I pirati esistono ancora. Hanno abdicato al Jolly Roger e ai Galeoni, e anche a un po’ del romanticismo che li precedeva, ma ci sono ancora. Dall’inizio del 2021 l’IMB Piracy Reporting Centre segnala ben 40 episodi di pirateria. Nel 2019 erano stati 119, l’anno prima 156. Nel 2020, nonostante la pandemia, vengono segnalati 160 incidenti. Addirittura, secondo un report dello stesso ufficio investigativo, la pandemia potrebbe essere stata d’aiuto alla pirateria: la crisi economica e la conseguente instabilità politica, la difficoltà di coniugare misure di distanziamento con i protocolli di sicurezza e i congestionamenti di imbarcazioni dovuti al rallentamento delle procedure di sbarco-imbarco sono tutte occasioni d’oro per i pirati del terzo millennio.
Il modus operandi è comune a tutte le latitudini del globo. Si prendono di mira navi che trasportano carichi preziosi e facilmente smerciabili sul mercato nero: metalli, zucchero, carburante. Grazie a imbarcazioni rapide (pancung nel Mare Cinese) piccoli gruppi di pirati abbordano con uncini e rampe le goffe navi da carico nel momento in cui sono più vulnerabili: alla fonda, in corso di manovra o quando si allontanano dalle acque territoriali. A questo punto ci sono diverse cose che la ciurma di bucanieri può aver deciso di fare. Gli episodi più comuni sono quelli di furto, rubare quanto più possibile del carico, imbarcarlo sulle proprie imbarcazioni e fuggire – come accaduto nel porto fluviale ecuadoregno di Guayaquil lo scorso 6 marzo, quando sei uomini armati hanno rapinato una portacontainer per poi fuggire con parte delle merci su due rapide imbarcazioni.
In alternativa, se le condizioni lo consentono, la nave viene rapidamente liberata dal carico (trasbordato) e portata in un luogo sicuro dove può essere ridipinta. A quel punto non resta che dotare la nave di una nuova identità – processo possibile grazie alla collusione con personale amministrativo portuale o che lavori negli uffici dei registri navali. Un processo che i bucanieri hanno imparato a svolgere in maniera rapida ed efficiente: come riporta Nicolò Carmineo su Limes, appena dopo dieci giorni dalla scomparsa del cargo Inabukwa, fu rutrovato con un altro nome, “Chungsin”, pronto per una nuova vita.
I luoghi della pirateria
I tre principali hub della pirateria sono l’Indo Pacifico, il Golfo di Guinea e il Centro America. Le acque di gran lunga più pericolose sono quelle africane. Delle 135 persone rapite nel corso di incidenti di pirateria, 130 sono state rapite qui, confermando la crescita del business dei riscatti accanto a quello delle rapine. Nel Golfo di Guinea i pirati sono meglio equipaggiati che in passato e hanno dimostrato di essere in grado di colpire cargo anche oltre le 200 miglia nautiche della costa come accaduto con l’abbordaggio della MV Curacao Trader (luglio 2020) e della MV Mozart. Il Piracy Reporting Centre suggerisce alle navi di rimanere a più di 250 miglia dalla costa (quasi 500km).
Nel corso del 2020 la fregata della Marina Militare Federico Martinengo ha svolto attività di sorveglianza nella regione arrivando in un caso a sparare contro un gruppo di pirati che tentavano l’abbordaggio di una nave battente bandiera di Singapore.Il 12 marzo scorso, a più di 210 miglia nautiche dalle coste del Benin, 15 marinai della nave maltese MT Davide B sono stati rapiti dopo essere stati abbordati da nove pirati armati e non si hanno ancora notizie sulla loro condizione. Si tratta del sesto attacco con rapimenti che avviene in un’area di appena 30 miglia nautiche di diametro dal luogo dell’incidente.
La maggior parte degli attacchi prende di mira le navi che trasportano petrolio e gas dai ricchi giacimenti della Nigeria, obbligati al carico nel porto di Lagos. Ciò che rende i dati dell’Africa occidentale degni nota è l’aumento assoluto del numero di episodi, da solo sufficiente a spiegare il rialzo del dato mondiale. Solo qui e nei Caraibi gli episodi vanno aumentando, mentre nel resto del mondo la vita dei bucanieri è sempre più difficile.

E i pirati somali?
Che fine hanno fatto quegli uomini che si conquistarono un posto sanguinoso nell’immaginario della pirateria moderna grazie a film come Captain Philips e Hijacking? In Somalia si combatteva da quasi trent’anni una sanguinosissima guerra civile quando, intorno al 2005, i pirati somali iniziarono i loro attacchi sistematici nel Golfo di Aden – una zona cruciale per le navi che dell’Asia si recano in Europa attraverso il canale di Suez. Nel 2010 la pirateria era diventata endemica, con circa 50 navi dirottate ogni anno e un business da 240 milioni di dollari tra riscatti e contrabbando dei carichi.
I fattori che hanno portato alla drastica riduzione della pirateria sono molteplici. In un primo momento furono le missioni internazionali Combined Task Force 150 e 151, insieme a quella europea Eu NAVFOR (adesso Atlanta) a opporsi alle scorribande. Specie all’inizio, tuttavia, la capacità di agire rapidamente dei pirati e l’assenza di un’adeguata copertura dei droni – che sarebbe arrivata solo in seguito – determinarono un’estrema difficoltà nel ridurre il numero di attacchi. Tra 2010 e 2014 si registrarono 358 attacchi a largo delle sole coste della Somalia. Nel 2010, “anno d’oro” della pirateria somala, furono rapite 1035 persone e rubate ben 49 navi.Le compagnie mercantili corsero ai ripari, ingaggiando sempre più spesso personale armato per difendersi, nel 2012 circa l’80% delle navi che transitavano per Aden imbarcava uomini armati per la difesa, rendendo molto più difficile la vita ai pirati.
Ma a risultare determinante fu l’impegno di una famiglia di sceicchi, gli Al Nahyan, che a partire dal 2010 iniziarono a schierare forze mercenarie professionali per combattere i gruppi di pirati, sia a terra che in mare. Per farlo ingaggiarono Erik Prince, ex membro della CIA e fondatore di Blackwater, la più importante compagnia di contractors del mondo. Nel 2012 Prince aveva messo in piedi un vero e proprio esercito di circa 1000 mercenari, equipaggiato con elicotteri e barche pesantemente armate.
Contemporaneamente le compagnie mercantili adottavano protocolli di sicurezza più efficienti e le capacità delle marine militari statali della regione aumentavano grazie ai nuovi metodi di raccolta delle informazioni. Il risultato fu che dal 2013 l’unico dirottamento portato a buon fine fu quello della petroliera Aris 13 nel marzo del 2017. Intanto, l’Africa Occidentale iniziava ad accreditarsi come hub della pirateria mondiale.
Indo non pacifico
L’Asia ha registrato 97 incidenti di pirateria nel corso del 2020, con una concentrazione particolare nei paesi del Sud Est. Le zone più a rischio sono quelle del Mare cinese meridionale e dell’area dello stretto di Singapore, lungo il passaggio che conduce allo stretto di Malacca. Si tratta di una delle zone più importanti del pianeta, passaggio obbligato per tutte le merci che viaggiano sul mare tra Oriente e Occidente. Filippine, Indonesia, Malesia, Singapore e la Cina sono le sponde più calde della pirateria nel Pacifico
In quest’area del mondo l’Oceano Indiano sfuma nel Pacifico e di lì prosegue verso i mari contesi su cui si consuma lo scontro tra Stati Uniti e Cina. Le immense distese d’acqua, insieme all’aleatorietà dei confini delle aree di pertinenza dei diversi stati – si ricordi che qui la Cina ha costruito isole che prima non esistevano – hanno sempre determinato un ecosistema perfetto per la pirateria. Negli ultimi dieci anni gli episodi sono diminuiti– principalmente grazie al potenziamento delle marine militari dei bellicosi paesi dell’Indo-pacifico – ma il 2020 ha visto un incremento degli incidenti del 17% rispetto agli anni successivi.
Gli spazi sconfinati rendono particolarmente difficile richiedere soccorso e le ciurme hanno imparato a rubare, saccheggiare e rinominare le navi bersaglio in tempi brevissimi. Il 28 maggio 2013 dieci uomini armati di machete e fucili automatici abbordano la petroliera Orapin 4 mentre percorre la rotta tra Singapore e il Borneo. Nello spazio di dieci ore, dopo aver messo fuori uso il sistema di comunicazione, trafugano in un secondo vascello 3700 tonnellate di carburante e cancellano la prima e l’ultima lettera del nome: sulla fiancata ora il nuovo nome della nave, Rabi – così da non destare attenzioni in eventuali curiosi accorsi in cerca della Orapin. Solo quattro giorni dopo la nave riappare in Thailandia, con l’equipaggio illeso e senza il prezioso carico. Come riporta il Time, che all’epoca raccontò la storia della petroliera, si trattava del sesto incidente nel genere in meno di tre mesi.
Sui mari dell’Indo-pacifico si affacciano i porti commerciali più importanti del pianeta: Shangai, Singapore, Shenzen, Hong Kong, Guanghzou, Kuala Lumpur, e la lista continua – 9 dei primi 10 porti del mondo per quantità di merci si trovano qui. La quantità di traffico commerciale è immensa e le infrastrutture portuali sono continuamente gremite di navi che arrivano, scaricano, ricaricano e partono alla volta di nuove destinazioni.
Nello scorso numero di Lumina avevo sottolineato come le contese territoriali nel Mare Cinese Meridionale abbiano una particolarità: non sono solo gli Stati a portarle avanti. Pescatori, guardia costiera, navi di esplorazione mineraria, gli attori coinvolti nelle dispute sono molteplici. Anche quando si parla di pirati si può affermare qualcosa di simile. Funzionari portuali corrotti, navi “ufficiali” di forze dell’ordine e cordate di truffatori del mare contribuiscono a sfumare i contorni tra potere statuale, commercio e pirateria.
Emblematico il caso della Hye Mieko, un mercantile battente bandiera di Singapore che nel 1995 fu intercettato da quelle che sembravano unità della guardia costiera cinese mentre navigava verso la Cambogia. La nave fu costretta a navigare fino alla Cina, dove arrivò senza il suo prezioso carico di sigarette (2 milioni di dollari).La Cina negò sempre qualsiasi coinvolgimento, anche se gli incidenti in cui erano implicati la pirateria e unità ufficiali o sedicenti della RPC si moltiplicarono a partire da inizio ’90: Arktis Star, Petro Ranger, Tenyu… Nel 1998 addirittura il governo cinese mise a morte diverse decine di persone tra pirati, funzionari locali e uomini d’affari per aver organizzato un colpo clamoroso: abbordare il mercantile Cheung Son, uccidere l’equipaggio dopo essere saliti a bordo travestiti da doganieri cinesi e poi rivendere la nave a un prezzo stracciato a misteriosi compratori cinesi – gli scopi ultimi giacciono ancora nelle tombe dei condannati.
Pirati dei caraibi
Le acque dell’America Centrale sono lontane dai fasti dei “pirati dei Caraibi” dei secoli scorsi, ma restano pericolose per le navi che trasportano merci e materie prime. Nel golfo del Messico nel 2020 si sono registrati 4 incidenti ai danni di navi di supporto alla trivellazione offshore. Il trend è in crescita rispetto agli anni scorsi, specie ai danni delle infrastrutture petrolifere e, come suggerisce il Piracy Reporting Centre, c’è la possibilità che il fenomeno sia sottostimato a causa della difficoltà di reperire informazioni adeguate.
Oltre alle piattaforme petrolifere messicane, anche Brasile, Ecuador e Perù e il mar dei Caraibi (specie tra Panama e la Colombia) registrano un numero sostanzioso di attacchi, specie in corrispondenza delle foci fluviali. I due porti più pericolosi della regione sono Macapà, dove il Rio delle Amazzoni si getta nell’Atlantico, con ben 7 attacchi segnalati e Lima, 5 incidenti da inizio 2021. Qui tuttavia, la pirateria è un fenomeno meno sistematico e soprattutto meno organizzato, con gli attacchi che sono in genere meno arditi negli obiettivi e relegati all’area costiera, a differenza di quanto accade in Africa o nel Pacifico.
Mr Wong: storia di un pirata
Spesso siamo portati a immaginarci il pirata come una figura romantica, avventurosa, affascinante. Nella maggior parte dei casi, invece, si tratta di comuni criminali, tagliagole o truffatori senza grandi storie alle spalle. Nel caso di Mr Wong, invece, è esattamente così. Nato Chew Cheng Kiat, o forse Chong Kee Fong, pare a Singapore – ma nessuno, nemmeno quando andò in galera, conobbe mai la sua vera identità.
Sul finire degli anni ’90 Wong faceva base presso l’isola di Batam, nell’arcipelago indonesiano delle Riau. Qui gestiva una piccola compagnia petrolifera e frequentava attivamente i bordelli del posto. Una vita tranquilla. Ad un certo punto le autorità iniziano a notare una singolare correlazione: le navi degli armatori che facevano contratti con la compagnia di Wong venivano regolarmente portate in alto mare, sequestrate e fatte sparire. In totale erano più di 20 gli episodi di pirateria riconducibili all’azione del pirata senza nome, che ora si appoggiava a sigle criminali disseminate su tutte le coste della regione: Hong Kong, Malacca, persino Taipei.
Solo nel 1998 la storia venne a galla, quando la Pualu Mas, “ammiraglia” dell’attività illecita di Wong venne sequestrata dalle forze indonesiane, che all’interno trovarono armi, documenti falsi, travestimenti e il “kit” utilizzato per riverniciare le navi rubate e cambiar loro colore.Poco dopo fu arrestato, sempre a Batam, il 1 dicembre del 1998, in una casa di piacere gestita dalla sua protetta e compagna di letto Ayu Nani Sabri. Di lì, finì in prigione, per poco, ed uscì per buona condotta, in qualche anno se ne persero le tracce. Una storia che sembra uscita da due secoli fa.