17 marzo 2022, Rimini, congresso della CGIL. Giorgia Meloni scruta dal palco il gruppo di manifestanti che la contesta intonando “Bella Ciao”. Il cipiglio da sparviero, le labbra contratte in una smorfia di sfida, a metà tra il disappunto e la soddisfazione. Soddisfazione di chi sa che quelle contestazioni, per quanto fastidiose, sono un’arma da poter utilizzare a proprio vantaggio.
Le polemiche sul fascismo sono, per la Presidente del Consiglio, specchietto per allodole dalla duplice utilità: primo, serrano i ranghi di alleati ed elettorato; secondo, distraggono l’opinione pubblica dalle difficoltà in cui il Governo annaspa come la spinosa questione del PNRR.
Uno strumento di polemica politica quindi, un drappo rosso da agitare davanti alle opposizioni che, la premier lo sa, caricheranno a testa bassa senza esitazione alcuna, nonostante il rischio di rimanere infilzate. Eppure, un mese dopo il congresso della CGIL, alla vigilia del 25 aprile, c’è da chiedersi se, a furia di agitare quel drappo rosso, non si corra un rischio maggiore.
Cioè che la contrapposizione al nazifascismo, che dovrebbe essere uno dei pilastri fondanti dell’identità italiana, e usiamo la parola identità tanto cara alla Premier non a caso, si annacqui e perda di significato, riducendosi a mera macchietta polemica tra opposti partiti.
Il significato del 25 aprile
Il 25 aprile del 1945 il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia diede l’ordine a tutte le formazioni partigiane di sollevarsi contro la Repubblica di Salò e l’invasore tedesco, provocando così la liberazione di molte città del nord prima ancora dell’arrivo degli alleati. Evento che fu vissuto come autentico momento di rivalsa nazionale che accumunò tutte le formazioni politiche che avevano preso parte alla lotta al nazifascismo.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che, sebbene i gruppi partigiani comunisti e socialisti abbiano avuto un ruolo preponderante nella guerra, un importante contributo venne anche dalle formazioni di area cattolica, azionista e liberale, senza contare il prezioso contributo di militari e ufficiali del Regio esercito.
L’unione delle forze democratiche che abbatterono il fascismo in Italia continuò anche nell’immediato dopoguerra, durante i lavori dell’Assemblea costituente, con la realizzazione di quel meraviglioso capolavoro politico che è la nostra Costituzione, capolavoro non solo per il testo in sé ma per la capacità di raggiungere un compromesso tra istanze così radicalmente diverse da apparire inconciliabili.
Tuttavia, dopo le elezioni del 1948, con la divisione del mondo in blocchi e la sempre crescente contrapposizione ideologica tra un fronte occidentale capitalista guidato dagli Stati Uniti e uno orientale comunista guidato dall’URSS, anche in Italia la fragile concordia tra le forze politiche venne meno.
E questa nuova contrapposizione, in Italia mal gestita e mai del tutto sopita, è una delle cause di un fenomeno piuttosto peculiare: lo slittamento di senso che ha riguardato il concetto di antifascismo e, conseguentemente, anche della sua celebrazione, il 25 aprile. Si è assistito, infatti, ad un progressivo spostamento a sinistra di tutto quel mondo afferente alla Resistenza e alla lotta al nazifascismo e ai totalitarismi che invece avrebbe dovuto essere patrimonio di tutti e fondamento comune del nuovo Stato italiano. Come siamo arrivati a questo?
Lo slittamento di senso
La prima causa di natura storica è senza dubbio da ricercare negli avvenimenti che ebbero luogo tra l’8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945. Si assistette, nel nostro paese, non solo ad una lotta di liberazione dall’invasore straniero ma ad una vera e propria guerra civile tra cittadini italiani. L’Italia venne, per l’ennesima volta nella sua storia, divisa in due fazioni contrapposte, divisione che ha lacerato l’animo degli italiani con ferite più profonde di quanto non siamo disposti ad ammettere.
Bisogna ricordare, infatti, che la guerra di liberazione dei partigiani venne combattuta non contro un governo collaborazionista imposto dai nazisti come poteva essere quello di Vichy in Francia, ma contro un regime che aveva guidato il paese per vent’anni, per di più ricorrendo a strumenti di indottrinamento e di propaganda pervasivi e totalizzanti.
La seconda causa che vogliamo citare è la mancata elaborazione di questi avvenimenti. Dal Dopoguerra in poi, si è fatto di tutto per non accumunare gli italiani ai fascisti. Lo fece Alcide De Gasperi quando, parlando alla Conferenza di Pace di Parigi nel 1946, presentò l’Italia e il popolo italiano come “ex nemico” delle Nazioni Unite, sottolineando lo iato tra il regime fascista e la neonata repubblica, vera rappresentante dei valori del popolo italiano.
Intento sacrosanto, poiché non era possibile macchiare un’intera nazione dei crimini del fascismo ma che forse ci ha fatto dimenticare il legame che si era, per forze di cose, venuto a creare tra il regime e la popolazione italiana.
Anche la concessione dell’amnistia del 1945 da parte del Ministro Togliatti, seppur motivata da ragioni politico-sociali quali la necessità di tornare rapidamente ad un clima di concordia nazionale per iniziare la ricostruzione del Paese, appare più come un tentativo di operare una cesura netta con il passato piuttosto che la concessione della grazia a quella parte di paese che, espiata la colpa, avesse finalmente raggiunto una redenzione dopo il trauma della guerra. In Italia non abbiamo avuto un processo di Norimberga a mondare, ad esempio, l’abominio delle leggi razziali.
È mancata, in un certo qual mando, la sanzione giuridica che avrebbe portato il processo di epurazione e di espiazione del regime fascista ad un acme dal quale poi ricostruire la coesione nazionale anche attraverso un provvedimento di grazia. Processo che sarebbe potuto essere un momento catartico nel quale il popolo italiano, rivedendo come in una tragedia greca le vicissitudini e gli errori di cui il Regime si era macchiato, si riconoscesse in quelle vicende e compisse quindi un quel profondo e doloroso processo di apprendimento che avveniva durante le tragedie greche dell’Atene del V secolo a.C.
Su tutto ciò, si è innestato un terzo elemento, di natura più prettamente politica, che ha caratterizzato tutta la Prima Repubblica. E cioè l’assenza di una vera e propria alternanza tra forze di destra e di sinistra alla guida dell’esecutivo, mancanza causata principalmente dall’esistenza di un unico grande partito di opposizione, il PCI, il quale però non fu mai abilitato ad entrare nelle stanze del Governo, per via dei suoi legami con l’URSS.
Con la Democrazia Cristina unica detentrice della responsabilità di Governo, il dibattito politico in Italia non ha subito quel processo di maturazione che avrebbe dovuto allontanare i partiti dalle posizioni più radicali e più legate alla storia degli inizi del ‘900.
Lo scontro ideologico tra destra e sinistra, inasprito anche dall’attività in Italia di gruppi terroristici rossi e neri che hanno ancor più allontanato la possibilità di un dialogo tra le opposte fazioni, trovò una tregua dopo la caduta dell’URSS e la fine della Guerra Fredda che rivoluzionarono lo scenario politico italiano dove, per la prima volta, comparvero due schieramenti (a volte sotto l’egida di un solo partito, a volte riuniti in coalizioni) che si contendevano il Governo del Paese.
Eppure, anche allora, nonostante fossero venuti meno i vincoli esterni, la querelle ideologica del “nemico politico”, le opposte grida al pericolo rosso o nero continuarono a riecheggiare nel dibattito pubblico italiano, eredità di cinquant’anni di tensioni striscianti, amnesie collettive ma anche di mero opportunismo politico e bieche strumentalizzazioni.
Il primo 25 aprile di Giorgia Meloni
E in questo quadro di forte radicalizzazione del dibattito politico che anche la memoria della Resistenza, proprio perché nata da una guerra civile e quindi dalla contrapposizione di due parti, non può che divenire terreno di scontro anziché casa comune. Da sinistra, si tende ad appropriarsi della Liberazione come un qualcosa di personale, magari anche da difendere dalle forze di destra tacciate di fascismo.
Dall’altro lato, si vede il 25 aprile come legato solamente alla galassia di sinistra e non come moto di risveglio dell’identità nazionale. Entrambe queste interpretazioni, errate perché semplicistiche e incapaci di cogliere la complessità storica della Resistenza, vengono usate per meri fini di propaganda politica, impedendo così la nascita di un sentimento comune attorno a questa ricorrenza.
Tornando all’oggi, al primo 25 aprile del Governo Meloni, il più a destra della Storia repubblicana, permane la sensazione di aver sprecato un’altra occasione. Tra accuse reciproche, tentennamenti di figure di primo piano come il Presidente del Senato, che fino all’ultimo non ha chiarito se sarebbe stato a Praga o a Roma, comunicati scellerati come quello dell’ANPI di Milano, che ha dichiarato che lo stesso Presidente del Senato non sarebbe stato gradito alle manifestazioni, appare evidente che non si porrà fine all’odioso siparietto di polemiche.
Eppure, non si può non sperare nel contrario, in un’illuminazione improvvisa di una delle due parti, in un segnale distintivo e distensivo, un cenno di apertura che possa essere raccolto dall’avversario per intraprendere un faticoso processo di riconciliazione. Un guizzo, un lampo di genio che smuova ciò che appare inamovibile, una giocata fuori dagli schemi che colga di sorpresa tutti e risolva l’intreccio, come un deus ex machina a teatro.
Ne avrebbe bisogno la destra, per affermarsi definitivamente quale forza democratica del Paese e scrollarsi di dosso la pesante e ingiustificata eredità. Ne avrebbe bisogno la sinistra, per superare una contrapposizione ideologica anacronistica che la condanna alla minorità. Ne avrebbe bisogno un paese prostrato da anni di ristrettezze, pandemie, sofferenze, grigiore, incapacità di donarsi un senso e una ragione d’essere. Per questi motivi, Giorgia, oggi, canta “Bella Ciao”.