Il regolamento europeo 2024/1252, adottato dal Consiglio a marzo 2024, impone la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e la creazione di catene di valore più resilienti per l’accesso ai minerali “critici” essenziali per la transizione energetica.
I golpe antioccidentali nel Sahel, la competizione con Pechino e le scarse prospettive di sviluppo sostenibile rendono particolarmente complessa l’inclusione del continente africano, lasciando due margini residuali di manovra: il partenariato con i Paesi del sud-est asiatico e l’esplorazione degli abissi oceanici.
L’Europa guarda all’India per salvare le sue supply chain
La costruzione di nuove supply chain passanti per gli Stati membri dell’Asean, le cui riserve di rame, stagno e nickel (1,6 milioni di tonnellate estratte in Indonesia al 2022) attenuerebbero la “fame” mineraria europea, si ricollega alla strategia Ue per l’Indo-Pacifico elaborata dal 2021.
Inoltre, l’assenza di una sensibilità antioccidentale e l’incombente vicinanza geografica della Cina rendono, per quei Paesi, la collaborazione con l’Europa un’esigenza politica, di cui l’Asean/South-East Asia Green Tei rappresenta un primo successo.
Certo, rimarrebbe l’incognita di Pechino, che ha già tentato di inserirsi negli accordi tra Stati Uniti e Vietnam domandando la lavorazione sul suolo cinese di quei 22 milioni di tonnellate di terre rare presenti nel Paese.
Per questa ragione, l’opzione innovativa del deep sea mining, ossia dell’estrazione di minerali dai fondali oceanici, acquisisce valore nel quadro della crescente richiesta europea di autonomia dalla Cina. La cooperazione euro-indiana e il corridoio Imec assumono un valore centrale in tal senso.
Secondo le rilevazioni dell’Isa (International Seabased Authority) noduli polimetallici, manganese e cobalto abbondano nei fondali del Pacifico. Tuttavia, la pluralità di attori geopolitici assertivi e la distanza geografica dall’Europa, suggeriscono un’esplorazione limitata ai settori dell’Oceano Indiano, dove le operazioni di sicurezza marittima a guida europea, come Eunavfor Atalanta, hanno già creato una cornice condivisa con i Paesi locali.
Significativa appare la collaborazione dell’India alla missione, che ha oltretutto firmato un accordo con l’Italia nel 2023 per l’acquisto di tecnologie di difesa.
Una condivisione d’intenti che si ravvisa anche nel dominio subacqueo, dove l’India ha richiesto all’Isa due mandati esplorativi proprio nell’Oceano Indiano, nonostante lo scarso potenziale tecnologico del Paese. Sono rilevanti punti di convergenza con la strategia europea e denotano la possibilità di inserimento in un framework condiviso più esteso, impiegando gli strumenti cooperativi attualmente a disposizione.
A partire dall’aggiornamento del 2015 dell’Indian Maritime Security Strategy, l’India ha rafforzato la propria dimensione navale imponendosi, al pari dell’Europa, un maritime security provider di livello globale. La regione dell’Oceano Indiano viene definita area di interesse primario, le cui vie di accesso (Stretti di Aden, Hormuz e Malacca) assumono lo stesso valore strategico di Gibilterra e Suez per l’Europa mediterranea.
Inoltre, gli Stretti di Aden e Hormuz costituiscono snodi fondamentali del Mediterraneo Allargato, che si estende dal Corno d’Africa al Golfo di Guinea, a conferma dell’interconnessione tra i due bacini.
Questo contribuisce a spiegare la partecipazione indiana alle missioni europee di sicurezza marittima, ma denota anche un’esigenza condivisa con l’Ue: lo sviluppo di tecnologie di sorveglianza ed esplorazione, anche nel dominio subacqueo, allo scopo di tutelare gli snodi strategici tra l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo.
In tal senso, lo scambio tecnologico con l’Europa non è venuto a mancare. Nell’ambito del Project 75l, la Mazagon Dock Limited (Mdl), di proprietà del governo indiano, ha recentemente ottenuto l’approvazione della Marina Militare per la costruzione di sei sottomarini avanzati in collaborazione con l’azienda tedesca ThyssenKrupp Marine Systems e la spagnola Navantia.
In ambito civile, il progetto Hydron-R, realizzato dall’italiana Saipem, ha portato alla costruzione di droni subacquei in grado di effettuare interventi di riparazione, monitoraggio ed ispezione dei fondali marini. Una tecnologia utile a colmare il gap tecnologico indiano nell’esplorazione mineraria degli abissi e potenzialmente base per un partenariato euro-indiano fondato sullo scambio tecnologia-materie prime.
Il ruolo chiave del corridoio Imec
Volgendo lo sguardo a sud-est, l’India-Middle-East-Corridor, un canale che parte da Mumbai e termina nel Pireo passando per la Penisola arabica, rappresenta il coronamento della partnership euro-indiana.
Annunciato nel 2023, in occasione del G20 a New Delhi, l’Imec costituisce, per lo spazio mediterraneo, l’unica rilevante infrastruttura di trasporto integrato che estromette Pechino, assumendo così un valore contrapposto alla Belt and Road Initiative.
Basato su un sistema multilivello, integra la dimensione fisica con quella digitale ed energetica, prevedendo un collegamento su rotaia, un sistema di cavi elettrici sottomarini e dei gasdotti per il passaggio di idrogeno verde.
L’infrastruttura coinvolge realtà politiche relativamente stabili quali India, Emirati Arabi Uniti (Eau), Arabia Saudita, Giordania, Israele e Grecia, presentando un sistema ibrido di flusso marittimo e terrestre in grado di ridurre del 30% i costi e di essere il 40% più veloce di quello attuale che attraversa il Canale di Suez.
Nel tratto da Haifa al porto del Pireo costituirebbe il naturale prolungamento del progetto Easmed Poseidon Pipeline, un sistema subacqueo per il trasporto di idrogeno e metano nel Mediterraneo Orientale e in cui la Turchia, confermando le sue ambizioni a proporsi quale hub energetico mediterraneo, ambisce a giocare il ruolo di protagonista.
Tuttavia, allo stato attuale degli accordi, Ankara non dovrebbe partecipare all’Imec. Un aspetto che si tradurrebbe in un duro colpo per le sue aspirazioni a esercitare quel ruolo-ponte tra Oriente e Occidente che ossessiona la sua politica estera. Ne è una conferma il suo tentativo di rilanciare con l’alternativo Development Road Project attraverso l’Iraq e il Golfo Persico al fine di preservare, opportunisticamente, la posizione di attore imprescindibile per l’Europa.
Di fatto, al di là degli scetticismi motivati dalle ripercussioni della guerra Hamas-Israele sulla fattibilità del progetto, la stabilità di certe condizioni geopolitiche contribuisce a rendere l’iniziativa estremamente attuale. In primis, la validità degli accordi di Abramo, che hanno sancito la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Emirati dal 2020, e promosso la cooperazione economica per la stabilità del Medio Oriente, di cui l’Imec rappresenterebbe lo strumento attuativo.
Gli accordi hanno inoltre fornito un quadro per una partnership tra i principali attori coinvolti, la quale ha assunto la forma dell’I2U2, creato nel 2021 tra Israele, Emirati, India e Stati Uniti. L’analista Mohammed Soliman lo ha definito «alleanza indo-abramitica» individuando un aspetto cooperativo legato a energia, trasporto, salute; e uno securitario, connesso alla contrapposizione al sunnismo radicale e alla penetrazione cinese.
L’estromissione di Pechino e il trasporto di idrogeno verde previsti dal collegamento Imec rappresentano il fisiologico sbocco dell’intesa I2U2. Mentre l’esclusione della Turchia, sostenitrice delle rivendicazioni pakistane in Kashmir (territorio conteso con l’India), asseconda sia il risentimento di Nuova Delhi verso Ankara sia la diffidenza di Tel-Aviv.
A ciò si aggiunge, tra gli attori coinvolti nel progetto Imec, una naturale convergenza sul piano economico e politico, di cui il partenariato bilaterale indo-israeliano è un esempio. Stipulato con la visita del premier indiano Modi a Tel-Aviv nel 2017, è centrato su due esigenze vitali per l’India: l’acquisizione di tecnologie nel settore agricolo e idrico, di cui Israele è certamente leader attraverso l’agenzia Mashav, e la differenziazione nelle forniture belliche, necessaria per la riduzione della dipendenza da Mosca. Non casualmente, tra il 2016 e il 2020 l’India ha acquistato il 40% delle armi esportate da Israele.
Nei rapporti con Bruxelles, invece, il National Green Hydrogen Mission(Nghm), annunciato dall’India nel 2023, si presenta compatibile con gli obiettivi europei del REPowerEU, tra cui figura l’importazione di dieci milioni di tonnellate di idrogeno rinnovabile entro il 2030.
L’Nghm rappresenta una risposta a questa esigenza, prevedendo la produzione di 5 Mmt (milioni di tonnellate metriche) annue di idrogeno verde attraverso fonti rinnovabili entro il 2030 e l’esportazione attraverso nuove infrastrutture, come l’Imec appunto.
Nuova Delhi e Bruxelles condividono, inoltre, le stesse esigenze di riduzione della dipendenza energetica da Mosca e di incremento dei livelli occupazionali. Attualmente, il 40% della domanda indiana di petrolio è coperta da importazioni russe, con un incremento del 1.000% rispetto al 2021.
Una prospettiva non ottimale per l’autonomia politica del Paese, considerando anche la crescente vicinanza di Mosca a Pechino, principale rivale strategico. Il piano per l’idrogeno verde avrebbe il beneficio di produrre 600mila posti di lavoro, riducendo una crisi occupazionale in parte accentuata dallo sproporzionato incremento demografico del Paese.
La strategia dell’India
È evidente che India si percepisca vulnerabile, dipendente e isolata a fronte di una Cina determinata a guadagnare terreno nel proprio spazio marittimo. Una percezione rafforzata dalla svolta filo-cinese delle recenti elezioni nelle Maldive.
Da qui sorgono i dilemmi securitari Nuova Delhi, che vedono nel mare e a Occidente la dimensione imprescindibile al rafforzamento della propria connettività, di cui l’Imec costituirebbe un pilastro essenziale.
Pertanto, non sorprende che al Raisina Dialogue di febbraio 2024, nonostante l’instabilità del Medio Oriente, il premier Modi abbia insistito nella realizzazione del progetto presentandolo come «un’opportunità intergenerazionale».
Ma anche le aperture da parte europea non si sono fatte attendere: il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis ne ha ribadito l’importanza, mentre Emmanuel Macron ha nominato un inviato speciale per il l’Imec al fine di consentire alle aziende francesi di partecipare efficacemente agli appalti internazionali dell’infrastruttura.
Più timida, al momento, la posizione di Bruxelles, nonostante il progetto si presenti complementare al Global Gateway e al Global Partnership for Infrastructure Investment.
Probabilmente, l’onerosità dei precedenti condotti strategici come il Middle e il Northern Corridor, il primo congestionato con un aumento del 250% di traffici al 2022 e il secondo irrealizzabile a causa del coinvolgimento della Russia, ha spinto l’Europa a un atteggiamento precauzionale.
Sarebbe sufficiente uno sguardo prospettico sul potenziale di autonomia energetica da Pechino, de-risking, e approvvigionamento dei minerali critici che l’Imec sottende per considerarlo imprescindibile nelle dinamiche di transizione energetica e sicurezza marittima su cui la strategia europea fa perno.
Infatti, l’acquisizione di quel notevole quantitativo di manganese, nickel, cobalto e terre rare sui fondali dell’Oceano Indiano, nonché la sicurezza delle rotte con l’Indo-Pacifico dipende dal futuro dei rapporti con Nuova Delhi.
Immagine in evidenza: by Still Pixels – https://www.pexels.com/it-it/foto/bandiera-dell-india-3699921/. Immagini nell’articolo: 1) K.A.Miller, K.F.Thompson, P.Johnston, D.Santillo, An Overview of Seabed Mining Including the Current State of Development, Environmental Impacts, and Knowledge Gaps, Frontiers, 2018. 2) Grafica auto-prodotta