Il 15 settembre gli Stati Uniti si sono svegliati con una notizia senza precedenti nella loro storia. Il sindacato Uaw (United Auto Workers), che rappresenta i lavoratori nel mondo dell’auto, ha indetto un grande sciopero contro le “big three”, le tre case automobilistiche più importanti del Paese: Ford, General Motors e Stellantis.
La decisione presa dal presidente della sigla sindacale, Shawn Fain, era tuttavia nell’aria. Da mesi si trascinavano contrasti tra operai e industrie per adeguamenti degli stipendi, maggiori benefit e riduzione degli orari.
A costituire un unicum non è tanto lo sciopero in sé, quanto le modalità con cui Fain ha deciso di applicarlo. Per la prima volta il sindacato ha avuto risorse e mezzi per fermare la produzione in tutti i “Big three” contemporaneamente. Non era mai successo dalla fondazione della sigla, nata nel 1935 e che ad oggi conta più di 400mila iscritti.
Le richieste dei lavoratori di Uaw
Shawn Fain ha puntato da subito in alto. Le richieste dei suoi iscritti sono d’altronde significative. Si richiede un aumento degli stipendi del 40% in quattro anni, maggiori agevolazioni, più settimane di ferie, riduzione degli orari di lavoro. Si tratta di pretese comprensibili alla luce dei numeri diffusi dalla stessa Uaw.
Gli amministratori delegati delle tre aziende hanno infatti visto aumentare il loro stipendio di circa il 40% negli ultimi quattro anni, mentre quello degli operai si è alzato solo del 6%. D’altronde i profitti del solo 2023 delle tre casi raggiungono i 20 miliardi di dollari .
Secondo l’associazione no profit As you Sow, l’amministratore delegato di Ford ha guadagnato 281 volte in più rispetto al lavoratore medio dell’azienda, mentre in Gm tale divario aumenta a 362 volte.
Per questo Fain ha deciso, dopo mesi di contrattazioni a suo dire infruttuose, di bandire uno sciopero che dura ormai da diverse settimane e di cui non si vede una soluzione rapida.
Per colpire più a fondo gli interessi delle tre grandi, Uaw ha deciso di iniziare lo sciopero in contemporanea in tre stabilimenti diversi, uno per azienda. È una tattica completamente nuova nel panorama sindacale americano, poiché i predecessori di Fain avevano sempre preferito trattare singolarmente con aziende così grandi e potenti. È iniziato così Stand up Strike.
Allo scoccare della mezzanotte del 15 settembre si sono fermati gli stabilimenti d’assemblaggio a Wentzville, in Missouri (GM); a Toledo, in Ohio (Stellantis), e a Wayne, nel Michigan (Ford). Tutti i lavoratori che si sono uniti alla protesta ricevono dal sindacato 500 dollari a settimana e il pagamento dell’assicurazione sanitaria. Questo pesante esborso è reso possibile da un fondo di 825 milioni di dollari a disposizione della Uaw. Proprio grazie a questo strumento è possibile prolungare un movimento così ambizioso.
Dopo le prime contrattazioni, che Fain non ha esitato a definire “un insulto”, si è deciso di allargare lo sciopero ad altri 38 stabilimenti di Gm e Stellantis, coinvolgendo altri Stati dell’Unione. Ford, invece, si è salvata da questa misura grazie a trattative in stato più avanzato. L’azienda ha definito l’offerta “storicamente generosa, con significativi aumenti salariali e altri benefici”, proponendo un aumento degli stipendi pari al 20%. Siamo dunque lontani dalle richieste dei lavoratori.

Il danno economico degli scioperi Usa
Ogni operaio fermo porta un danno non solo alle tre grandi, ma a tutto l’indotto del sistema automobilistico statunitense. L’industria vale da sola il 3% del Pil del Paese. Si è calcolato che 10 giorni di sciopero portino circa 5 miliardi di danni e 32mila veicoli prodotti in meno. Questo significa perdita di posti di lavoro per moltissimi dipendenti delle Big three, ma sopratutto per tutte le aziende medio-piccole che vi gravitano intorno.
La stessa Ford ha dichiarato: «Il nostro sistema di produzione è altamente interconnesso. Il che significa che la strategia di sciopero mirato della Uaw avrà effetti a catena per le strutture che non sono direttamente colpite da un’interruzione del lavoro».
Per citare solo alcuni casi, 2mila lavoratori in uno stabilimento dell’Arkansas rimarranno fermi almeno per una settimana per la mancanza di pezzi, mentre 600 operai nel Michigan sono stati sospesi temporaneamente a data da destinarsi.
La situazione è resa ancora più delicata dalle leggi sul sussidio per gli scioperi, che variano da Paese a Paese. La Uaw potrebbe non pagare più i suoi iscritti per continuare lo sciopero in alcuni Stati, indebolendo la sua posizione ed il suo potere contrattuale rispetto alle aziende.
Lo sciopero va a colpire un’industria che ha già i suoi fasti alle spalle. Le grandi di Detroit sono assediate da più fronti malgrado i grandissimi profitti che riescono ancora a far registrare. La transizione verso l’elettrico, la grande concorrenza da parte dell’industria cinese, la crisi del mercato: la Rust Belt, negli anni, ha già tagliato numerosi posti di lavoro, subito la grande crisi del 2008 di cui il sistema porta ancora le cicatrici e rischiato seriamente di fallire.
Simbolo di questo lento degrado è la stessa Detroit, la città simbolo dell’automobile americana. È stata la prima grande metropoli degli Stati Uniti a dichiarare la bancarotta, con migliaia di edifici abbandonati, degrado urbano, livelli di criminalità quasi ingestibili.
La stessa Uaw non è più la potenza di un tempo. Quarant’anni fa raccoglieva un milione e mezzo di iscritti, mente oggi raggiunge i 400mila, di cui solo metà sono metalmeccanici. La gestione Fain sembra però aver portato nuova linfa al sindacato. Oltre allo sciopero di queste settimane, l’anno scorso era riuscita a strappare due contratti a John Deere, impresa di macchina agricole, e alla Caterpillar, con aumenti salariali del 27% per i dipendenti.
Gli scioperi e la strada per la Casa Bianca
Uno sciopero così lungo e efficace deve far riflettere sulla nuova forza che la classe lavoratrice sembra aver raggiunto. Da poco si è concluso negli Stati Uniti l’altro grande sciopero di questi giorni, condotto vittoriosamente dagli scrittori, attori e sceneggiatori di Hollywood che hanno strappato quasi tutte le loro richieste. È durato esattamente 146 giorni.
Anche l’Uaw sembra determinata a qualcosa di simile qualora le sue richieste non venissero soddisfatte. Oltre alla grandissima attenzione mediatica che le proteste stanno ricevendo, non solo negli Usa, i lavoratori hanno ricevuto le visite dei due principali candidati alle elezioni 2024 per la Casa bianca: Joe Biden e Donald Trump.
Non è mai successo nella storia che il Presidente in carica e il Presidente del mandato precedente raggiungessero i picchetti degli operai. Neanche Jimmy Carter, uno dei presidenti più vicini ai sindacati, arrivò a tanto.
Bisogna risalire all’incontro di Roosevelt nel 1902 con i minatori di carbone. Un’altra epoca, con “Teddy” che temeva di passare un inverno senza combustibile, ma che comunque non si scomodò e fece arrivare gli scioperanti alla Casa Bianca. Qui invece sono i pezzi grossi che si muovono per raggiungere il luogo principale delle proteste, il Michigan.
Le mosse dei due principali candidati possono essere facilmente lette con la cartina dei sondaggi alla mano. Michigan in primis, ma anche molti altri Stati a cui gli scioperi si sono allargati (Wisconsin, Pennsylvania, Nevada, North Carolina e Georgia), sono terreno di scontro fino all’ultimo voto. Presentarsi come mediatore tra le aziende e i lavoratori, portare alla fine dello sciopero o comunque a una distensione potrebbe avvantaggiare moltissimo uno dei due contendenti.

Va detto che Biden ha molto più da perdere. L’endorsment del sindacato al candidato democratico, una volta concesso in maniera scontata, è stato ritirato dallo stesso Fain. Biden si è sempre presentato come “il “presidente più pro sindacato della storia americana”. Inoltre era stato lui a gestire, per conto dell’allora presidente Barack Obama, il gigantesco dossier sulla crisi del settore nel 2008.
Dall’altro lato, Trump cerca di allargarsi a elettori solitamente democratici. Lo fa sapendo che molti membri del suo partito hanno criticato gli scioperi. Lo stesso Fain ha dichiarato che “Il sindacato sta combattendo la classe dei miliardari e un’economia che arricchisce persone come Donald Trump a spese dei lavoratori”.
Il Tycoon, come spesso la sua strategia prevede, ha attaccato il suo avversario diretto: “Biden cerca solo photo opportunity a buon mercato. L’unico motivo per cui va in Michigan martedì è che io ci andrò mercoledì”
Da Musk alla Cina: la mobilità elettrica alla finestra
Mentre operai e aziende vivono uno stallo, ci sono molti osservatori interessati alla finestra. Il primo, indicato da molti come il vincitore di questa situazione, è Elon Musk. L’imprenditore e proprietario di Tesla non può che beneficiare di una tale crisi della concorrenza. La sua azienda non è ancora sindacalizzata e i suoi operai guadagnano sensibilmente meno rispetto a quelli delle Big Three.
Inoltre, la produzione di auto elettriche richiede processi più snelli e meno personale. Il costo orario delle Big Three si aggira intorno ai 66 dollari. Quello di Musk è pari a 45 dollari.
L’unico rischio per il famoso uomo d’affari è che il successo della protesta Uaw porti anche i suoi dipendenti ad unirsi al sindacato. I tentativi condotti fino ad ora dalla sigla, nel 2017 e 2018, sono sempre falliti.
L’altro convitato di pietra è la Cina. Il capitolo della deindustrializzazione degli Stati Uniti è molto vasto, ma nel settore dell’auto è chiaro che una crisi del Paese a stelle e strisce conduca a un vantaggio per i diretti competitori.
Il Dragone ha già il mercato automobilistico più ampio del mondo. Trampolino di lancio sono proprio le auto elettriche, il cui sviluppo ha permesso al Paese di riacquistare il controllo del 50% del mercato interno. Il tutto a discapito dei due brand più diffusi in precedenza, Toyota e Volkswagen.
I protagonisti di questa ripresa sono marche ancora non conosciute dal grande pubblico occidentale, ma che presto potrebbero diventare note: Gac, Chery, Li Auto, Nio e XPeng. Alla base c’è un grandissima differenza di sostegno statale: Pechino ha destinato 57 miliardi di dollari di sussidi tra 2016 e 2022, Washington “solo” 12.
Proprio l’auto elettrica è un tema centrale negli scioperi della Uaw. Biden, con il suo piano di riduzione dell’inflazione (Ira) aveva destinato anche un credito d’imposta federale per acquirenti di tali veicoli fino a 7.500 dollari complessivi. Il piano prevede di arrivare a una quota del 67% di auto elettriche entro il 2032. Inoltre si punta al 46% degli autocarri di media portata, al 25% di quelli pesanti e al 50% dei bus. Si tratta del più ambizioso piano mai varato fino ad oggi riguardo alla mobilità elettrica.
Questo spaventa gli operai delle Big Three. Le auto elettriche richiedono molto meno personale, risentono di più della concorrenza cinese e arrivano in un momento in cui le grandi aziende non sembrano ancora pronte alla grande transizione.
Biden deve sapersi muovere fra tutti questi temi e riuscire a dare risposte soddisfacenti agli operai di Uaw. Errori a questo punto potrebbero costargli lo studio ovale. È notizia recente che gli ultimi sondaggi diano Trump in rimonta – con una rilevazione di Abc che lo vedrebbe in testa di 10 punti percentuali. Il margine in cui muoversi è sempre più ridotto per entrambi i contendenti.