Il 22 marzo 2021, circa un anno prima del conflitto russo-ucraino, come per sogno premonitore, il Consiglio dell’Unione Europea istituiva lo European Peace Facility con decisione 509/2021. L’EPF è un nuovo strumento di finanziamento per la Politica estera e di Sicurezza comune (PESC) volto a proiettare l’Unione Europea all’estero in modo chiaro e inequivocabile, affiancandolo alla teoria della democratizzazione del Vicinato, tra tutti quei paesi del cosiddetto “Mediterraneo allargato”.
Questa concezione, di stampo liberale, è informata dalla teoria kantiana della pace democratica secondo cui gli Stati democratici tra loro non si fanno la guerra, essendo i governi responsabili di fronte alla volontà popolare. Ciò ha spinto l’Unione Europea a influenzare il pensiero e le strutture dei paesi confinanti non democratici attraverso il commercio e le relazioni internazionali – un esempio è dato dall’inserimento di clausole sul rispetto dei diritti umani nelle commesse internazionali.
Fino all’istituzione dell’EPF, infatti, il gigante sovranazionale del Vecchio Continente aveva fatto uso del soft power, grande cavallo di Troia europeo, lasciando ai margini l’hard power per ostacoli derivanti dai Trattati, tra tutti l’articolo 41(2) del Trattato sull’Unione Europea, e dalle posizioni divergenti presenti nella compagine degli Stati membri.
Il Fondo europeo per la Pace permette al contrario all’Unione Europea di pianificare e dispiegare missioni militari e di assistenza finanziaria a paesi terzi in maniera più efficiente all’interno della direzione delineata dalla Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC). Questo nuovo strumento incentiva, così, un impegno attivo nelle aree e nelle Regioni più calde del globo dove l’influenza europea aveva trovato limiti oggettivi dati dall’impossibilità dell’Unione, sia nella potenza che nella volontà, di assistere gli attori internazionali o le organizzazioni regionali militarmente o con la consegna di forza letale.
Ciò potrà permettere, in linea teorica, all’UE di recuperare il terreno guadagnato a suo discapito da altri attori globali come Russia e Cina, ma anche dagli alleati quali gli Stati Uniti, nelle regioni più rilevanti a livello strategici – primi tra tutti i paesi nordafricani e del Sahel.
I precursori dell’EPF
Il Fondo Europeo per la Pace permette anche il superamento di due meccanismi precedenti volti all’implementazione della PESC: Athena e l’African Peace Facility (APF). È proprio dai grandi difetti dell’APF e di Athena che il Consiglio decide d’istituire lo European Peace Facility, dotando l’Unione Europea di quelle grandi ambizioni a cui il Vecchio Continente può e deve aspirare.
Athena, infatti, è il primo meccanismo messo in essere dall’Unione per far sì che gli Stati membri coprissero in maniera equa, in base al proprio prodotto nazionale lordo (PNL), alcuni dei costi delle missioni facenti capo alla PSDC, come il trasporto, le infrastrutture necessarie, i costi del personale e di addestramento. Una delle sue applicazioni è stato nelle missioni di addestramento militare dell’Unione Europea (EUTMs).
Athena, come peculiarità, aveva la possibilità di aprirsi anche a fondi di paesi terzi, i quali non avevano capacità di voto nel processo di decision-making. Difetto fondamentale di questo progetto è stato la sua ristretta disponibilità economica, la quale copriva solo il 10-15% delle spese necessarie per le operazioni, lasciando i costi rimanenti suddivisi secondo lo stesso principio che rende riluttanti i paesi NATO ad operare, ossia la concezione “costs lie were they fall”.
L’APF, invece, aveva lo scopo di supportare e finanziare le missioni in Africa, sempre all’interno della PSDC, ma solo quelle autorizzate dall’Unione Africana (UA). Come il fondo precedente, l’African Peace Facility copriva le spese legate alla mobilitazione delle truppe, delle risorse e dalla preparazione delle forze locali alle operazioni di polizia, antisommossa e concernenti l’uso di forza letale. L’APF si è visto partecipe in missioni quali la AU Mission to Somalia (AMISOM), la Task Force multinazionale congiunta contro Boko Haram (MNJTF) e la Task Force congiunta del G5 per il Sahel, tra le altre.
Una percentuale abbastanza ristretta del fondo, meno del 9% se consideriamo anche la parte di share dedicata all’Early Response Mechanism, è dedicata alla capacity-bulding e allo sviluppo istituzionale dell’African Peace and Security Architecture (APSA), l’organizzazione interna all’Unione Africana volta alla prevenzione della guerra e al mantenimento della pace.
Il progetto, oggi sostituito dall’EPF, peccava di ambizione e di capacità, circoscrivendo la sua azione alla regione africana, alle sole organizzazioni riconosciute dall’APSA e ponendosi il limite di non fornire equipaggiamento letale, minando profondamente la competitività europea tra gli altri attori internazionali.
Come funziona l’European Peace Facility
Nel dettaglio, l’EPF gode di capacità giuridica ed è un fondo fuori dal bilancio dell’UE come previsto dall’articolo 41(2), il quale impone che “le spese derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare o della Difesa” siano off-budget “a meno che il Consiglio, deliberando all’unanimità, decida altrimenti”. Proprio come Athena, l’EPF si finanzia attraverso un contributo diretto degli Stati membri in base alla previsione di bilancio annuali del fondo, con percentuali contributive definite in base al prodotto interno lordo di ogni paese.
Il bilancio previsto dal quadro finanziario pluriennale 2021-2027 prevede un fondo di 5 miliardi di euro a prezzi del 2018 – 5,692 miliardi di euro oggi – stanziati in sette anni in modo crescente. Ad oggi, il Fondo europeo per la Pace ha sette missioni militari attive, legate ad aree d’interesse europeo, come l’EUFOR ALTHEA in Bosnia-Erzegovina, l’EUTM SOMALIA, l’EUTM MALI o l’EUNAVFOR MOZAMBICO.
Considerata missione militare aggiuntiva e quindi non tra le presenti, bisogna ricordare che l’EPF è diventato da Febbraio il principale strumento attraverso cui l’UE supporta le forze armate ucraine, avendo stanziato dal 28 febbraio ad oggi 2,5 miliardi di euro, di cui più del 90% per attrezzature militari concepite per l’uso letale della forza – una cifra sicuramente sostanziosa, che tuttavia potrebbe non bastare di fronte alla richiesta.
Peculiarità fondamentale è la struttura a due pilastri, che permette la semplificazione delle procedure decisionali e rafforza l’unità dell’azioni dell’UE. Il primo è definito “Pilastro delle operazioni” e si occupa del finanziamento delle missioni e delle operazioni della PSDC che hanno implicazione nel settore militare e della Difesa; mentre il secondo è il “Pilastro misure di assistenza”, volto a finanziare gli aspetti dei costi militari delle operazioni e di capacity-bulding dei paesi terzi.
Riconfermando la natura profondamente intergovernativa del settore militare e della Difesa europea, questo nuovo strumento opera sotto la direzione di un comitato ad hoc composto dai rappresentanti degli Stati membri, il cui ruolo di presidente è ricoperto dal rappresentante della presidenza del Consiglio. Altre figure fondamentali sono l’amministratore delle operazioni, nominato dal segretariato generale del Consiglio; e l’amministratore delle misure di assistenza, nominato dall’Alto Rappresentante per la Politica estera; i quali svolgono la funzione esecutiva.
Infine, i comandanti in capo delle operazioni e delle missioni, che oltre alla funzione prettamente tattico-operativa, svolgono la funzione d’influenza all’interno delle previsioni di bilancio. Alle delibere del Comitato potranno partecipare anche le figure sopracitate, oltre ai rappresentanti del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) e l’Agenzia Europea per la Difesa (AED), anche se queste non avranno capacità di voto, rimettendo tutto alle decisioni dei singoli Stati membri.
Le proposte, presentate dagli Stati membri, dall’Alto Rappresentante o attraverso l’Alto rappresentante dalla Commissione, devono essere votate all’unanimità e ogni Stato ha quindi potere di veto, con lo scopo di limitare le controversie riguardanti l’invio di equipaggiamento militare letale ma non solo.
Il processo che porta allo stanziamento dei fondi e all’attivazione di uno o entrambi i pilastri che compongono questo nuovo strumento parte dall’analisi preliminare dei rischi e dell’impatto condotta dal SEAE e sottoposta al Comitato, accompagnata anche da una serie di raccomandazioni riguardanti il rispetto del diritto internazionale umanitario quando la materia tratta l’invio di forza letale.
Una volta vista dal Comitato, quest’ultimo prosegue con la discussione delle misure da attuare in supporto del beneficiario e delle clausole contrattuali tra l’UE e il destinatario dell’assistenza. Questi vincoli contrattuali risultano fondamentali per evitare che l’Unione Europea e i suoi Stati membri si rendano protagonisti di interventi sgraditi che possano peggiorare le situazioni dei beneficiari, delle popolazioni locali, della dispersione degli armamenti o di violazioni del diritto umanitario o internazionale.
Il monitoraggio nel rispetto dei doveri contrattuali è affidato al Servizio europeo per l’azione esterna e all’Alto Rappresentante ma gli accordi non vengono resi pubblici. Il mancato rispetto delle clausole contrattuali può portare alla sospensione o al termine dell’assistenza da parte del fondo.
Importante sottolineare come la materia diventa più complessa quando il supporto ai beneficiari è contraddistinto dall’invio di equipaggiamento letale. In questi casi, infatti, per evitare che alcuni Stati membri possano andare contro alcuni dei propri principi costituzionali o status giuridico-storici, gli Stati possono presentare una dichiarazione scritta che prevede la loro esenzione – come fatto da Austria, Irlanda e Malta. Il trattato istitutivo, però, prevede che la loro quota partecipativa ai costi d’invio di forza letale venga riassorbita stanziando i fondi mancati in altre operazioni portate avanti dal Comitato.
L’EPF oltre la guerra in Ucraina
Lo European Peace Facility permette, quindi, il superamento della barriera geografica delineata dal progetto precedente, consentendo all’Unione europea di finanziare gli interventi in operazioni di peace-keeping, peace-enforcement o peace-support in ogni area del pianeta. Questo, non porterà a un minor interesse nel continente africano ma, anzi, dovrebbe permettere all’Unione Europea di dotarsi di più possibilità d’azione che non saranno ristrette alle solo organizzazioni riconosciute e designate dall’APSA, facendo sì che possa operare direttamente con i governi e gli eserciti nazionali, oltre che all’interno delle missioni ONU, permettendo una maggiore flessibilità decisionale.
Il nuovo fondo istituito permette anche l’abbattimento dei costi delle operazioni grazie alla maggiore disponibilità economica, allargando le richieste finanziarie agli Stati membri e consentendo che i costi delle missioni vengano coperti fino al 35-45%, comprendendo anche i costi di trasporto per e dai teatri operativi, delle forze di protezione per le missioni non esecutive e di dispiegamento dei militari europei.
Infine, la più grande rivoluzione dell’EPF è quello di recuperare il divario in materia di supporto militare che ha caratterizzato l’Unione Europea con le altre potenze, rendendo l’Union Europea legalmente in grado di inviare supporto militare ed equipaggiamento militare letale. Il fulcro del progetto, infatti, delineato nello strategic compass, è quello di rendere l’Union Europea uno dei maggiori provider in termini di Sicurezza e supporto militare, esercitando un ruolo di primo piano nelle zone più importanti a livello strategico per il Vecchio Continente.
La possibilità d’invio di armamenti, pesanti o meno che siano, permette all’Europa di tornare ad essere uno dei partner di punta per l’area nord-africana e del Vicino Oriente, oltre che dell’area Est-Europea, rassicurando gli Stati membri in merito al decrescente peso che l’Europa sta assumendo all’interno delle dinamiche globali.
Foto in evidenza: Rüdiger Müller – Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=80552432