Israele e Palestina sono in guerra. Ancora una volta. Uno dei conflitti più celebri, quasi pop, della storia contemporanea è tornato fuori, come un fiume carsico, pronto a concludersi con una soluzione di compromesso che da qui a qualche anno darà vita a nuovi spettacoli pirotecnici. E poi, passate le due settimane di spettacolo, si avvia a tornare nel dimenticatoio – fino al prossimo, scontato, episodio del conflitto arabo israeliano.
Tra tutti i conflitti del mondo, quello arabo-israeliano ha una particolarità. La capacità di affascinare (e polarizzare) collettività distanti migliaia di km. Scorrendo il feed dei nostri social network vediamo il fiume di opinioni, chiacchere, attacchi feroci e acrobatici cerchiobottismi che una collettività distante e disinformata si sforza di produrre a tutti i costi.
Si tratta per la maggior parte di una critica spicciola, emozionale, che alimenta il ciclo perpetuo della disinformazione su questa sfortunata regione del mondo. Qui scegliamo di considerare le condizioni strutturali, la congiuntura strategica, provando a decostruire nel bagno del realismo i grandi miti del conflitto in Terra Santa.
Che cos’è il realismo?
Di contro alle teorie che tentano di applicare le categorie della morale allo scenario internazionale, per i realisti il punto fondamentale è la distribuzione del potere trai diversi attori del sistema. Il realismo politico parte dall’assunto che il sistema internazionale è un ambiente (ostile) in cui ciascuno degli Stati deve moltiplicare le proprie chances di sopravvivenza.
Se non si rientra in un principio ordinatore unipolare o bipolare l’ambiente è contraddistinto dall’anarchia, assimilabile allo stato di natura hobbesiano, dove gli attori “conducono i loro affari all’ombra di una violenza imperante” (K. Waltz). Il punto fondamentale del realismo (nella sua formulazione moderna del ’79) è la concezione sistemica dello scenario internazionale. Il pianeta è un grande sistema a somma zero, diviso in una marea di sottosistemi variamente collegati. Il coefficiente del potere è sempre lo stesso, cambia solo la sua distribuzione. Guadagnare un vantaggio vuol dire necessariamente farlo a scapito di qualcun’altro, a cominciare dai rivali più vicini.
Di contorno, la semplificazione strutturale (gli Stati sono attori razionali ed unitari, in grado di imporre la propria sovranità su tutti i soggetti interni) e la preminenza degli Stati rispetto agli attori economici transnazionali e alle istituzioni internazionali.
Lo scopo di ogni Stato – ma come sottolinea J. Mearsheimer il realismo è applicabile ovunque sussistano forze che si scontrano – è esser certo di sopravvivere. Si tratta di un calcolo scientifico, cinico, che intende moltiplicare al massimo le proprie possibilità di sopravvivenza. Il mezzo da utilizzare dipende dal contesto, non dalle sue implicazioni umanitarie, morali o religiose.
Si tratta di un’equazione solo in parte scientifica. A viziare la scientificità del calcolo di potenza sta l’impossibilità di stimare le forze dell’avversario, la paura che gli altri attori stiano tramando per farci del male – intuizione che già fu di Tucidide – e le variabili caotiche del sistema, come lo scoppio di un casus belli che fa precipitare un’intera regione nell’agitazione – a
L’ultima precisazione sul realismo che ci sentiamo di fare è che non si tratta di una “strategia” o di un’opzione, ma di una teoria. Per chi segue questa scuola delle relazioni internazionali, tutti gli attori del sistema internazionale agiscono in questo modo – pur dovendo mascherare le proprie azioni dietro pretese “legittime” o comunque giustificabili.
Che cosa è successo in Israele
Un breve recap su cosa è accaduto. I tumulti di oggi in Terra Santa partono da una controversia legale sullo sfratto di alcune famiglie palestinesi a Gerusalemme Est, nel quartiere di Sheikh Jarrah. Il 10 febbraio un tribunale israeliano impone a diverse famiglie residenti di lasciare quelle proprietà per morosità nei confronti del proprietario dei terreni – che per le autorità israeliane è l’organizzazione ebraica Nahalat Shimon, che li ha acquistati nel 2003. Alcuni dei Palestinesi affermano di aver acquistato le terre nel 1991, altri di averli ricevuti dalle autorità giordane. Insomma, un caso ingarbugliato, considerando che Israele è a Gerusalemme Est solo dopo la guerra del 1967.
Per il 10 maggio si attendeva il pronunciamento dell’Alta Corte di Israele, poi rimandato a causa degli scontri – che iniziano quattro giorni prima della sentenza. La polizia israeliana reagisce con durezza, centinaia sono gli arrestati e decine i feriti, mentre la violenza dilaga nella Spianata delle Moschee e addirittura dentro la moschea di Al Aqsa. Negli scontri del 7 maggio, ultimo venerdì di Ramadan, rimangono feriti 300 dimostranti e 17 poliziotti.
Dopo 3 giorni di scontri e repressione, il 10 maggio il gruppo paramilitare Hamas impone alle forze dell’ordine Israeliane di ritirarsi dalla Spianata entro le 18.00. Poco dopo inizia un massiccio lancio di razzi da Gaza contro i principali insediamenti israeliani. L’aviazione risponde con una pioggia di bombe nella Striscia. Da quel giorno ad oggi sono stati lanciati più di 3400 missili dalle milizie, mentre gli aerei dello Stato ebraico hanno colpito circa 750 obiettivi. La conta dei morti sfiora i 300, una decina sono israeliani, il resto palestinesi. Ci vogliono 11 giorni per il cessate il fuoco – raggiunto nella notte del 20 grazie alla mediazione egiziana (e alla benedizione americana)
La situazione, a ben vedere, era già calda da un po’. Israele è nel pieno della battaglia post-elettorale per la formazione del governo, l’ennesima in una manciata di anni. A Gaza Hamas ha appena rimandato (ancora) le elezioni, le prime dal 2006, per paura di perdere il predominio assoluto sulla Striscia. A scaldare gli animi c’è il periodo del Ramadan. Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio diversi episodi di tensione coinvolgono ebrei ortodossi e palestinesi, il 23 aprile una prima salva di razzi dalla Palestina aveva già provocato alcuni strikes di rappresaglia dell’aviazione israeliana, le milizie avevano risposto con l’invio di palloni incendiari.
Terrores multi
Questi sono i fatti. Adesso prendiamo la lente del realismo, analizziamo le ragioni profonde e passiamo al vaglio i principali luoghi comuni – da Instagram stories – sull’ennesimo episodio della crisi arabo israeliana. Premetto che non voglio alterare le simpatie di nessuno, ma fornire gli strumenti per inquadrare razionalmente l’azione degli attori coinvolti.
Partiamo dal tormentone più inflazionato. “Israele non è uno Stato legittimo”. Grande cavallo di battaglia degli anti-sionisti, la questione della legittimità di esistere dello Stato ebraico sulla terra “rubata” ai Palestinesi, non ha semplicemente alcuna ragione geopolitica. Non perché ci sentiamo di affermare la legittimità degli Israeliani a stabilirsi su una terra che prima del ’48 era abitata da altri, ma perché ogni pretesa di legittimità in politica estera è carta straccia – una narrativa come un’altra che ha concretezza di sé solo quando è tenuta in piedi dalla forza militare.
Il legittimismo ha senso solo dove viene inquadrato all’interno di un sistema di Stati che scelgono di darsi delle regole da seguire, nel rispetto delle rispettive pretese di sovranità (evenienza che probabilmente non si è mai verificata nel corso della storia umana). Quando gli attori lavorano invece per la mutua distruzione il legittimismo è uno straccio da agitare per ricevere consenso dal pubblico disinformato di altri paesi.
Quasi ogni Stato moderno nasce su terra confiscata ad altri manu militari. Gli Americani la rubarono ai Pellerossa. I Turchi ai Greco-romani. I Russi alle popolazioni autoctone della Siberia. Gli Arabi ai popoli di mezzo Mediterraneo – si pensi all’Egitto, che a questo punto sarebbe “legittimamente” dei Copti e alla stessa Palestina, sottratta ai Bizantini, già eredi dei Romani che la tolsero agli Ebrei. E così via fino all’alba della storia umana: non esistono popolazioni autoctone, solo occupanti che, vinti gli abitanti precedenti, ne occupano il territorio. È nell’ordine spietato delle cose di questo mondo, la linfa vitale della storia, un corso che non può essere arrestato e che per questo non va demonizzato.
Esuberanza demografica, scarsità di risorse, accesso a mari e vie di comunicazione. Sono tutte ragioni di sopravvivenza che hanno mosso l’azione delle collettività di ogni epoca. Ogni potenza nasce sul male che si è stati in grado di compiere ai danni degli altri. Secondo i realisti non esiste alternativa a questa violenza: se una terra serve a una collettività per sopravvivere, non ci si può fare un problema del diritto degli altri ad abitarla. Prima viene il “noi”, dopo “l’altro”.
I Palestinesi vogliono per loro quella terra e si giustificano con pretese storiche. Gli Israeliani vogliono per loro quella terra e si giustificano con pretese storiche. È uno scontro di obiettivi opposti e contrari, dettate dalla rispettiva volontà di sopravvivere come entità sovrane che non ha una ragione e un torto ma solo un risultato.
Perché i Palestinesi dovrebbero riconoscere le pretese israeliane? Perché gli Israeliani dovrebbero riconoscere le pretese palestinesi? In entrambi i casi cedere all’altro vuol dire ridurre le proprie possibilità di sopravvivenza perché implicherebbe cessione territoriale o di sovranità – evenienza che val bene (per tutti) l’esercizio di violenza su una collettività altra che di certo non si ama.
Per riassumere, quando c’è una terra sola e due attori che la rivendicano, la carta dei trattati lascia il tempo che trova. Nessuno di noi (di certo nessuna collettività) accetterebbe la propria fine in nome di una giustizia avita sancita da una legge che non può imporsi con le armi o (ancora peggio) da ragioni ideologiche e umanitarie. Nella geopolitica o si è leoni o si accetta la propria fine come entità libera. E anche quando si è al vertice del sistema bisogna sempre preoccuparsi di tagliare le gambe a nuovi sfidanti, evitare ad ogni costo di ridurre il proprio gap di potenza – come insegna lo scontro sino-americano.
I sassi contro i carri armati
Si rimarca, poi, la sproporzione di mezzi tra le forze armate israeliane e le milizie di Hamas. Da una parte i razzi fatti in casa, dall’altra gli F-35 e le bombe teleguidate. Posto che l’arsenale missilistico delle milizie palestinesi si è modernizzato ed evoluto negli ultimi anni – grazie all’arrivo di vettori di fabbricazione iraniana – anche questa è un’affermazione priva di cogenza geopolitica.
Quando due collettività vanno in guerra lo fanno, evidentemente, per infliggere al nemico la massima quantità di sofferenza, distruggere le infrastrutture militari e fiaccarne la popolazione fino al punto in cui non è possibile continuare lo scontro. Non si usano premure e non si risparmiano le munizioni. Il sofisticato sistema Iron Dome che protegge i cieli di Israele, i caccia di ultima generazione e i carri Merkava non sono altro che indicatori della distribuzione del potere delle forze in campo – che a sua volta riflette la capacità di Israele di aver adottato strategie di successo a livello diplomatico e militare nei suoi 70 anni di esistenza.
La sproporzione non era così evidente ai tempi della Guerra dei sei giorni, quando il mondo arabo si armò per cancellare Israele dalla mappa – in quel caso di fronte a 200 caccia israeliani, la coalizione araba ne schierava 800 e solo dimostrazioni tattiche incredibili riuscirono ad assicurare la vittoria dello Stato ebraico. Ancora nel 1973, durante la guerra del Kippur, gli arabi contavano più di un milione di soldati contro i 400.00 israeliani.
Di fronte a un nemico debole, come le milizie paramilitari palestinesi, non esiste l’opzione di limitare il proprio potenziale bellico – mossa evidentemente suicida che aumenterebbe le sue possibilità di vittoria e dunque quella di venire sconfitti. Se oggi sono i sassi contro i carri armati (luogo comune esagerato) è perché Israele ha perseguito una strategia migliore, cinica e drammaticamente efficace – obiettivo ultimo della politica estera di ogni Stato.

Le vittime
Veniamo ad uno degli aspetti più controversi del conflitto. Le vittime. La sproporzione trai morti sui due fronti è lampante. Negli ultimi 13 anni a fronte di circa 270 caduti sul fronte israeliano, quasi 6000 Palestinesi hanno perso la vita. E la forbice si allarga a mano a mano che si arriva agli anni più recenti. Nel conflitto in questo momento in corso in Terra Santa a Gaza i morti sono circa 230, almeno 65 bambini. In Israele non si arriva a 15.
Ma cosa racconta questo dato? Fondamentalmente niente che non si sapesse già sul conflitto arabo-israeliano, molto sul fronte dell’atrocità della guerra in sé. Tuttavia, è anche un indicatore della capacità di Israele di difendere la propria popolazione e dell’incapacità delle milizie palestinesi (o la non volontà) di fare altrettanto.
Come ha scritto Adriano Sofri su Il Foglio, l’effetto psicologico quando guardiamo la conta dei morti è devastante “perché si è involontariamente indotti, come di fronte ad ogni sproporzione eccessiva, a desiderare che la forbice si riduca, ciò che può avvenire riducendo le morti degli uni e moltiplicando quelle degli altri” – non ci rendiamo conto che desiderare una conta più equa significa desiderare che un numero maggiore di esseri umani venga ucciso.
E soprattutto, prosegue Sofri, “Gli israeliani vogliono davvero ridurre al minimo le vittime civili, che Hamas ostenta. Non possono essere così disumani né così imbecilli da mirare e colpire i bambini”. Israele sa benissimo che la propaganda di Hamas all’estero si fonda sulle immagini dei piccoli martiri, vero pass partout per arrivare al cuore del borghese occidentale. Un velo di maya che copre la faccia islamista del movimento e la deliberata scelta di concentrare le proprie attività militare in luoghi ad alto rischio di vittime collaterali. Israele mette in conto, cinicamente, che ucciderà innocenti. Hamas fa lo stesso. Strategie razionalmente crudeli e ponderate, nulla al caso.
Le strategie
Passiamo rapidamente in rassegna le strategie degli attori coinvolti.
Israele. Lo Stato ebraico mostra i muscoli, colpendo duramente nella Striscia – forse anche più duramente di quanto sia apparentemente necessario. È il battesimo del fuoco degli F-35, i caccia Lockheed di quinta generazione, l’ennesima verifica passata per Iron Dome. L’aviazione israeliana colpisce più di 750 bersagli a Gaza. Ma le bombe non sono dirette solo ai miliziani di Hamas. Sono messaggi ai nemici di sempre nella regione, Iran, Hezbollah, la Siria e la Turchia. La dimostrazione di forza è spaventosa e sembra dire “i nemici di Israele sappiano bene a cosa vanno incontro”
Sul fronte interno a Tel Aviv si vive una situazione di instabilità politica cronica, figlia di una legge elettorale “proporzionalissima” che costringe i partiti ad acrobazie post-elettorali incredibili. È la quarta volta che si vota in due anni, con buone possibilità di avviarsi alla quinta tornata. La guerra permette di scaricare all’esterno il malessere, compattare il fronte domestico e stringere la popolazione intorno alle istituzioni – con l’eccezione, forse non calcolata, dell’insurrezione dei cittadini arabi, che getta ombre minacciose sul futuro della Sparta del deserto. Netanyahu, intanto, archivia la possibilità di un governo con il partito arabo-israeliano Raam che non avrebbe coinvolto il suo Likud – obiettivo centrato.
Hamas. Il movimento islamista, ipostasi palestinese della Fratellanza Musulmana, ha solo da guadagnare dallo scontro, che pure lo vede sconfitto sul campo di battaglia. Innanzitutto, gli attacchi israeliani hanno fabbricato decine e decine di martiri innocenti che l’organizzazione diffonderà in lungo e in largo su tutti i media, colpendo Israele nell’ecosistema narrativo – dove, in ultima analisi, Israele non può difendersi – emerge qui la volontà, da parte delle milizie, di non preoccuparsi affatto delle sorti della popolazione, che più soffre e più fa gioco.
In secondo luogo, la condizione della guerra permanente permette ad Hamas di continuare lo stato di eccezione, dunque il governo assoluto della Striscia, giustificato come governo di soldati ideale per una società che vive in guerra. Al contempo si accredita come l’unica forza in grado di difendere con le armi la causa palestinese, con un occhio alla Cisgiordania – complice la reazione stanca e in ritardo dell’Autorità nazionale palestinese.
Fino a che Gaza rimane di Hamas i fondi per la ricostruzione e gli aiuti umanitari passano per le mani del movimento islamista. Si tratta di fondi che in buona parte arrivano dal Qatar e della Turchia che nella questione palestinese vedono una questione chiave per restare attori chiave nel Medio Oriente, facendo leva sulla comune identità sunnita. Hamas mette a tacere e stronca sul nascere tutti gli altri attori che nella Striscia vorrebbero farsi interpreti politici della popolazione negletta, magari portando avanti una lotta non violenta. Come ha scritto Umberto de Giovannangeli su Limes, a tutti “combattere costa meno che fare la pace” – tranne alla popolazione di Gaza, sia chiaro.
Nella congiuntura strategica tra Israele e Hamas c’è tutta la tragedia di chi vive nella Striscia. L’egemonia del movimento islamista permette ai decisori dello Stato ebraico di continuare a considerare la popolazione palestinese un nemico pubblico – con il supporto di buona parte dei paesi del mondo – allontanando la prospettiva di una statualità palestinese. Agli Islamisti l’esercito israeliano fornisce legittimazione e ragione di vivere. Machiavellismo ostentato, visibile immediatamente appena dietro il velo di acerrimi nemici che viene continuamente ripresentato all’opinione pubblica. Se non è (cinico) realismo questo.
Sistema Medio Oriente
Ma le vicende della Striscia illuminano anche sul sistema Medio Oriente. Israele colpisce duro sapendo che l’asse della resistenza è in frantumi. La Siria una spianata di rovine, gli Hezbollah provati dagli scontri nel paese di Assad e con il Libano in ginocchio, l’Iraq non è più uno Stato. Le monarchie sunnite ormai sono passate nel campo degli amici di Israele – processo sancito dagli accordi di Abramo benedetti dai Saud – e le timide dichiarazioni di condanna sono più circostanziali che sostanziali. L’Iran è impegnato nel teatrino degli accordi sul nucleare con gli USA e non ha intenzione di esporsi. Sorge ora la stella della Turchia, nemica-amica dei Persiani ma vicina alla questione palestinese, dove Erdogan vede la possibilità di accreditarsi come califfo difensore dell’Islam tout court.

La Turchia però non ha ancora la forza e i piedi a terra (né è detto che li voglia realmente avere) per pensare di opporsi oltre alle durissime dichiarazioni del suo presidente. Per il momento intende fare sapere a Israele che anche la Palestina è un fronte dove Ankara sta giocando, magari per ottenere un approccio più morbido degli Israeliani sui dossier Grecia e Cipro. Sullo sfondo, gli Americani, di nuovo in luna di miele con lo Stato ebraico, pendolo necessario da utilizzare per colpire le potenze in ascesa nella regione – alle volte Teheran, alle volte Ankara.
Insomma, alle volte sembrerebbe che Israele abbia creato la congiuntura perfetta per prosperare in quell’angolo del mondo dimenticato dalla pace, per creare quella che i generali israeliani chiamarono “una villa nella giungla”. Ma non è tutto rose e fiori. Le mura reggono, ma quello che c’è fuori e quello che c’è dentro si agita inquietantemente. I disordini dei cittadini arabo-israeliani in alcune città come Lod e nel sobborgo di Jaffa rivelano che questa fetta di popolazione – il 20% degli abitanti di Israele – è molto meno integrata e non è aliena alla causa palestinese. Un problema considerato l’elevata natalità che li vede aumentare in peso relativo in ogni stima demografica.
Nessuna guerra lampo, infine, può cancellare la condizione strutturale di assediati da parte degli Israeliani. La questione palestinese, a Gaza quanto in Cisgiordania, non può essere risolta con il solo intervento militare dal cielo. Oggi le forze di difesa avrebbero modo di entrare nella striscia ed estirparvi Hamas, come anche di occupare buona parte della Cisgiordania, ma la prospettiva di un’annessione lunga e sanguinosa spaventa terribilmente i decisori israeliani. Ed è proprio per questo che oggi Israele non può festeggiare una vittoria – come invece fanno i Palestinesi nelle strade di Gaza. Lo Stato ebraico mostra al mondo una capacità militare imponente, ma rivela insieme l’impotenza di costruire un futuro realmente privo di minacce alla sicurezza nazionale.
In definitiva, un conflitto di cortesia. Fuochi di artificio che rimandano al prossimo lustro il nuovo scontro, che incorona vincitori nella tattica tutti gli attori coinvolti – che restano sconfitti nella strategia. Ma, più sconfitti di loro, ci sono gli uomini e le donne della Striscia, prigionieri di un ingranaggio che li vede alternativamente martiri da vendere all’industria culturale e prima linea di difesa, di carne e sangue, delle rappresaglie israeliane.