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ELOGIO DELLA SOLITUDINE, “alla noia borghese si contrappone la solitudine del cavaliere”

“Tutta la mia vita è stata contesa fra la noia di vivere insieme e la paura di vivere solo.” – Indro Montanelli

Montanelli descrisse così la sua vita, dipingendo la propria anima non come un unicuum solido e monolitico, bensì come un’anima profondamente scissa e dilaniata dal rapporto conflittuale con le persone. La solitudine non è un bene per tutti, come recitò De André essa è un privilegio per pochi, poiché non possono permettersela i vecchi, non possono permettersela i malati e naturalmente non possono permettersela i politici. La solitudine è dunque una conquista, un viaggio che un uomo può intraprendere per ricercare dentro di sé delle verità che il clamore della folla non può concedergli, in quanto la massa si accontenta della superfice, del comprensibile, mentre è nel silenzio che si può andare oltre, si può scavare nel profondo della propria coscienza, si può entrare in contatto con una trascendenza che conduce a ciò che Padre Bruni chiama l’anelito alla vita buona. “Se non entri nella solitudine, nel silenzio, nell’interrogare il tuo desiderio, nel voler emergere alla luce di questo desiderio che è la vita buona, che è la nostalgia di infinito; si rischia di essere degli uomini costruiti dagli altri, alla fine infelici.” Allontanarsi dal clamore, dal brusio, per ascoltare, per interrogarsi, per giungere a risposte celate, risposte più intime, risposte che possano aiutarci a definire quel che realmente siamo, essendoci spogliati dai pregiudizi e dalle costruzioni sociali. Grazie a questa spoliazione, dunque, non lasciarsi più sopraffare dalla volontà omologatrice dei più. Kavafis ammonisce il proprio lettore a non sciupare la vita, ad allontanarsi dalle facili chiacchiere che avviliscono i temperamenti che necessitano di vette più alte e abissi più neri per definirsi e non si accontentano del vociare del mercato che detta la via del gregge.

“E se non puoi la vita che desideri | cerca almeno questo | per quanto sta in te: non sciuparla | nel troppo commercio con la gente | con troppe parole in un viavai frenetico.

” La via della solitudine è sentiero accidentato, è un sentiero che necessita “buone gambe e una resistenza fuori dal comune”, come scrisse Pasolini, è un sentiero per pochi che hanno la forza di sopportare il peso del sentirsi giudice e carnefice di se stessi, è la forza di chi riesce ad estraniarsi dalla massa e non viene toccato dal livore che il gregge getterà contro chi non riesce a comprendere. Il solitario è per la moltitudine uno specchio al contrario, dove essa vede quel che non è, vede ciò che potrebbe essere qualora indagasse se stessa, ma impaurita dalle risposte, essa non osa. La massa non perdona chi va oltre, chi oltre passa il comune recinto, e proprio questo Zarathustra spiega al solitario che ha scelto una via raminga e non il sentiero comune.

“Tu sei giunto loro vicino, ma sei passato oltre: non te lo perdoneranno mai. Sei passato oltre: ma quanto più tu sali in alto, tanto più piccolo l’occhio dell’invidia ti vede. Il trasvolatore è odiato più di tutti.” Il trasvolatore, come l’albatros baudelairiano, è deriso perché incompreso e quel che non comprende, la massa disprezza. Il vero nemico però non è la massa, la quale la si può lasciare alle spalle, l’unico vero nemico per il solitario è se stesso, sono i suoi demoni, che sono in agguato nelle caverne e nelle foreste più buie del proprio spirito. Ancora Zarathustra ordina al solitario di “essere pronto a bruciare nella tua stessa fiamma: come ti puoi rinnovare se prima non ritorni cenere?”, bisogna che egli sia pronto a rinnegare ogni credenza, ogni costrutto sociale quando si avventura nelle profondità dell’essere per giungere, una volta purificato, alla Verità. Jean Cau, opponendo alla “noia borghese, la solitudine del cavaliere”, scoprì come “nel mutismo prendeva posto una voce nuova che mi diceva forte quel che intendevo brusire confusamente da secoli. Non aver paura, e non essere colui che si volta per sapere se è seguito”, ma sii colui che si inoltra nella foresta e non teme il buio, ma ne è affascinato, non teme il silenzio, ma lo desidera, non teme la notte, perché ha compreso che l’ora più buia è il momento più prossimo all’alba.

“Mi piace la solitudine del cavaliere i cui passi allineati pesano sulla terra. Quest’uomo che avanza, solo, nel coagulato silenzio, mi piace: ha poche idee nella testa di pietra, l’assurdità di un coraggio incomprensibile per quelli che rabbrividiscono, chiudono la porta, accendono il lume quando la notte cade sulla foresta.” – Jean Cau

Lorenzo Della Corte

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