Il 18 giugno del 2023 si voterà in Turchia per eleggere il presidente e i 600 membri del Parlamento, cinque anni dopo l’ultimo successo elettorale per Recep Tayyp Erdoğan e il suo partito. Ma gli scenari, globali e domestici, sono radicalmente cambiati rispetto al 2018 e il risultato è tutt’altro che scontato alla luce delle grandi sfide che il paese ha dovuto affrontare nell’ultimo difficile anno.
Non sempre il “Sultano”, come viene criticamente soprannominato in Occidente il presidente Erdoğan, ne è uscito vincitore e, forse come mai prima d’ora, avverte il serio pericolo di perdere il potere, incalzato da una rinnovata opposizione. Tuttavia, Erdoğan ha dimostrato negli anni di essere un politico molto abile e ci sono diversi nodi su cui può puntare in campagna elettorale.
I successi diplomatici di Erdoğan
L’aspetto per cui la Turchia ha fatto maggiormente parlare di sé nell’ultimo anno sono stati i successi conseguiti dalla propria diplomazia nell’ambito della guerra in Ucraina. Da subito il presidente Erdoğan ha visto nella crisi ucraina un’opportunità unica per aumentare la propria influenza internazionale, sfruttando abilmente i suoi rapporti di relativa amicizia con Mosca e gli spazi vuoti lasciati dalla lacunosa azione estera europea.
Il risultato di questa operazione diplomatica è stata una vittoria su tutta la linea per il Sultano. Il suo abile equilibrismo gli ha permesso di diventare un membro centrale della Nato in quanto unico attore in grado di dialogare direttamente e pacificamente con Putin e i suoi uomini e al tempo stesso di sfruttare i suoi rapporti con Mosca per non subire pesanti ripercussioni economiche.
Soprattutto, Erdoğan è riuscito a convincere l’establishment russo a non tagliare drasticamente le forniture di gas al suo paese: in questo modo non solo ha scongiurato una crisi del gas potenzialmente fatale per un paese già alle prese con una complicata situazione economica, ma ha anche ottenuto un successo politico, che certamente gli ha dato respiro dal calo di consensi e lo aiuterà in campagna elettorale, specie se messo a confronto con il fallimento dell’Unione Europea sullo stesso fronte.
La questione dell’Egeo
La problematica dell’energia turca incrocia le sorti della vicina Grecia, con la quali i rapporti sono tesi da oltre un secolo e che nell’ultimo decennio sono entrati in una nuova fase conflittuale. Infatti, nel Mar Egeo, come in generale in tutto il Mediterraneo orientale, negli ultimi anni sono stati scoperti enormi giacimenti di gas naturale ai quali la Turchia è interessata per raggiungere una propria autonomia energetica, punto sul quale Erdoğan sta investendo molto, anche in sede di rielezione.
In questo contesto, Ankara sta finanziando spedizioni esplorative alla ricerca di nuovi depositi, affermando che tutte le acque solcate dalle navi turche appartengono alla propria piattaforma continentale, mentre Atene afferma che tali azioni coinvolgono acque territoriali greche e violano i trattati internazionali sulla base della Unclos (ovvero la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, non firmata dalla Turchia). Il risultato è una contesa senza soluzione che indebolisce la Nato (entrambi i paesi fanno parte del Patto Atlantico) e che periodicamente sfocia in nuove escalation militari e diplomatiche.
Le politiche di Erdoğan in Siria
Le questioni di politica estera nell’agenda del presidente toccano anche il teatro mediorientale e coinvolgono un altro paese in guerra che da ormai più di un decennio è una vera spina nel fianco per Ankara, ovvero la Siria. La problematica presenza delle milizie curde al confine tra i due paesi è tornata agli onori della cronaca dopo l’attacco terroristico dello scorso 13 novembre a Istanbul.
Dopo l’attacco il governo di Ankara, senza dilungarsi in eccessive indagini, ha da subito fatto ricadere la responsabilità dell’attacco sui separatisti curdi e ha colto l’occasione per iniziare una nuova offensiva aerea nel nord della Siria dove si rifugiano i militanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, cioè il Pkk. Di fatto, l’attacco ha riportato la questione curda nel dibattito interno sulla sicurezza ed Erdoğan ha intenzione di sfruttarla a proprio vantaggio, proponendosi come l’unico in grado di affrontare la minaccia terroristica, come già ha fatto in passato.
L’obiettivo di queste operazioni militari, iniziate nel 2016, è la creazione di una zona cuscinetto sotto il controllo diretto dell’esercito turco oltre il confine con la Siria, allo scopo di privare le milizie curde di importanti strutture logistiche e roccaforti militari. La questione ha anche implicazioni nella politica interna dal momento che tale zona cuscinetto servirebbe, secondo i piani del governo, anche per ricollocare gli oltre 3,6 milioni di profughi siriani presenti in Turchia, da sempre al centro degli strali delle frange più nazionaliste della popolazione di cui Erdoğan vuole assicurarsi la fiducia e il voto.
La crisi economica tira la volata all’opposizione
Se in politica estera Erdoğan sembra avere, da anni, idee chiare e i mezzi per realizzarle, lo stesso non si può dire del fronte interno che si presenta invece decisamente più accidentato, diviso tra problemi di carattere politico, con un’opposizione sempre più organizzata e determinata a porre fine all’era del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, e la tremenda crisi economica. Quella che era cominciata come una “normale” recessione dovuta alla crisi pandemica globale è degenerata in una crisi inflattiva come non si vedeva dagli anni ’90 e in una vertiginosa perdita di valore della lira turca, problematiche aggravate dalle discutibili politiche economiche messe in atto dal presidente.
A differenza dei paesi pienamente democratici, in Turchia la Banca Centrale non è un ente autonomo ma sottostà alle regole dettate dal governo centrale. Ciò significa che il presidente ha potuto imporre la propria visione economica senza intermediari, come dimostra il fatto che tra il 2019 e il 2021 Erdoğan ha licenziato ben tre governatori della Banca Centrale, colpevoli di non essersi voluti allineare alla sua linea di pensiero che prevedeva di abbassare i tassi d’interesse per stimolare l’economia e combattere l’inflazione.
Questa misura è stata aspramente criticata sia in patria sia all’estero, bollata come un suicidio economico dalla grande maggioranza degli economisti mondiali che sostengono che in caso di inflazione è necessario un aumento del tasso d’interesse per evitare che l’inflazione peggiori (non a caso la Banca Centrale Europea per combattere la crisi in corso sta seguendo questa linea).
Nei fatti tale manovra ha portato la lira turca a perdere circa il 60% del suo valore nei confronti nel dollaro nell’arco di due anni e ad un aumento vertiginoso dei prezzi. Nel corso del 2022 il presidente ha provato ad applicare diverse contromisure per attenuare la crisi: tra gli altri provvedimenti, ha aumentato il salario minimo mensile portandolo prima a 4.250 lire turche e infine, a luglio, a 5.500 lire (circa 276 euro), ha aumentato lo stipendio dei dipendenti statali del 42% e ha stanziato un fondo per aiutare più di cinque milioni di famiglie a pagare i loro debiti arretrati. Nonostante ciò, è rimasto fermo nelle sue convinzioni macroeconomiche e il quadro complessivo rimane critico.
La non convenzionale politica economica di Erdogan ha avuto come effetto principale quello di rafforzare un’opposizione che sembra star trovando una compattezza e uno slancio che non si vedevano da tempo. Ma sono già diversi anni che sono visibili i segni di una possibile inversione di rotta nella politica turca: a testimoniarlo c’è il fatto che i sindaci delle tre più importanti e ricche città del paese, Ankara, Izmir e Istanbul (che da sola rappresenta più del 30% del Pil totale del paese) appartengono tutti alle file del Partito Popolare Repubblicano, ovvero il partito di ispirazione laica e secolare fondato da Atatürk e oggi principale partito d’opposizione.
Alle elezioni di giugno la coalizione anti-Erdoğan dovrebbe essere composta da sei diversi partiti, ma ancora non è stato deciso chi sarà il candidato che concorrerà per la presidenza. Il Sultano, però, già teme alcuni nomi: Ekrem İmamoğlu, attuale sindaco di Istanbul, e Canan Kaftancıoğlu, presidente della sezione di Istanbul dello stesso partito di İmamoğlu, sono stati condannati nel corso del 2022 al carcere, con accuse ritenute perlopiù pretestuose dagli osservatori internazionali. İmamoğlu, a differenza di Kaftancıoğlu, ha ancora la possibilità di fare appello contro la condanna che, tra le altre cose, impedisce loro di partecipare a qualsiasi attività politica per tutta la durata della pena, escludendoli di fatto dalla corsa alla presidenza nel 2023.
La strategia di Erdoğan per la rielezione è chiara: fidelizzare la parte più nazionalista e conservatrice del suo elettorato ponendo l’attenzione sui suoi successi in politica estera. Allo stesso tempo, però, il Sultano è consapevole dei suoi fallimenti e si sente esposto agli attacchi dell’opposizione, come testimonia la malcelata repressione che sta attuando nei confronti di alcuni membri di spicco dei partiti rivali.
È opinione condivisibile dunque vedere le elezioni del 2023 come un vero e proprio turning point per il paese mediorientale: una vittoria del Partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdoğan potrebbe segnare la definitiva svolta autoritaria nel paese e la realizzazione completa dei piani per la sua teorizzata “Nuova Turchia“, mentre una eventuale vittoria della coalizione dei partiti di opposizione porterebbe una ventata democratica in un paese alla ricerca della propria identità politica.
Foto in evidenza: Kremlin.ru, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=40936968