L’UE vuole perseguire l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050, e lo vuole fare attraverso un imponente piano che prevede una transizione alle fonti rinnovabili che sia il più estesa possibile.
Green Deal, transizione ecologica, transizione verde. Queste sono solo alcuni dei titoli e delle espressioni usate per indicare lo sforzo collettivo (sia come stati che come individui) nella lotta al cambiamento climatico. L’IPCC nel suo ultimo report ha affermato che, alle attuali condizioni, l’unico obiettivo alla portata è quello di mantenere l’innalzamento della temperatura globale entro i due gradi.
Ma dunque cosa sarà necessario fare per perseguire questo obiettivo? Come le attuali tecnologie ci consentiranno di ridurre l’impatto antropico sul nostro pianeta? Come tradurremo, in particolare noi europei, le parole in fatti dando significato concreto a queste espressioni?
Green Deal
L’Unione Europea ha ufficialmente mosso il primo passo verso questo ambizioso traguardo nel 2019, in occasione della presentazione del Green Deal europeo dell’11 dicembre. Questo documento sancisce definitivamente l’intenzione di raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050: poco meno di trent’anni per non sentirsi più in colpa con madre natura (l’UE è responsabile di circa l’8% delle emissioni globali). Esso rappresenta “la tabella di marcia” che espone quali misure – leggi e investimenti – saranno necessarie per “garantire una transizione giusta e inclusiva”. Questo piano si pone all’interno della più ampia cornice del Next Generation EU, i cui fondi serviranno per rendere l’Europa più verde oltre che digitale e resiliente.
Leggendo le sezioni “L’energia e il Green Deal europeo” e “Realizzare il Green Deal” all’interno del sito dell’UE, le colonne portanti di questo piano (al netto dell’efficientamento energetico) sono le energie rinnovabili (eolico e fotovoltaico in primis), l’idrogeno come vettore di energia per i settori-chiave difficili da decarbonizzare o da elettrificare nel breve termine, ed il metano come fonte fossile meno impattante, da usare nella transizione prima di essere eliminato (F. Tiemmermans: “Per diventare il primo continente climaticamente neutro l’Unione europea deve tagliare tutti i gas a effetto serra. Il metano è il secondo combustibile a più potente effetto serra e una causa determinante dell’inquinamento atmosferico […]”).
Non si fa, dunque, minimamente parola di nucleare. Infatti, nonostante il Centro Comune di Ricerca (JRC – Joint Research Center) l’abbia considerata una fonte di energia sostenibile, pericolosa al pari o poco più delle fonti di energia rinnovabili. Da un certo punto di vista il Green Deal sembra la formalizzazione definitiva (e quindi legittimante) del sogno che hanno in molti: soddisfare il fabbisogno energetico (soprattutto elettrico) di oltre 446 milioni di persone grazie a pannelli fotovoltaici e pale eoliche.
Sembrerebbe però che l’Unione Europea non abbia fatto bene i conti sul reale apporto che eolico e solare possano dare per combattere il cambiamento climatico. Un’analisi dei dati sull’energia in Italia potrebbe offrire una base per riflettere sulla strategia europea, visto che il nostro paese rappresenta la terza economia europea e le sue esigenze potrebbero essere analoghe a quelle di paesi come la Francia, la Germania, e la Spagna con caratteristiche simili alle nostre.
Uno sguardo all’Italia
In Italia, secondo i dati forniti a maggio 2021 da Terna Driving Energy, il fabbisogno di energia elettrica in Italia è stato di 302,8TWh (-5,3% di Terawatt-ora rispetto al 2019). Questo è stato soddisfatto “per l’89% da produzione nazionale destinata al consumo 270,6 TWh, al netto dell’utilizzo per servizi ausiliari e dei pompaggi”. La restante quota del fabbisogno (11%) è stata coperta dalle importazioni nette dall’estero 32,2 TWh). La richiesta di energia sulla rete è stata soddisfatta per il 38% dalla produzione da fonti energetiche rinnovabili (idroelettrica rinnovabile, eolica, fotovoltaica, geotermica e biomasse) registrando un valore pari a 114 TWh (+1,0% rispetto all’anno precedente).

Il 38% sembra incoraggiante. Sembra dire che forse da qui al 2050 l’UE (che rappresenta l’8% delle emissioni globali) riuscirà ad affrancarsi dai combustibili fossili se l’Italia è riuscita a coprire questa percentuale di fabbisogno con le sole rinnovabili. Ci sono alcuni “ma” intrinseci alla tecnologia delle rinnovabili che potrebbero far vacillare l’entusiasmo dei più ottimisti.
Il green che fa tendenza
Se si analizza la composizione della domanda di elettricità in Italia, emergono i seguenti dati. L’industria è il settore più energivoro con 125 TWh (il 42,6% dei 302,8 totali), segue poi il settore dei servizi con 86 TWh (28,4%), con quello domestico che richiede ben 66TWh all’anno per funzionare (21,8%). Ultima l’agricoltura con 6TWh domandati (2%). Quindi si può dire che i 114 TWh di energia rinnovabile del 2020 (di cui 18,6 TWh eolica e 25 TWh fotovoltaica) riescono a coprire per intero il fabbisogno domestico e dell’agricoltura, più una quota residua dei servizi.
Non a caso, per quanto riguarda il fotovoltaico, il settore domestico e quello terziario totalizzano rispettivamente 3,7 TWh e 4,9 TWh prodotti (34,4%) sui 25 TWh di energia in Italia; e in termini di impianti installati raccolgono ben il 92% (756.799 e 100.965) dei 935.838 impianti sul territorio. Ovviamente gran parte della potenza generata dagli impianti fotovoltaici è riconducibile al settore industriale perché la potenza media dei suoi pannelli è maggiore di quella dei pannelli del settore domestico o terziario (tra i 3 KW e 20 KW), visto che, ad esempio, il fabbisogno energetico di una famiglia italiana media (tra due e tre persone) oscilla fra i 2.700KWh (kilowatt-ora) e i 3.300 KWh annui.
Leggendo i documenti dell’UE, i principali candidati sono proprio l’eolico ed il fotovoltaico, accompagnati dall’idrogeno verde per l’industria pesante e quei settori non immediatamente elettrificabili, ma come detto, le loro caratteristiche lasciano spazio a molti dubbi. In primis, queste due fonti sono aleatorie, ovvero sia che la loro produzione di energia dipende da fattori non controllabili dall’uomo. Se c’è vento le pale girano, se c’è sole i pannelli vengono irraggiati. Nel 2020 i pannelli in Italia hanno prodotto più energia rispetto al 2019 (al netto delle nuove installazioni) perché c’è stato più irraggiamento solare.
Quindi, una volta installati, gli operatori non possono fare nulla per incrementare la produzione di energia da questi impianti, se non sperare in più vento o più sole. In una centrale termoelettrica si decide quanto combustibile bruciare a seconda delle necessità. Non a caso in Germania, mentre dismettono le centrali nucleari, continuano a mantenere attive quelle a carbone (+40% carbone bruciato rispetto al 2019), la cui attività varia a seconda della quota di fabbisogno non coperta dalle rinnovabili, e a fine anno cominceranno a ricevere gas dal metanodotto Nord Stream 2 che parte dalla Russia (forse non è tutto oro ciò che è green).
Ma pannelli e pale eoliche quanto producono per unità di tempo? Bella domanda. Per rispondere bisogna richiamare il concetto di capacity factor, ovvero il rapporto percentuale tra la potenza effettiva di una fonte energetica e la sua potenza nominale, o in altre parole, la quantità di energia effettivamente prodotta rispetto a quella massima che la fonte può potenzialmente produrre (massimo ideale ovviamente). Ad esempio, un pannello solare in silicio policristallino fornisce una potenza di 0.2 kilowatt (kW) per metro quadro. Una pala eolica può normalmente erogare una potenza massima di 6000 kW (6 MW).

Se si considera questo indice per i pannelli solari, i fattori che lo influenzano sono molteplici. Perché l’irraggiamento solare dipende dalla stagione, e quindi dalle ore di luce disponibili e dalla nuvolosità, e dagli orari, dato che l’efficienza aumenta man mano che l’angolo di incidenza dei raggi si approssima 90°, il che è possibile praticamente solo nelle ore centrali della giornata. Va da sé che la maggior potenza (quantità di energia prodotta) si avrà nelle ore centrali dei mesi estivi. Da questo deriva che il capacity factor medio per un pannello di un metro quadro è del 18% (ovviamente in alcune zone si arriva anche al 25%).
Stesso ragionamento è applicabile per il capacity factor delle pale eoliche che oggi in Italia producono 19 TWh, in cui l’unica incertezza riguarda la presenza o meno di vento. Il capacity factor medio di una pala è circa il 30%, con valori leggermente superiori nelle zone più ventose e negli impianti off-shore. Il capacity factor di una centrale nucleare oscilla fra il 90% e 96%.

Ora, considerando che per produrre 13,4 TWh di energia come un reattore da 1,6 GW (Gigawatt) di potenza nominale sono necessari ben 40 chilometri quadrati (quaranta chilometri!) di pannelli solari o 750 pale eoliche dati i loro capacity factors, quanti chilometri quadrati di pannelli e quante pale sarebbero necessari per passare dagli attuali 114 TWh ai 158 TWh (domestico, terziario e agricolo)? Esattamente, molti. E stiamo escludendo l’industria per cui l’elettrificazione è auspicata laddove possibile. Non scordiamo che il fabbisogno di elettricità è destinato a crescere sia in Italia che in Europa vista l’intenzione delle istituzioni UE di incentivare l’utilizzo di macchine elettriche. State per caso pensando “ancora di più di molti”? Esattamente.
Ma ammesso che la produzione delle due rinnovabili aumenti di 44TWh e copra nominalmente la domanda di energia di 158 TWh, e che si passi a 47 TWh di fotovoltacio e a 41TWh di eolico, come si riesce a gestire la variabilità della produzione (aleatorietà)? O piu semplicemente: quando a luglio c’è molto sole ma poco vento, come si fa a compensare la quota di eolico che manca perché le pale girano poco? Bella domanda anche questa. Qui subentra il discorso di stoccare il surplus di energia ottenuto, per quei giorni in cui o il sole o il vento scarseggeranno.
L’oggetto grazie al quale si riesce a stoccare l’energia per i periodi di “magra” si chiama accumulatore; questo non è altro che una batteria. Bene, in Italia al 31 marzo 2021 risultano installati in Italia 43.784 sistemi di accumulo abbinati agli impianti fotovoltaici, con una capacità massima utilizzata pari a 333MWh, cui vanno aggiunti gli impianti di Terna per una capacità di 250 MWh, che permettono di arrivare a 583 MWh. Ammesso che gli accumulatori dell’eolico siano altrettanti, quanti altri ce ne vorranno per far sì che nel caldo mese di luglio i 3,5TWh eolici mensili (41 diviso 12) non vengano a mancare nonostante la scarsità di vento? Considerando che 1 TWh è uguale 1.000.000 MWh (1 milione), arrivare da 1.166 MWh ad almeno 3,5 TWh non è una passeggiata. Stessa domanda si può porre per dicembre in cui la situazione è capovolta. Ora starete pensando “credevo che il problema fosse solo montare più pale e pannelli”. No, c’è anche questo.
Un nucleo di realismo
Il nucleare. L’elefante nella stanza. La parola che evoca gli incubi di Chernobyl e Fukushima. Un’ottima soluzione che in Europa ci rifiutiamo di considerare. Non a caso è ancora viva la discussione sul suo inserimento nella tassonomia green (fondamentale per orientare gli investimenti dei privati) che vede la Francia come sostenitrice dall’alto della minore intensità al mondo di CO2 proprio grazie all’energia atomica.
Lo scetticismo sul nucleare è legato principalmente a tre fattori: timore per un disastro, gestione delle scorie e investimenti iniziali.
I disastri (gonfiati)
Per quanto riguarda i disastri, la paura feroce è stata alimentata dall’ignoranza sul funzionamento di una centrale, che induce ad assimilarne la pericolosità a quella di un ordigno atomico, e poi, soprattutto, dalla spettacolarizzazione di media e associazioni ambientaliste sia delle conseguenze di Chenrobyl in termini di vittime che di quello che stava accadendo in Giappone durante gli eventi che coinvolsero l’impianto Fukushima dai-ichi. La stampa italiana fu catalogata dai giapponesi stessi come la peggiore per le menzogne che raccontava ai cittadini.
L’evento di Chernobyl è stato ripetutamente sviscerato dimostrando che quanto accaduto è stato il risultato di una combinazione sconvolgente di insipienza degli operatori e di difetti strutturali nascosti o quantomeno ignorati. Chi rifiuta ancora oggi di riconoscere questi due elementi non può che essere in malafede. Per chi non volesse leggere documenti in merito esiste persino una serie tv che, a parte qualche imprecisione, mostra inequivocabilmente la colpevolezza degli operatori e del regime comunista.
Per Fukushima il discorso è diverso. Esclusa l’ipotesi incompetenza grazie alla credibilità dei giapponesi, si sono comunque confuse di nuovo le cause. Anche qui si è cominciato a dare la colpa al nucleare, quando in realtà gli undici impianti nazionali si sono spenti automaticamente senza alcun rischio durante il terremoto. È stata un’onda anomala di tredici metri (il muro di contenimento dell’impianto era di ben nove) ad innescare tutti i problemi al sistema di raffreddamento sul quale non si è potuto intervenire tempestivamente per la devastazione provocata dal terremoto. Il più potente mai misurato in Giappone, accompagnato dal secondo maremoto più catastrofico della storia dell’umanità dopo quello del 2004. Anche per Fukushima esistono documentari e film per chi non vuole annoiarsi con documenti.
Le vittime accertate di Chernobyl oscillano fra 49 e 65 (54 per l’ONU). Per le 600.000 persone che ricevettero una dose superiore ai 100 mSv (limite iniziale di rischio), il report del Chernobyl Forum del 2003 ipotizza un totale di 4000 tumori letali riconducibili all’incidente in un arco di settanta anni. Tuttavia, lo stesso report, aggiornato nel 2006, specifica che al momento non vi sono evidenze di questo incremento, raccomandando di mantenere i soggetti sotto osservazione. Rispetto alla nube radioattiva, questa ha prodotto effetti misurabili sulla salute della popolazione solo in alcune zone di Russia, Bielorussia e Ucraina.
Ulteriori studi dell’UNSCEAR, di numerose università europee e della Chernobyl Tissue Bank (progetto OMS) hanno confermato che in tali popolazioni si è misurato un significativo aumento dell’incidenza del tumore alla tiroide, in particolare nella fascia entrata in contatto con lo Iodio-131 in giovane età (quindi tra 0 e 10 anni al momento dell’incidente). I dati più recenti parlano di 6000 casi, e ipotizzano un possibile aumento fino a 16.000 nei prossimi decenni. Dal momento che il tumore alla tiroide è altamente trattabile (96-99% tasso di sopravvivenza), il numero di morti riconducibili all’incidente è dell’ordine di alcune centinaia.
Per le vittime e coloro che sono stati toccati dagli eventi di Fukushima, delle 170.000 persone evacuate, il numero di contaminati con potenziali conseguenze cliniche è stato di nove. Nessuno di essi ha manifestato problemi di salute. La morte dei due operai è direttamente riconducibile al terremoto e allo tsunami. Lo studio sugli effetti del “disastro”, effettuato da OMS e UNSCEAR nel 2013 (due organi ONU), circa i morti da radiazioni e i possibili danni alle generazioni future afferma quanto segue:
“Non sono stati osservati casi di morti o di malattie indotte dalle radiazioni, né tra i lavoratori della centrale né tra i cittadini esposti alle conseguenze dell’incidente. […]. Non ci aspetta nessun tipo di aumento dell’incidenza di effetti sulla salute dovuti alle radiazioni sui cittadini esposti alla contaminazione o sui loro discendenti. Le conseguenze maggiori si sono avute dal punto di vista psicologico e sociale“.
Il tempo è denaro
Il tema degli investimenti iniziali e dei lunghi tempi di costruzione non è uno di quelli che risvegliano il terrore dell’estinzione ma preoccupano di più i governanti per le ricadute politiche di una scelta a favore del nucleare.
La costruzione di un reattore ha un costo base tra i cinque e i sette miliardi, che può aumentare in caso di ritardo nei lavori o di sabbie mobili burocratiche dovute agli enti regolatori. Le aziende costruttrici di reattori non hanno capitali propri per tale spesa, quindi si ricorre a soldi pubblici qualora lo stato commissioni la costruzione oppure a prestiti privati la cui garanzia è la promessa dello stato di comprare l’energia ad impianto in funzione.
Ma quali sono gli elementi che possono aumentare il tasso di interesse chiesto dagli investitori? Nonostante questi non abbiano dubbi sulla sicurezza tecnologica del nucleare, ciò che temono è l’instabilità politica che potrebbe bloccare un progetto già avviato mentre si passa da un governo all’altro. E infatti il costo del capitale incide per almeno il 60% sul prezzo finale dell’elettricità.
Il prezzo del combustibile non è un problema. Questo incide per circa il 5% sul prezzo finale dell’energia, includendo tutta la filiera dall’estrazione alla fissione. Il prezzo della materia prima in sé incide solo del 2,5% ed è in grado di produrre decine di migliaia di volte più energia di gas, petrolio o carbone a parità di quantità. Infatti, 1 gr di Uranio è in grado di produrre un quantitativo di energia pari a quello ricavabile dalla combustione di 2800 kg di carbone

Se tutto ciò che riguarda il costo una centrale nucleare viene paragonato a quello di una termoelettrica, vedremo che quest’ultima pone vantaggi solo nel breve periodo. Costruire una centrale a carbone richiede molti meno costi iniziali è soggetto a controlli meno stringenti. Mentre una nucleare richiede massicci investimenti iniziali che una volta ripagati, dopo venti/trent’anni, offrono una convenienza notevolmente superiore nel lungo periodo considerando il basso costo del combustibile e che le licenze di operatività hanno durata minima di sessant’anni, prolungabile fino ad ottanta.
Il confronto dei costi rispetto alle rinnovabili lascia il tempo che trova. L’elettricità da fonti rinnovabili, data la sua aleatorietà non sempre è presente sul mercato, e proprio per questo, quando è disponibile viene venduta per prima. Ad un prezzo drogato dagli enormi sussidi statali che vengono caricati nella bolletta degli utenti finali. In Italia i costi vengono scaricati tra gli oneri di sistema della bolletta elettrica (voce A3).

Non a caso, come mostra l’immagine, il prezzo medio dell’energia nucleare passa dalla maggior alla minor convenienza unicamente a causa del tasso di interesse
La questione dei tempi è dovuta principalmente alla severità degli enti regolatori, soprattutto quelli europei che vanno ben oltre le stringenti normative internazionali, e alla nascitadi comitati che si oppongono alla costruzione che vanno rassicuratirispetto alla sicurezza dell’impianto.
In Europa, per esempio, le specifiche di ogni nuovo reattore prodotto vanno testate per intero in ogni fase della costruzione, e quindi capita che degli aspetti richiedano correzioni. Il record per il reattore costruito più velocemente lo detiene il Giappone, quando negli anni ’80 costruì l’unità 1 dell’impianto di Onigawa (nessun problema nel 2011) in soli quattro anni. Stessa cosa accadde per l’unità 2.
Ma la tecnologia sta offrendo una valida alternativa ai mastodontici reattori a cui tutti pensano. L’alternativa si chiama SMR (Small Modular Reactor). Reattori con potenza variabile, molto meno voluminosi, realizzabili in fabbrica e posizionabili dove si vuole. La produzione su scala industriale ridurrebbe drasticamente i costi e la loro versatilità permetterebbe di collocarli anche in paesi dove la popolazione è molto dispersa, eliminando la necessita di ampliare l’infrastruttura per la diffusione dai grandi impianti solitamente posizionati vicino ai grandi centri energivori.
Le temute scorie millenarie
Quello delle scorie è un argomento anomalo, ma forse è anche più il importante, perché molti pensano che i rifiuti radioattivi vengano prodotti solo dalle centrali nucleari, ma così non è. Le centrali producono scorie a media e alta attività, mentre quelle a bassa e media derivano anche da altre industrie, fra cui quella medica. I rifiuti ad alta attività sono quelli che richiedono di essere raffreddati vista la loro elevata radioattività (i decadimenti radioattivi generano calore).
La loro quantità è persino ridotta. Infatti, nel 2014 l’Agenzia Internazionale Energia Atomica stimava la quantità di scorie prodotte globalmente in 60 anni ammontasse a 370.000 tonnellate, oltre centomila (100.000!) volte in meno della CO2 immessa ogni anno in atmosfera (cinquanta miliardi di tonnellate).
Le “scorie nucleari” sono costituite soprattutto dal combustibile esausto dei reattori che contiene il 99% della radioattività di tutti gli scarti prodotti dall’industria nucleare. È importante premettere che tanto più un elemento ha un’emissività radioattiva elevata (maggiore quantità di radiazioni emesse nell’unità di tempo) quanto più decade velocemente verso forme stabili e quindi non dannose. Solo nell’intervallo di alta emissività prima di diventarestabile che l’elemento è pericoloso. Quelli che emettono molto a lungo sono quelli meno radioattivi e dunque già dall’inizio meno pericolosi. Fra questi troviamo l’uranio e il plutonio il cui decadimento dura migliaia di anni.
Della radioattività una barra stoccata bisogna preoccuparsi per i primi cento anni circa, durante i quali ci sono elementi altamente radioattivi. Man mano che passa il tempo quella pericolosità diminuisce perché questi decadono in forme stabili, rimanendo solo quelli “millenari” che sono i meno pericolosi. L’uranio emette radiazioni alfa che possono essere schermate dalla pelle. Il problema sono l’ingestione o l’inalazione, quindi ciò che si deve evitare è la contaminazione delle falde acquifere per esempio.
Lo stoccaggio è l’unico destino a cui la gente pensa quando si parla di scorie, ma questo non è l’unica soluzione. Ne esiste un altro probabilmente più eco-friendly di un pannello: il riprocessamento. Ovvero riutilizzare alcuni parti delle barre di combustibile esausto per farci del nuovo combustibile.
Quando una barra entra in un reattore è costituita dal 5% di Uranio 235 (materiale fissile: il bersaglio dei neutroni per generare energia) e 95% di Uranio 238. Quando la quantità di atomi U. 235 non è più sufficiente a garantire un tasso di reazione stabile, allora la barra si considera esausta. La barra estratta avrà una diversa composizione: 1,5% Uranio 235 + Uranio 236; 92% Uranio 238; 1,5% Plutonio 239 + Plutonio 240 (fissili) risultato dei neutroni che colpiscono l’U. 238; 5% prodotti di fissione (altri elementi derivanti dalla rottura degli atomi di U. 235). Riprocessamento vuol dire recuperare l’1,5% di Plutonio per ottenere nuovo combustibile mescolandolo all’Uranio 238 per ottenere il MOX (Mixed Oxids Fuel).
Recuperare l’1,5% di Plutonio vuol dire recuperare tra il 12% e il 20% dell’energia di una barra di combustibile nuova di zecca. Ciò significherebbe minore necessità di Uranio nuovo e minore quantità di scorie nelle stesse percentuali (come per l’U.235 non è possibile rompere tutti gli atomi del Plutonio).
La domanda che ora potrebbe sorgere è: sarebbe possibile generare più Plutonio a partire dalla prima barra (7% invece di 1,5%) e nei i riprocessamenti successivi in modo da riutilizzarla finché non finisce l’U. 238?
La risposta è sì. Non è fantascienza. I reattori che permettono tale riciclo si chiamano FRB (Fast Breeding Reactors). In questi reattori i neutroni possono andare più veloci, e grazie a questa velocità rompere più atomi di U. 238 per generare quelli di Plutonio. La maggior velocità si raggiunge grazie a un liquido di raffreddamento diverso dall’acqua che non ne rallenti il movimento.
Questi reattori permetterebbero di sfruttare quasi il 100% di una barra di uranio. Perché nei riprocessamenti consecutivi si andarebbe ad usare tutto l’uranio 238 che attualmente viene stoccato e che ha i temuti tempi di decadimento millenari. E non solo. Questi reattori potrebbero essere alimentati con tutte le scorie che sono stoccate fino ad oggi in tutto il mondo. Si avrebbero solamente i prodotti di fissione, che sono sì i più pericolosi, ma sono anche quelli che hanno tempi di dimezzamento minori (il Cesio 137 perde di pericolositàdopo soli trent’anni).
Dopo anni in cui questa tecnologia è stata accantonata perché meno conveniente dello stoccaggio le scorie, la Russia ha riprocessato per la prima volta del combustibile esausto all’inizio del 2020 nella centrale di Beloyarsk. Esistono tre filoni di ricerca principali su reattori con liquidi di raffreddamento diversi dall’acqua: raffreddamento tramite metalli liquidi, sali fusi o gas.
Morale della favola
Analizzandolo superficialmente, il piano dell’UE sembra più un percorso di espiazione che una strategia razionale per trovare il giusto compromesso fra ciò di cui abbiamo bisogno e ciò che possiamo con la tecnologia odierna. Informandosi un po’ più approfonditamente non c’è più alcun dubbio.
La discussione sull’inserimento del nucleare nella tassonomia green è surreale. Come lo è la pretesa di rifiutare l’uso di idrogeno blu che favorirebbe lo sviluppo dell’intero settore. Va inoltre ricordato che oltre a non emettere più gas serra bisognerà anche catturare ciò che già c’è in atmosfera , e che gli alberi non bastano ma sono necessari degli impianti per fare ciò che sono altamente energivori (Carbon Capture and Storage) . Questi si andrebbero ad aggiungere all’attuale carico di potenza richiesto che è destinato ad aumentare vista anche l’intenzione di promuovere la vendita di auto elettriche.
Rifiutare a priori il nucleare non si può considerare solo miopia, ma cecità politica. Ignorare una tecnologia che rappresenta il più valido alleato delle rinnovabili, ad esso complementari, è a dir poco sconsiderato. Nel tentativo di placare gli istinti millenaristi delle persone e adeguarsi ad un’opinione pubblica terrorizzata, si è pensato un piano à-la-Greta Thundberg che rischia di avere gravi ripercussioni economiche sia sui produttori che sui consumatori. Le compagnie aeree rischiano di vedere imposta una nuova tassa sul carburante prevista nel Green Deal. Ma l’UE promette sussidi ai settori colpiti (fa un po’ ridere).
Adottare una tecnologia che per un paese come la Francia produce 11grammi pro-capite di scorie di alto livello (le “millenarie” che si possono riciclare) su 100 chilogrammi di rifiuti speciali è l’unica vera scelta ecologica che si possa adottare. Pensare di raggiungere la neutralità climatica con pannelli, pale ed idrogeno è pura illusione.
di Enrico Ceci
Immagine in evidenza: “France’s Nuclear Energy” by Gretchen Mahan is licensed under CC BY 2.0