La complessità insita a certe questioni appare oggi troppo gravosa per lo sforzo che siamo abituati a sostenere. Non da meno, chi è chiamato per professione a districare la matassa defeziona l’onere del suo dovere, semplificando la realtà con delle formule apodittiche. Quasi che la complessità, per sfuggirgli, debba convincerlo che la sua è una battaglia persa in partenza, pur concedendogli di edulcorare il suo fallimento con una locuzione perentoria, che sembri tronfiamente spiegare l’incomprensibile.
Non sappiamo se chi si sforza in questo mestiere lo faccia per pura oziosità, per propaganda o per mesta convinzione. Tuttavia, è un danno per chi si affida alla penna dei giornalisti in primis. Pro bono, la complessità ha anche dei validi avversari, che se non l’annullano, almeno non la riducono a un convitato di pietra.
A proporre la tesi per cui sarebbe in atto una crociata lanciata dalle autocrazie contro le democrazie, di cui l’esempio lampante sarebbe l’attuale guerra d’Ucraina e le pretese di Pechino su Taipei, è gran parte della stampa italica, che sugella in questo modo la via semplicistica e riduzionista che ha scelto di seguire.
Entrare nella logica di uno scontro geopolitico, spiegandone i fondamentali attraverso la dialettica dei regimi istituzionali agli antipodi, incatena il pensiero a degli scogli ideologici, pregni di sovrastruttura, limitandone la capacità, o risparmiandogli la fatica, di scovare la struttura dei fenomeni.
Ignorare le specificità di ogni popolo, destinandoli tutti allo stesso fato in ragione di un comune regime istituzionale, come se non fosse il loro prodotto, ma quest’ultimo si emancipasse al di sopra degli esseri umani, eterodirigendoli verso il suo volere, cioè l’imposizione globale a scapito del suo modello opposto, è qualcosa di favolistico.
Non potremmo spiegare, affidandoci a questa tesi, perché l’India, la più grande democrazia al mondo, non abbia condannato la Russia in sede onusiana. Nemmeno perché di fronte alla più incisiva misura delle sanzioni altri paesi democratici si siano rifiutati di adottarle (India, Brasile, Argentina, Sudafrica, Serbia). Non potremmo spiegare la renitenza della Germania verso l’invio di armi e la posizione ambigua della Cina nei confronti dell’invasione russa – nei fatti non l’ha mai apertamente condannata o appoggiata. Non potremmo nemmeno spiegare le positive relazioni diplomatiche degli Stati Uniti con l’Arabia Saudita, oltre che l’appoggio a regimi diversamente democratici durante la guerra fredda.
Nei fatti, le autocrazie non hanno come naturali sfidanti le democrazie e viceversa. Tuttavia, può sembrare così quando si creano nel sistema internazionale degli schieramenti contrapposti, capeggiati da potenze rivali. La rivalità geopolitica tra queste potenze non richiede necessariamente opposte ideologie, e ideali agli antipodi non creano necessariamente rivalità geopolitiche. La storia è densa di esempi ma, lanciandoci in una locuzione ipotetica, potremmo dire che la guerra fredda ci sarebbe stata anche se la Russia fosse stata una democrazia.
È forse in questo senso che potremmo calare oggi la questione dello scontro lanciato dalle autocrazie contro le democrazie, tradotto nella transizione multipolare revisionista a guida cinese contro l’ordine liberale a guida statunitense. Tuttavia, non esistono degli schieramenti compatti e granitici, come la cronaca cerca invano di mostrarci quotidianamente.
Una comunanza di ideali può creare una certa convergenza su alcune questioni, ma, di certo, non è la variabile sulla quale si costruiscono amicizie e rivalità. La strategia che uno stato adotta per trionfare e sopravvivere spesso gli si impone, data la sua geografia innanzitutto. Al contrario, le idee alle quali si appella sono erratiche e frutto di una scelta, non sempre avulsa da tatticismi.
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