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La risposta del Giappone alla crisi energetica è il nucleare

L’aumento dei prezzi delle materie prime costringe Tokyo a ripensare la propria politica energetica e apre la strada a un controverso ritorno al nucleare.

giappone nucleare

L’operazione militare speciale russa in Ucraina non ha solo diviso il mondo nuovamente in due blocchi politici come ai tempi della guerra fredda ma anche sotto un altro aspetto, più concreto e meno ideologico, tra paesi energeticamente autosufficienti e paesi dipendenti dalle importazioni dall’estero. Tra questi ultimi rientra anche il Giappone, paese che, nonostante una stagnazione economica in atto dagli anni ’90 del XX secolo, si colloca ancora al terzo posto delle maggiori economie mondiali.

Il Paese del Sol Levante convive con la cronica mancanza di materie prime sin dall’inizio della sua era industriale cominciata negli ultimi decenni dell’Ottocento e ciò ha rappresentato a più riprese un problema per il suo sviluppo. Se negli anni della Seconda guerra mondiale (e precedenti) la ricerca di materie prime aveva portato alla colonizzazione e allo sfruttamento di diversi territori in tutta l’Asia orientale, oggi ha preso la forma di accordi commerciali con decine di paesi in tutto il mondo per assicurare energia ai suoi quasi 126 milioni di abitanti e alla sua fiorente industria, attiva soprattutto nel settore tecnologico.

La crisi energetica in Giappone

Nonostante le evidenti similitudini tra Europa e Giappone, i due quadri energetici differiscono in alcuni punti critici per ragioni storiche, diplomatiche e geografiche e, per capirlo meglio, è utile guardare ai dati precedenti alla crisi energetica. Secondo i dati diffusi dal Ministero dell’Economia, del Commercio e dell’Industria giapponese, nell’anno fiscale 2019 il paese ha prodotto l’87,9% dell’energia con materie prime importate dall’estero, in ordine di utilizzo petrolio, carbone e gas naturale liquefatto (Gnl).

Il più importante partner energetico è risultato essere l’Australia da cui il Giappone ha importato il 59,6% del carbone e il 39,1% del gas utilizzati mentre la maggior parte del petrolio – più del 90% – proveniva dai paesi del Golfo. In questo quadro, le materie prime russe hanno rappresentato solo il 4,1% del petrolio, l’8,2% del gas e il 12,5% del carbone importati.

Grazie ai dati è possibile capire come la crisi energetica giapponese si differenzia sostanzialmente da quella in atto in Europa. Nel vecchio continente la crisi è “duplice” dal momento che i paesi europei hanno subìto dapprima il taglio delle forniture da parte della Russia, dalla quale importavano la maggior parte del gas, e poi si sono trovati a fronteggiare il naturale aumento dei prezzi dell’energia derivato da ciò. Il Giappone, invece, non ha un problema di approvvigionamento e sta facendo i conti “solamente” con i prezzi lievitati, considerati i relativamente limitati legami energetici tra Mosca e Tokyo prima della crisi ucraina.

Oggi la situazione sembra essere cambiata, paradossalmente a favore di un aumento del volume di scambi nel settore dell’energia tra Russia e Giappone, nonostante le sanzioni applicate da quest’ultimo in linea con il blocco dei paesi alleati degli Stati Uniti. Tokyo, infatti, partecipa a due enormi progetti di estrazione di idrocarburi al largo della costa nord-orientale dell’isola di Sakhalin, nell’estremo oriente russo appena sopra l’isola giapponese di Hokkaido, denominati Sakhalin-1 e Sakhalin-2. Entrambi i progetti erano partecipati anche da multinazionali occidentali: la statunitense ExxonMobil deteneva la partecipazione del 30% nel primo progetto mentre la britannica Shell del 27,5% nel secondo, ma li hanno abbandonati in risposta all’invasione russa dell’Ucraina.

Al contrario, le società giapponesi coinvolte – rispettivamente la Sakhalin Oil and Gas Development Co. e i gruppi Mitsui e Mitsubishi – hanno mantenuto le loro quote, cementificando i legami con Mosca. Tale scelta si spiega con l’obiettivo del governo giapponese di diminuire la dipendenza che ha nei confronti del petrolio mediorientale ricalcando la strategia europea per svincolarsi dal gas russo.

Il ritorno del Giappone al Nucleare

L’aumento dei prezzi dell’energia ha portato il governo giapponese a estese riflessioni riguardo la tenuta energetica del paese. In quest’ottica, è stato inaugurato a luglio 2022 il GX (Green Transformation) Implementation Council, un incontro mensile diretto dal primo ministro giapponese con vari enti pubblici e privati attivi nell’ambito dell’energia. L’obiettivo è trovare una linea comune da seguire per uscire dalla crisi e al tempo stesso ricercare soluzioni nel medio-lungo termine in quanto a sostenibilità.

Proprio durante uno di questi incontri, il 24 agosto 2022, il premier Fumio Kishida ha mostrato la decisa volontà di ritornare a un utilizzo regolare dell’energia nucleare, dichiarando che il governo giapponese è in prima linea per «il riavvio delle centrali nucleari che hanno già ottenuto i permessi» e per «sviluppare reattori di nuova generazione». Queste affermazioni sono tutt’altro che banali o scontate: alla vigilia del terremoto del Tohoku del 2011 che causò l’incidente nucleare della centrale di Fukushima Daiichi, il paese produceva circa il 30% del proprio fabbisogno energetico grazie ai 54 reattori nucleari sparsi per l’arcipelago.

Dopo tale catastrofe, però, il governo si ritrovò a dover chiudere tutti i reattori nucleari per precauzione; solo a partire dal 2015, pur tra le proteste di un’opinione pubblica fortemente scossa dall’accaduto, i primi reattori vennero riaccesi. Ad oggi quelli operativi sono 10 e producono circa il 5% del fabbisogno energetico giapponese ma nei piani del governo questa percentuale dovrebbe salire al 20% entro il 2030 grazie alla messa in funzione di molti dei reattori rimasti offline dal 2011.

Ad aiutare Kishida in questa operazione c’è anche un’opinione pubblica che sembra aver cambiato idea sull’energia blu. Ad oggi la percentuale di giapponesi favorevole alla riattivazione di gran parte delle centrali del paese si attesta, secondo un sondaggio condotto dall’istituto Nikkei research nel 2022, attorno al 53%; nel 2016 la percentuale era del 28%.

Nonostante ciò, il tema dell’energia nucleare continua ad essere estremamente divisivo nel paese e le critiche al piano di governo sono numerose, a partire dalla costruzione dei reattori di nuova generazione citata dal premier giapponese. A non convincere sono soprattutto i tempi: secondo le stime più ottimistiche, per progettare, costruire e mettere in funzione un nuovo reattore nucleare di ultima generazione ci vorrebbero dai 10 ai 15 anni, troppi per far fronte a una crisi che ha conseguenze sul presente.

Una grossa fetta dell’opposizione crede inoltre che gli ingenti investimenti necessari per i progetti sul nucleare (il costo per la costruzione di una nuova centrale nucleare è nell’ordine dei miliardi di dollari) tolgano risorse allo sviluppo delle energie rinnovabili, viste come la vera soluzione al problema dell’energia e più in linea con l’impegno dello stesso governo di ridurre del 46% le emissioni di CO2 entro il 2030 e di arrivare alla neutralità carbonica entro il 2050.

Foto in evidenza: ja:User:Newsliner – Own work, CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1664310

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