“I nostri sforzi – sciagurati che siamo! –
i nostri sforzi valgano quelli dei Troiani.
Per un po’ ce la fai, per un po’ ti rinfranchi
E per un briciolo di ardire
Subito spuntano le belle speranze.
Ma c’è sempre qualcosa che ci blocca.
Proprio di fronte a noi, dal luogo trincerato
vien su Achille, con le sue grida ci spaventa. –
Valgono quelli dei Troiani
i nostri sforzi. Bravi e risoluti
c’illudiamo di rovesciare le sorti,
e stiamo fuori a lottare.
Ma nel momento più grave della crisi
bravura e decisione se ne vanno;
la volontà ne è scossa, anzi impedita
affanniamo tutt’intorno alle mura
cercando scampo con la fuga.
Noi corriamo alla nostra rovina, che è certa.
Là sulle mura, già incominciano i lamenti,
è il compianto dei ricordi e del fervore d’un tempo.
Per noi Ecuba e Priamo piangono amaramente.”
“C’illudiamo di rovesciare le sorti, | e stiamo fuori a lottare. | Ma nel momento più grave della crisi | bravura e decisione se ne vanno” così Constantinos Kavafis descrive l’agire umano. Un folle slancio proteso verso una vittoria che viene negata prima ancora che la battaglia infuri. Il poeta greco nella sua poesia prospetta una fine inesorabile, una lotta impari che rimarrà tale per tutto il suo svolgimento poiché il furore iniziale non è altro che un momento, una favilla e l’arrivo di Achille, l’invitto, fa venire meno il coraggio, la risoluzione, la volontà. Siamo sì uomini che combattono una battaglia impari contro il Fato avverso, come ben dipinge Kavafis, siamo sì piccoli uomini che, tentando di ergersi dinnanzi alle avversità come il prode Ettore, vanno incontro ad un futuro che li vede sconfitti ad origine, ma non per questo si piegano ad un destino che li vede inesorabilmente sconfitti sul campo, ma non per questo sconfitti nel cuore.
«Ma non fia per questo | che da codardo io cada: periremo, | ma glorïosi, e alle future genti| qualche bel fatto porterà il mio nome.»
Ettore per amore di un fine superiore si scaglia contro una morte certa e affronta il leone acheo conscio della propria inferiorità, ma rimanendo saldo nell’idea che il suo sacrificio non sarà vano, egli diverrà, come ritroveremo in Foscolo, il simbolo dell’amor patrio e del sacrificio dell’uomo che non si piega al Fato, ma va incontro ad esso con dignità e onore. Parafrasando il Sommo Poeta nei riguardi di Virgilio, Ettore mostra la via, si inoltra nelle tenebre e porta dietro di sé una scintilla che non illumina la sua di direzione, ma rischiara il retto cammino per i posteri.
La sconfitta può avere un valore in sé, qualora implichi un sottrarsi ad una vittoria considerata frutto di ladrocinio, una vittoria spregevole, una vittoria indegna. Jünger è profetico nel sentenziare: “non porta gloria| combattere al tuo fianco;| vale una disfatta| la tua vittoria”, per questo è necessario prendere le parti di chi, seppur conscio della propria disfatta, non si piega al Leviatano. Diviene essenziale portarsi avanti e come scrive Pavese non bisogna indietreggiare, non è d’uopo temere il destino, poiché “prima di essere schiuma saremo indomabili onde”. Non bisogna dunque, riprendendo Fausto Gianfranceschi, “mai […], farsi sconfiggere dentro”, bisogna restare impavidi, “in piedi tra le rovine”. La vita potrà porci innanzi le più innumerevoli battaglie, potrà abbatterci e abbandonarci in un angolo, ma pur posti lì, ai limiti di una vita che ci ha definito perdenti e sconfitti, si deve obiettare a tale fine la massima che Fernando Pessoa espone nel suo L’educazione dello stoico, “Mi confesso vinto dalla vita, tuttavia non mi confesso abbattuto da lei”.
La sconfitta può assurgere a valore, come si è declinato fino a questo momento, ma non per questo bisogna rassegnarsi a tale condizione, la vita ci offre d’altronde innumerevoli possibilità, innumerevoli avventure per tentare ancora e ancora una volta la sorte. Recuperando il De providentia, bisogna reputare tali sfide come un atto di amore e di rispetto da parte di Dio, il quale prova i migliori con le sfide più ardue. Facendo nostro il lascito del filosofo romano, dunque, si può guardare ogni tragedia con sguardo sereno, poiché come dichiara Don Fernando, attraverso la penna di Pessoa, “Pieno di Dio, non temo quel che verrà: | accada quel che accada, mai sarà | più grande della mia anima”. Questi devono essere gli occhi con i quali guardare al futuro, occhi fissi, sicuri, onesti. Si deve guardare al futuro con desiderio, con speranza, ci si deve immedesimare nell’Ulisse di Tennyson, il quale nonostante sia fiaccato e indebolito dal tempo e dalla vita, si proietta verso un’ennesima lotta, verso un’ennesima peripezia.
“Anche se molto è stato preso, molto aspetta; e anche se | noi non siamo ora quella forza che in giorni antichi | mosse terra e cieli, ciò che siamo, siamo; | un’eguale indole di eroici cuori, | indeboliti dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà | di combattere, cercare, trovare, e di non cedere.”
di Lorenzo Della Corte