La vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito Democratico è stata salutata da tutti come una sorta di rivoluzione della politica italiana. Giudizio affrettato che forse non tiene conto di alcuni elementi: primo, l’estrazione sociale della giovane neosegretaria, perfettamente inserita nella classe dirigente occidentale; secondo, la candidatura della Schlein è stata appoggiata da diversi veterani del partito i quali, siamo sicuri, non si asterranno dal far sentire la propria influenza sulla direzione della “ditta”. Certo è che la giovane politica ha davanti a sé un compito difficile e irto di rischi. Quanto la sua nomina sarà di rottura rispetto al passato ce lo dirà il modo in cui affronterà questo cammino e le sfide che le si parano davanti. Vediamo quali.
Una questione di identità
La prima questione che Elly Schlein dovrà sciogliere è quella che riguarda la natura del proprio partito. Il PD nasce a vocazione maggioritaria, un fardello imposto dall’ambizione di portare il centrosinistra al governo del paese. Fardello perché la vocazione maggioritaria mal si concilia con la volontà di portare avanti battaglie in difesa delle minoranze, contraddizione in termini ma non solo, perché le minoranze, categoria vasta ed eterogenea, hanno interessi diversi che spesso appaiono difficilmente comprensibili alla maggioranza della popolazione. Di qui la continua tensione, all’interno del PD, tra queste due spinte, una che punta alla ricerca del compromesso per governare, l’altra che vi si oppone in direzione ostinata e contraria.
Dalla segreteria di Matteo Renzi, la vocazione maggioritaria ha sempre prevalso, conducendo il PD ad entrare nei vari esecutivi del Paese dal 2012 al 2022. Un decennio di stancanti compromessi, scissioni, fuoriuscite, alleanze forzate prima con il centrodestra poi con il M5s, continui mal di pancia, militanti esasperati e una costante perdita di consenso. Elly Schlein potrebbe cambiare tutto questo, spostando il PD su posizioni più di sinistra e meno dedite alla ricerca del compromesso. Un partito più di lotta che di governo per usare un’espressione abusata.
Dovrà però farlo cum grano salis per evitare di produrre fratture e deflagrazioni che potrebbero portare alla fine del partito stesso. Il PD è per nascita correntizio, coacervo di posizioni politiche, movimenti culturali, simpatie, interessi e modi di vedere il mondo diversi e variegati. Figlio delle due più importanti tradizioni politiche del Novecento italiano, quella cristiano-popolare e quella comunista, il partito di Walter Veltroni ha sempre fatto fatica a trovare una quadra definitiva, un amalgama compiuto, somma delle eredità dei propri genitori.
Senza contare che quei genitori erano entità complesse, non semplicemente bipolari ma dalle molteplici personalità, una “confederazione di anime” come sosterrebbe Pereira. Massimalisti, riformisti, dorotei, ala sinistra della DC, ala destra del PCI, tutti confluiti sotto un unico tetto, senza però mai dimenticare quanto era comoda la casa delle origini. Anche mentre bruciava. La Schlein dovrà fare i conti con questa miriade di sensibilità, consapevole che favorirne troppo una a scapito di un’altra rischia di far implodere l’intera compagine. Auguri.
La seconda sfida che la neosegretaria dovrà affrontare è vitale per un partito che vuole riaffermarsi come difensore degli oppressi e si può riassumere con un imperativo di movimento: uscire dalla ZTL. Negli ultimi dieci il PD è divenuto il partito dei centri cittadini, votato da una classe medio-alta di borghesi, colti e intellettuali, sensibili alle battaglie progressiste sui diritti civili. Anche nelle ultime elezioni, il PD si è affermato primo partito nei quartieri centrali di Roma, Torino e Milano registrando invece risultati sempre più mediocri a mano a mano che ci si sposta verso le periferie e verso i comuni più piccoli, come evidenzia l’analisi di Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore del 1° marzo.
Ma per compiere quella che si annuncia essere una faticosa marcia fuori dalle mura cittadine, occorre innanzitutto un cambio di linea politica. Accanto ai temi faro della sinistra degli ultimi anni (immigrazione e diritti civili), il PD dovrà tornare a occuparsi delle principali preoccupazioni degli italiani: lavoro, inflazione, economia. Non che ci si debba scordare del matrimonio egualitario o dello Ius Culturae o del fine vita, “battaglie di civiltà” che una forza progressista ha l’obbligo morale di portare avanti.
Quello che deve cambiare è però il focus, specie dal punto di vista comunicativo. Missione non facile, anche perché la già citata “confederazione di anime”, l’amalgama non riuscito di correnti che il PD ha ereditato dai propri genitori, mugugnerà e scalcerà a ogni tentativo di innovare la linea politica.
Il risultato che la Schlein dovrebbe provare ad ottenere è arrivare a un programma chiaro e coerente che unisca le rivendicazioni in tema di diritti civili con la salvaguardia dei diritti sociali di una sempre più vasta fascia di popolazione che non è garantita e vive ai margini della nostra opulenta società. In un meraviglioso film di Matthew Warchus, intitolato “Pride“, si racconta della singolare saldatura, avvenuta nel 1984, tra i sindacati operai in rivolta contro le politiche di Margaret Thatcher e il nascente movimento di difesa dei diritti di omosessuali, lesbiche e trans. Nel film risuona la canzone “Bread and Roses”, il pane e le rose, celebre slogan nato dallo sciopero proclamato dalle operaie delle fabbriche tessili di Lawrence, Massachusetts, nel 1912.
Lo slogan, ripreso da Marx, stava a significare che la ricerca di una società più equa e giusta, dove a tutti sia garantito il diritto ai bisogni primari (il pane), si può e si deve sposare anche con il diritto a qualcosa di più, ad un modello di vita che rispetti la necessità delle persone di sentirsi realizzate, liberi, felici (le rose). La sfida di Elly Schlein sarà proprio questa: far convivere le storiche battaglie sui diritti civili del mondo progressista con l’attenzione verso i bisogni degli ultimi.
Dall’Ucraina a Renzi: le trappole in agguato
Sfida improba anche perché all’orizzonte si assiepano trappole e ostacoli non di poco conto. Un esempio di trappola è la questione ucraina. La neosegretaria dovrà essere ben attenta a mantenere la postura filo-atlantista: guai ad ascoltare il richiamo di sirene populiste ammantate di pacifismo, provenienti dai rimasugli di un’epoca morta. Il sostegno all’Ucraina deve essere chiaro, la fedeltà alla Nato risoluta, la condanna del regime di Putin perentoria. Pena, l’impossibilità di governare.
Gli ostacoli che invece si parano davanti alla giovane Elly si manifestano nelle forma più concreta di Matteo Renzi, Carlo Calenda e Giuseppe Conte. Il PD si trova nella scomoda posizione di essere sotto pressione su più fronti. Dal centro la nuova segreteria viene indicata come estremista e non è un caso che Carlo Calenda e Matteo Renzi si siano affrettati a dichiarare di volere fondare un nuovo partito subito dopo la vittoria della Schlein, sperando di raccogliere i moderati che potrebbero soffrire le posizioni della nuova segretaria. A sinistra, il Partito Democratico dovrà fare i conti con il M5S decidendo sin da subito se un’eventuale alleanza con i grillini sia volta a costruire una coalizione stabile di centrosinistra o, auspicio felice, a fagocitare il movimento di Grillo riassorbendo e riportando a casa gli elettori perduti.
Infine, il compito più complesso, Elly Schlein dovrà assumersi l’onere di sfidare Giorgia Meloni e un centrodestra in continua ascesa. Nel farlo, la segretaria dovrà stare ben attenta a non cadere in un’altra trappola, quella della retorica dell’antifascismo. Giorgia Meloni in questi primi mesi di governo si è mossa con la cautela di una lince: nessuna dichiarazione fuori posto, un continuo e paziente lavorio per accreditarsi come affidabile interlocutore sui tavoli internazionali. Su tutti i temi più spinosi di politica interna ha mandato a schiantare alleati, ministri e scherani, cercando di non restare invischiata nelle polemiche. Difficile quindi che la retorica dell’estremismo di destra possa fare presa.
Ma in Giorgia Meloni, paradossalmente, Elly Schlein può vedere un modello. Anche la Meloni era accreditata come estremista ma ha fatto di questo la sua forza politica, trasformando la radicalità delle proprie idee in esempio di coerenza. Quando era all’opposizione del governo Draghi, la Meloni non ha esitato a votare i decreti di aiuti militari all’Ucraina proposti dal Governo, preferendo la chiarezza delle proprie idee ad un’opposizione preconcetta. La neosegretaria potrebbe fare la stessa cosa, imbastendo una linea politica dura e coerente senza però sfociare in polemiche pregiudizievoli che ne minerebbero la credibilità.
La vittoria di Elly Schlein non è una rivoluzione. Lo sarà se la neosegretaria saprà ben interpretare il compito per cui è stata eletta: far riemergere la vocazione sociale e di sinistra del PD senza però stravolgerne la natura. Alchimia complessa e pericolosa, il rischio di deflagrazione è alto. Indipendentemente da come la si pensa, ci si deve augurare che la giovane Elly riesca, così da poter tornare, in Italia, ad una contrapposizione politica sana, fondata sul confronto tra due idee chiare e distinte di società piuttosto che sull’accastellarsi di ombre e chiaroscuri che rendono di difficile comprensione l’agone politico e allontanano gli elettori dalle Istituzioni. E questa sì che sarebbe una rivoluzione.