Con la corsa al riarmo dell’Europa e un crescente senso di insicurezza globale, si profila una stagione d’oro per l’industria bellica dell’Italia. Le esportazioni di armi italiane hanno visto nel 2023 un aumento del 19,3% rispetto all’anno precedente. Dai 5.289 milioni di euro del 2022 si è passati ai 6.311 milioni di euro del 2023, mentre i Paesi destinatari sono stati 82 rispetto agli 84 dell’anno prima.
I primi cinque importatori di sistemi d’arma italiani sono: Francia (465 milioni, 7,36% del totale), Ucraina (417 milioni, 6,6% del totale), Stati Uniti (390 milioni, 6,1% del totale), Arabia Saudita (363 milioni, 5,75% del totale) e Regno Unito (277 milioni, 4,4% del totale).
Si tratta di una classifica sensibilmente differente rispetto a quella del periodo 2014-2018, che vedeva invece Qatar, Egitto e Kuwait come gli acquirenti principali degli avanzati sistemi d’arma aerei e navali italiani, rispettivamente del 27%, 21% e 13% del totale. La tendenza, che si andrà probabilmente a consolidare nel prossimo periodo, pare essere invece quella di una crescita del peso relativo dei Paesi membri della Nato e dell’Unione Europea come destinazioni dell’export militare italiano.
Oggi le esportazioni dirette verso questi Paesi sono infatti arrivate a rappresentare quasi la metà delle esportazioni italiane di materiale bellico (44%), una notevole impennata rispetto agli anni precedenti. Il motivo di questo mutamento ha a che fare con le politiche di riarmo adottate dai Paesi europei a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, che ha portato gli Stati del Vecchio Continente ad aumentare le importazioni di sistemi d’arma da parte di potenze straniere.
In realtà, le esportazioni italiane di armi aumentano costantemente da almeno un quinquennio, ancor prima dell’inizio dell’operazione militare speciale. Roma ha scalato la classifica dei Paesi esportatori d’armi negli ultimi anni, superando attori importanti come Spagna, Israele e Regno Unito, e occupa oggi la sesta posizione nella classifica globale.
Se nel periodo 2014-2018 la Penisola aveva una fetta del 2,2% del mercato globale della Difesa, nei quattro anni successivi è arrivata al 4.3%. Una crescita dell’86% del valore, la più alta di quelle registrate tra i Paesi che occupano le prime dieci posizioni della suddetta classifica.
Riguardo agli altri Paesi leader nel settore, nell’ultima relazione del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) si legge che gli Stati Uniti hanno mantenuto il primo posto e oggi occupano una fetta di mercato pari al 42% delle esportazioni, mentre la Francia risulta alla pari con la Russia al secondo posto (11% del mercato dell’export). Il Cremlino ha invece ridotto la vendita di armi all’estero del 53% rispetto ai cinque anni precedenti, sull’onda del conflitto in Ucraina, che ha assorbito parte del surplus.
Per l’Italia, l’azienda Leonardo si conferma il primo player nel settore, con il 29,6% del valore del mercato delle esportazioni militari italiane per il 2023, seguito da Rwm Italia (12,8% – una controllata italiana del gruppo tedesco Rheinmetall), Iveco Defense Vehicles (11,2%) e Avio (8,2%).
Si registra per il 2023 l’assenza di Fincantieri nella classifica dei principali esportatori italiani di materiale militare. Questo è dovuto alle peculiarità delle commesse più fruttuose del gruppo – navi di grandi dimensioni – che possono coprire periodi molto lunghi per essere realizzate.
Le prospettive dell’azienda italiana restano comunque solide, come dimostra il recente accordo con la marina militare degli Stati Uniti per la produzione della quinta e sesta fregata classe Constellation per un valore superiore al miliardo di dollari e l’acquisto della linea Underwater Armaments & Systems (precedentemente Wass) di Leonardo, che consolida la posizione dell’azienda anche nel settore degli armamenti subacquei.
Un altro dato rilevante è rappresentato dal fatto che oggi il Bel Paese esporta più armi rispetto a quante ne acquisti: rispetto ai 6,3 miliardi di euro di esportazioni, le importazioni per il 2023 ammontano a 1,25 miliardi. Roma sta infatti capitalizzando la corsa al riarmo globale, traendo profitto dall’aumento delle tensioni internazionali e dal crescente senso di insicurezza che pervade ogni attore geopolitico.
Vecchie e nuove destinazioni dell’export militare italiano
Il mercato della Difesa italiano si sta rimodulando in base alla direzione presa negli ultimi anni dal sistema internazionale: la tendenza alla divisione del mondo in blocchi contrapposti, con i Paesi europei inclini a una maggiore integrazione a livello di sistemi d’arma e produzione militare per far fronte alla percepita minaccia proveniente dalla Russia.
Le conseguenze di questo riassestamento sta portando i Paesi occidentali in particolare a fare affidamento a mercati vicini e venditori affidabili per l’acquisto dei propri sistemi d’arma, oltre che al rilancio dell’industria nazionale. L’effetto, oltre a maggiori commesse per l’Italia da parte del blocco occidentale, è ovviamente anche una maggiore concorrenza in Europa (e in Occidente in generale) nel settore della Difesa.
La Francia, che al momento è il secondo esportatore d’armi al mondo dopo gli Stati Uniti, potrebbe infatti accusare la concorrenza italiana nel settore. Il Servizio europeo per l’azione esterna (Eeas) ha pubblicato nel 2020 una banca dati nella quale compare un dato significativo: i francesi coprono il 70% del mercato estero di armi di tutta l’Ue. Un dato che negli ultimi quattro anni è diminuito e che potrebbe calare ulteriormente nel futuro prossimo a causa della concorrenza dei competitors, in Europa le aziende italiane e tedesche tra tutte.
Riguardo alle prime, nel 2022 Leonardo e Fincantieri hanno superato i 15 miliardi di dollari di fatturato (pari al 12% del giro d’affari in Europa). Si tratta di due grandi imprese multinazionali rispettivamente al 13° e al 46° posto nella classifica Sipri delle prime 100 aziende per fatturato militare.
Il valore azionario di Leonardo ha subito anche un’impennata: da settembre 2021 a dicembre 2023 è cresciuto del 210%. In Italia l’azienda controlla oltre il 70% delle produzioni militari e le esportazioni (intorno al 75%) rappresentano la parte più importante dei suoi ricavi.
Riguardo a Fincantieri, nel 2023 ha acquisito nuovi ordini per 5,5 miliardi di euro (+23% rispetto al 2022). Per giunta, nel febbraio del 2024 Fincantieri e l’Edge group di proprietà degli Emirati Arabi Uniti hanno dato vita a una joint venture per la produzione di navi militari. La sede sarà ad Abu Dhabi e l’Edge group deterrà il controllo del 51% del progetto, mentre alla Fincantieri sarà affidata la direzione gestionale.
Invero, l’Italia continua a macinare affari dalla vendita di sistemi d’arma ai Paesi mediorientali, nonostante gli alleati Nato stiano acquisendo un maggiore peso specifico come principali clienti dell’industria militare della Penisola.
Si tratta di un rapporto cliente-venditore ormai storico. Come riporta il sito della “Rete Pace e Disarmo”, quasi un’arma su quattro prodotta nei nostri confini finisce ancora in Stati del Medio Oriente e del Nord Africa, aree fra le più interessate da conflitti e crisi di vario genere.
Oltre ai clienti occidentali, nel corso del tempo le armi italiane hanno infatti raggiunto luoghi e attori geopolitici alquanto peculiari, che hanno portato a situazioni controverse. Ad esempio, l’anno scorso la fabbrica d’armi Pietro Beretta è stata citata in causa dal governo del Messico, insieme ad altre nove importanti aziende americane, sostenendo che la disponibilità delle loro armi aggrava la guerra della droga messicana in corso dal 2006, che ha già portato alla morte di quasi 400mila messicani.
Alcune delle armi della nota azienda italiana con sede a Gardone val Trompia vendute al Messico sono infatti finite in mano i narcos messicani. Tra il 2010 e il 2020, più di 2.700 armi illegali recuperate dalle autorità messicane sono state identificate come italiane. Si pensa facciano parte delle circa 200mila armi da fuoco vendute al Messico tra il 2006 e il 2018 dalle aziende europee. Più della metà di queste sono infatti state prodotte da due sole aziende: l’austriaca Glock e la già citata Beretta.
Al di la del caso messicano, nel libro “Il Paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata”, scritto da Giorgio Beretta, analista del commercio di sistemi militari e di armi leggere, vengono citate molteplici destinazioni controverse dell’export militare italiano nel corso degli ultimi decenni.
Ad esempio, prima della sua dipartita nel 2011, uno dei principali clienti delle aziende italiane produttrici di armi era il Presidente libico Muammar Gheddafi. Nel 2009, Roma esportò in Libia 7.500 pistole semiautomatiche Px4 Storm, 1.906 carabine semiautomatiche Cx4 Storm e 1.800 fucili Benelli, tutti prodotti dalla bresciana Beretta. Custodite in gran parte nel bunker di Bab al Aziziya, sarebbero poi finite nelle mani degli insorti che nel 2011 rovesciarono il regime.
Un anno prima, nel 2010, l’Italia fornì all’Egitto di Hosni Mubarak 2.450 fucili d’assalto automatici Scp70/90, corredati di 5.050 parti di ricambio. Le forniture di armi non si interruppero nemmeno a seguito della primavera araba del 2011, che portò al potere il leader dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi, anzi aumentarono con l’avvento al potere del generale Abdel Fattah al-Sisi dopo il golpe dell’estate 2013.
La vendita di armi all’Egitto è poi continuata nonostante il dissidio diplomatico tra Roma e il Cairo riguardo l’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni. Nel 2021, Beretta è stata infatti autorizzata a vendere all’Egitto 96 fucili d’assalto Arx-160 e una settimana di corso di formazione per utilizzarli.
Al netto delle molte controversie, quelli citati sono solo alcuni esempi dell’attivismo italiano nel campo della vendita di armi. Nel corso degli ultimi anni, l’Italia ha macinato importanti successi in questo delicato settore, riuscendo a guadagnare commesse milionarie per la messa a punto di avanzati sistemi d’arma: la dimostrazione che la manifattura italiana, il rinomato made in Italy, non si ferma solo all’arte, alla moda e al design.
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