Stando all’ultimo rapporto dell’Istat, nell’anno 2022 l’inverno demografico ha toccato il punto più basso mai registrato dai tempi dell’Unità di Italia: meno di 400mila nati. Un bilancio compatibile per una nazione di 30 milioni di abitanti e non di 59 milioni.
Che gli italiani abbiano smesso di fare figli non è una notizia dell’ultima ora, questo trend prosegue dal 2008, anno in cui l’economia europea ha subito un grande tonfo. Da allora, sembra che la discesa non voglia arrestarsi, con la conseguenza che, secondo le previsioni, nel 2070 la popolazione italiana subirà una riduzione di 11 milioni di persone.
Al contempo, l’aspettativa di vita è aumentata, ed è cresciuto il numero degli anziani, così come la sproporzione tra il numero degli attivi e quello degli assegni previdenziali. Sempre l’Istat prevede che nel 2050 il rapporto tra lavoratori e pensionati sarà di uno a uno. Scenario preannunciato dagli attuali numeri: in 39 province su 107 il numero dei lavoratori è già inferiore a quello dei pensionati; addirittura in Calabria si registrano 67 occupati su 100 persone in previdenza.
L’assenza di un ricambio generazionale della popolazione lavorativa, il suo inevitabile ridimensionamento e l’invecchiamento della popolazione, sono fattori che incideranno sulla crescita economica del Paese. Tra vent’anni – spiega il professore Gian Carlo Blangiardo – sulla base degli attuali dati, rispetto al 2022 il Pil potrebbe calare del 18%.
Un danno che si traduce non soltanto in termini di sviluppo mancato, ma che si riflette nell’immediato sui conti dello Stato, perché meno lavoratori significa meno contribuenti. Una compressione delle risorse tale da rendere insostenibile l’attuale welfare.

Il preludio di un collasso
Milton Friedman diceva: «non esistono pasti gratis». Che si condivida o meno la sua filosofia liberista, dal punto di vista macroeconomico è chiaro che qualsiasi prestazione a carico dello Stato ha un costo per la collettività. Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2022 la spesa pubblica italiana ha raggiunto i 615 miliardi di euro. Il 48,4% di questi sono stati impiegati in pensioni e il 21,8% nella sanità.
Prestazioni che, insieme all’istruzione, all’indennità di disoccupazione e ad altri diritti, costituiscono una conquista dello Stato moderno. Tuttavia, la storia è mutevole, e ciò che ieri era un traguardo, oggi potrebbe rivelarsi un peso. Un peso economico che grava sulle spalle di una comunità lavorativa destinata ad assottigliarsi sempre più, costituendo un rischio per le finanze dello Stato italiano, che già possiede il quinto debito pubblico più alto del mondo.
La politica dovrà compiere delle scelte. Per arginare il rischio di default, le soluzioni più semplici e rapide sono il taglio delle spese e l’incremento delle tasse. Spesso il mondo politico ha preferito per la prima, nascosta tra i faldoni delle leggi di bilancio e passata inosservato dalla popolazione. L’aumento delle tasse avrebbe delle ripercussioni elettorali non indifferenti.
Ecco che dal 2010 al 2019 il Servizio Sanitario Nazionale ha perso, secondo il report dell’Osservatorio Gimbe, circa 37 miliardi di euro. Mentre l’istruzione pubblica ha subito un ridimensionamento di circa 8 mld di euro dal 2008 al 2020.
Tagli che hanno minato la qualità e la quantità dei servizi, centellinando le prestazioni e costringendo il cittadino a rivolgersi presso il privato. Nelle condizioni attuali il welfare italiano è già ingolfato, lontano dal coprire la reale domanda di servizi pubblici. Ad esempio, sul fronte sanità si calcola che l’Italia dovrebbe rimpinguare le risorse di almeno 50 miliardi e assumere circa 280mila operatori tra medici e infermieri per raggiungere un livello minimo di efficienza. Numeri destinati ad aumentare, considerato l’invecchiamento progressivo della popolazione.
Dinanzi a questo quadro, potrebbero non mancare poi soluzioni più creative, come l’innalzamento dell’età pensionabile – operazione compiuta da Macron in Francia – per quanto riguarda la previdenza sociale, oppure la ridistribuzione delle risorse già esistenti.
Quest’ultima soluzione sarebbe quella più disastrosa. Considerata l’affezione della politica al tema delle pensioni nelle ultime campagne elettorali, è verosimile che le vittime di questa scelta, e quindi di ulteriori tagli, siano i principali attori della crescita economica: istruzione, ricerca, inclusione sociale, cultura, sussidi familiari, agevolazioni fiscali, centri ricreativi. Ulteriore disincentivo per le giovani famiglie ad avere dei figli.
Lavoratori cercasi
Riepilogando: gli italiani non fanno figli, la popolazione attiva sta già crollando, le coperture finanziarie diminuiscono a fronte di un aumento delle spese pubbliche e la politica non riesce a fornire delle risposte strutturali adeguate. Eppure, se si vuole impedire che il sistema collassi, occorre cercare dei lavoratori. Che siano italiani o stranieri.
L’importazione della forza lavoro è per alcuni la risposta naturale al problema, non condivisa dall’intero panorama politico: «non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica – ha dichiarato in un intervento il ministro Lollobrigida – gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada».
A prescindere da quale sia la strada più idonea, di certo quelle intraprese hanno dato i risultati attuali, mettendo a rischio il welfare dei Millenials, della Generazione Z e giù di lì, ma anche dei futuri anziani.
Occorre pensare in maniera strategica, abbandonando l’idea che i famosi, e fumosi, bonus possano dare il giusto impulso economico per risolvere questioni che, per loro natura, necessitano di interventi strutturali.
Uno sguardo al Giappone
Anche il Paese del Sol Levante sembra destinato a un tramonto repentino. Nel 2022, il numero dei neonati è sceso sotto gli 800.000 per la prima volta da quando sono iniziate le indagini demografiche, il tasso di fertilità è del 1.3 e si prevede che entro il 2065 la popolazione crolli a 81,3 milioni di persone, contro gli attuali 125,7 milioni. Non solo, il governo nipponico ha stimatoche nel 2065, con l’attuale tasso di fertilità, gli ultrasessantacinquenni costituiranno il 40,4% della popolazione, con il rispettivo rischio, al pari dell’Italia, di rendere insostenibile il welfare corrente.
Per questo motivo, il governo giapponese da qualche anno sta correndo ai ripari, integrando le politiche familiari con ulteriori fondi e incentivi. Ad esempio, un sostegno economico di 1 milione di yen per ogni figlio a carico – circa 7.600 euro – a tutte quelle famiglie che decideranno di trasferirsi fuori dall’area metropolitana di Tokyo. O ancora, emblematico, è l’esperimento Nagi, un piccolo villaggio nella prefettura di Okayama, dove si sta realizzando un vero e proprio miracolo.
Nel giro di tre anni il tasso di fertilità è quasi raddoppiato, da 1,4 nel 2019 a 2,68 nel 2021, grazie a politiche familiaridavvero mirate ed efficienti: asilo nido del costo di due euro all’ora; materiale scolastico gratuito fino ai 15 anni e mensa scolastica sovvenzionata; tariffe agevolate per gli adolescenti delle scuole superiori che studiano fuori città; case in affitto a prezzi accessibili; assistenza sanitaria gratuita fino a 18 anni. Queste alcune delle misure messe in atto.

Nagi è la conferma, qualora ce ne fosse bisogno, che un serio programma di politiche strutturali può raddrizzare la curva demografica, fino a invertire la rotta e spingerla verso l’alto. Ciò probabilmente non basterà per salvaguardare il welfare delle democrazie occidentali nell’immediato, ma allo stato attuale, fra trent’anni, il suo collasso sarà più che una probabilità.