indici in tutto il mondo e forti vendite dei titoli di Stato americani (con conseguente aumento dei rendimenti), hanno spinto Trump a tornare sulla via delle trattative, anche con Pechino.
Successivamente, come viene riportato dalla U.S. Customs and Border Protection, anche molti prodotti elettronici, inclusi alcuni provenienti dalla Cina, sono stati temporaneamente esentati dai dazi. Tuttavia, se l’accordo sulla sospensione dei dazi tra Cina e Stati Uniti dovesse fallire, stando ai dati della Tax Foundation l’aliquota media sui prodotti importati salirà dal 2,5% attuale al 16,5%, il livello più alto dal 1937. La previsione è che le importazioni scenderanno di circa 800 miliardi di dollari, con un calo del 25% rispetto ai livelli attuali.
Dazi: tra slogan e realtà
Per Donald Trump e i suoi fedelissimi, Howard Lutnick (Segretario al Commercio) e Peter Navarro (Consigliere Economico), il deficit commerciale rappresenta il vulnus della globalizzazione, il male che affligge l’America. Questa visione mercantilistica interpreta ogni squilibrio della bilancia commerciale come una perdita netta di risparmio e di posti di lavoro per la nazione, soprattutto per il Midwest della Rust Belt deindustrializzata, a cui Trump deve la sua elezione.
Normalmente, entrambi gli squilibri – quello dei conti pubblici e della bilancia commerciale – richiederebbero, secondo la letteratura economica, l’attuazione di manovre fiscali restrittive che, riducendo il disavanzo interno, contribuirebbe anche a riequilibrare il saldo estero. In contrasto con la teoria economica, la Casa Bianca ha scelto di affrontare gli squilibri facendo ricadere i costi dell’aggiustamento sugli altri Paesi attraverso l’imposizione generalizzata di dazi, parte del costo verrebbe poi riversato sul consumatore americano, attraverso l’aumento generalizzato dei prezzi.
L’idea di poter reindustrializzare l’America e renderla un grande esportatore tramite l’imposizione di dazi si scontra con la realtà macroeconomica, che presenta non pochi vincoli e racconta una storia diversa. Lo squilibrio della bilancia commerciale americana è solo marginalmente imputabile alle presunte pratiche restrittive dei partner commerciali.
Il primo motore di questo disallineamento strutturale è costituito dal divario tra il risparmio nazionale degli Stati Uniti (la somma del risparmio privato e pubblico) e il volume degli investimenti interni. Sostanzialmente se l’economia americana investe sistematicamente più di quanto riesce a risparmiare, non può che importare capitali finanziari dall’estero. Questo fenomeno, noto nella letteratura economica come saving-investment gap, è la base del deficit commerciale.
Le origini di questo disequilibrio risalgono alla politica fiscale espansiva di Ronald Reagan durante gli anni Ottanta (presidente dal 1980 al 1988). La politica del presidente repubblicano, proveniente dal mondo del cinema, si concentrava sulla riduzione delle tasse, basandosi sulla teoria della curva di Laffer, senza apportare significative riduzioni alla spesa pubblica.
Questa politica economica stimolò il consumo e gli investimenti, ma ridusse il risparmio nazionale, alimentando così il disequilibrio tra importazioni ed esportazioni. Nel decennio successivo, le amministrazioni di George H. W. Bush e Bill Clinton riuscirono temporaneamente a ridurre il deficit commerciale aumentando il risparmio pubblico attraverso politiche fiscali più disciplinate. Tuttavia, la rapida espansione tecnologica spinse in alto gli investimenti, riportando ancora una volta il problema del deficit in primo piano.
Dal 2000 in poi, con George W. Bush prima e Barack Obama poi, i tagli fiscali e gli aumenti della spesa pubblica hanno nuovamente ridotto il risparmio nazionale, ampliando ulteriormente il disavanzo commerciale americano. Per risolvere questo problema, gli Stati Uniti devono aumentare strutturalmente il risparmio nazionale, riducendo i consumi o aumentando le tasse, oppure ridurre gli investimenti interni, compromettendo però la crescita economica con conseguenze negative su occupazione e redditi.
Dal punto di vista economico-contabile, la politica tariffaria “alla Trump” è resa inefficace dalla relazione contabile tra risparmio nazionale e investimento. Se non si dovesse trovare un accordo sui dazi e questi venissero realmente applicati, si aprirebbero scenari preoccupanti.
In un primo caso, le imprese americane potrebbero riportare le produzioni negli Stati Uniti come conseguenza dei dazi che rendono le importazioni più costose. Se gli altri Paesi non reagissero immediatamente, potrebbe esserci un iniziale miglioramento del saldo commerciale.
Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica, perché si avrebbe anche una sensibile crescita dei costi dei fattori produttivi per le imprese, un aumento dell’inflazione, un innalzamento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve per contrastare l’inflazione stessa, e quindi una probabile recessione economica. L’incubo della stagflazione (alta inflazione e stagnazione economica) sarebbe causato proprio dai dazi, una situazione estremamente complicata da gestire sia politicamente che economicamente.
Nel secondo caso si vedrebbe la risposta repentina dei partner commerciali dell’America, con l’imposizione di dazi ritorsivi. La diretta conseguenza di questa contromossa sarebbe la riduzione delle esportazioni americane, il peggioramento del deficit, e probabilmente anche una svalutazione reale del dollaro associata a una crescente incertezza sui mercati finanziari. Le conseguenze di questo scenario di guerra commerciale sarebbero a dir poco devastanti.
Al contestuale danno economico seguirebbe l’indebolimento della posizione americana. Gli altri Stati sarebbero spinti a cercare nuove alleanze commerciali e Pechino potrebbe sfruttare la situazione per affermare la propria centralità nell’economia mondiale, sfruttando l’incertezza generata dalla politica protezionistica americana per consolidare la propria influenza.
Un altro scenario vedrebbe le imprese americane non rientrare negli Stati Uniti come vorrebbe Trump; infatti, smantellare e ricostruire intere supply chains è un’operazione complessa e costosa. Pensiamo al settore tecnologico e all’iconico colosso californiano Apple: se decidesse di rendere la produzione completamente “a stelle e strisce”, sarebbe costretta a raddoppiare il prezzo dei propri dispositivi.
L’imposizione dei dazi potrebbe infatti avere un duplice effetto negativo per l’America: causare un aumento dei prezzi interni, penalizzando i consumatori americani, e non migliorare il saldo commerciale. A livello geoeconomico, la reazione degli altri Paesi sarebbe comunque ostile, isolando gli Stati Uniti, che finirebbero anche in recessione.
Il dollaro sopravviverà ai dazi?
Per concludere, il protezionismo promosso dall’amministrazione Trump, che cerca di utilizzare aggressivamente i dazi per correggere il deficit commerciale, pone gli Stati Uniti su una strada pericolosa. Per ottenere un miglioramento duraturo della bilancia commerciale, è necessario intervenire sulla politica fiscale e sui consumi. Questo approccio contrasta con la visione del “Make America Great Again”, che punta su consumi elevati, investimenti crescenti e un’economia vivace, rappresentando ancora una volta un’America che vive al di sopra delle proprie possibilità.
Il credo economico della Casa Bianca sotto la guida di Trump ignora anche un aspetto essenziale della strategia e della politica economica americana del dopoguerra: il deficit commerciale statunitense ha consentito di diffondere globalmente il dollaro, consolidandone il ruolo di valuta cardine nel commercio e nelle riserve mondiali. Questo fenomeno ha dato vita a quello che negli anni Sessanta il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing definì “esorbitante privilegio“, ossia l’insieme dei vantaggi di cui godono gli Stati Uniti poiché il dollaro statunitense è la moneta delle riserve internazionali.
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale la supremazia del dollaro non si è basata solo sul primato dei mercati sulla sovranità nazionale. La forza economica statunitense discende dalla credibilità istituzionale e dalla potenza militare. Tale assetto neo-imperiale ha permesso agli americani di sostenere deficit commerciali e pubblici crescenti, nella consapevolezza che tali disavanzi rappresentavano il prezzo necessario al fine di mantenere il dollaro come valuta di riserva mondiale.
Negli ultimi anni, l’incrollabile fiducia nella bandiera a stelle e strisce sta progressivamente venendo meno, alimentando il fenomeno della de-dollarizzazione. Questo processo, ancora ben lungi dall’essere completato, sta erodendo la forza del biglietto verde come valuta egemone. Questo fenomeno non è dovuto solo alle misure protezionistiche unilaterali degli Stati Uniti, ma anche alla volontà delle economie emergenti di rafforzare la propria indipendenza rispetto al sistema dollarocentrico.
La politica protezionistica alla “Hoover” e la retorica nazionalista di Trump stanno però dando seguito agli accordi di Mar-a-Lago, una riedizione degli accordi dell’Hotel Plaza del 1985, con l’obiettivo di svalutare il dollaro, rendendolo meno attrattivo nel tentativo di rilanciare le produzioni statunitensi. La recente fuga dal dollaro e dalle obbligazioni americane, innescata dalla politica ondivaga e aggressiva della Casa Bianca, ne è una dimostrazione. Il terremoto geoeconomico dei primi mesi del secondo mandato di Trump espone gli Stati Uniti a rischi notevoli, di cui l’inefficacia della politica commerciale è solo il più superficiale.
L’effetto Trump potrebbe determinare un profondo cambiamento degli equilibri mondiali, con la leadership economica globale che potrebbe passare ad altre potenze, prima tra tutte la Cina. La strategia tariffaria aggressiva di Trump rischia, dunque, di minare non solo gli obiettivi di breve termine della politica economica statunitense, ma anche il vantaggio strategico che ha consentito agli Stati Uniti di essere egemoni, accelerando il declino della centralità del dollaro e la frammentazione dell’attuale ordine economico mondiale.
Immagine in evidenza: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Trump_showing_a_chart_with_reciprocal_tariffs_%28cropped%29.jpg; immagini presenti nell’articolo: 1) https://it.wikipedia.org/wiki/Curva_di_Laffer#/media/File:Curva_di_Laffer.png