Lo scorso 23 aprile 2024 il Parlamento europeo ha approvato il nuovo patto di stabilità e crescita a larghissima maggioranza, provvedimento controverso che avrà pesanti ripercussioni sulle vite di tutti i cittadini italiani.
In Italia, tuttavia, cioè nel Paese dove il confine tra farsa e realtà è sempre piuttosto labile, il voto non assurge alle cronache nazionali per le future ricadute sociali ed economiche sui conti pubblici e sulle tasche dei cittadini bensì per una mordace battuta del commissario Paolo Gentiloni: “Abbiamo unito la politica italiana.”
Andando a vedere il pallottoliere dell’Eurocamera, si nota come le forze politiche italiane hanno miracolosamente assunto una posizione comune: si sono astenute con la sola eccezione del M5S che ha votato contro. Per di più in contrasto con le indicazioni provenienti delle famiglie europee di appartenenza.
Da dove nasce questa comunione di intenti? Di primo acchito, potrebbe venir da pensare che le forze politiche abbiano votato compatte in nome dell’interesse nazionale. Causa nobile e ancor più nobilitata dalla vulgata sovranista e nazional-popolare sempre più in voga nell’establishment italiano.
Il nuovo patto di stabilità, come ogni normativa dell’Unione Europea, è frutto di un difficile e centellinato compromesso intergovernativo tra forze politiche e istanze nazionali diverse e per nulla convergenti. Tra i punti più controversi della misura e particolarmente indigesti per la politica italiana, ci sono gli obiettivi di riduzione del debito pubblico.
Infatti, gli Stati membri con un debito superiore al 90% del Pil devono ridurre le proprie passività in media dell’1% all’anno. Clausola meno stringente di quella presente nel precedente accordo che però non era stata mai applicata. Rimangono, invece, gli arbitrari tetti su disavanzo e debito pari al 3% e al 60% del Pil. Parametri che pongono l’Italia e altri dieci stati membri a rischio procedura d’infrazione.
Contrastanti sono state le reazioni dei partiti europei al nuovo patto di stabilità: se per socialisti, popolari e liberali la nuova normativa è un buon compromesso, per verdi, sinistra radicale e destra sovranista, invece, rappresenta un ritorno alle politiche di austerity e ad un’Europa poco attenta alle dinamiche sociali e concentrata solo sul rigore dei conti pubblici.
La posizione dei partiti italiani potrebbe avere dunque delle motivazioni legittime: il nuovo patto di stabilità svantaggia l’Italia, non lo votiamo. Ma allora perché astenersi e non votare contro? E qui inizia la grande commedia, non in senso dantesco ma carnascialesco.
Il voto dei partiti italiani
I partiti italiani si sono astenuti in base a meri calcoli politici. Altro che difesa dell’interesse nazionale. Nel difficile compromesso che ha portato al nuovo patto e che ha dovuto tenere in considerazione gli interessi politici di Paesi frugali e Paesi meno frugali, popolari e socialisti, conservatori e verdi, europeisti ed euroscettici, sono stati coinvolti tre importanti attori politici italiani: Giorgia Meloni, Giancarlo Giorgetti e Paolo Gentiloni, rispettivamente in quota FdI, Lega e PD.
Tutti e tre hanno difeso il nuovo patto come il miglior compromesso raggiungibile per l’Italia. Giorgia Meloni lo ha fatto addirittura in Parlamento. Paolo Gentiloni in quanto Commissario Europeo all’Economia può essere indicato come uno degli autori del nuovo patto. Giancarlo Giorgetti come Ministro dell’Economia italiano è invece colui che ha negoziato in nome dell’Italia.
Ecco dunque spiegato il primo arcano di questa vicenda: i partiti italiani si sono astenuti perché votare contro significava sconfessare il proprio esponente. Resta da capire perché non hanno votato a favore. Anche qui la spiegazione è da ricercare nel mero calcolo politico: a un mese dalle elezioni europee, per i partiti, esporsi sul fronte delle regole europee è un suicidio politico.
In particolare, per quell’area sovranista di cui prima. Così è la Lega a dare il via alle danze, comunicando la propria astensione. In contrasto con la propria famiglia europea, tra l’altro, che vota contro. Da lì è una cascata di giravolte.
Per inseguire il riottoso alleato di Governo e non esporsi alla propaganda leghista, decidono di astenersi anche FdI e Forza Italia, entrambe in dissenso dal proprio gruppo europeo con i conservatori che votano contro e i popolari che votano a favore.
Non meno felice la situazione sull’altro lato della barricata dove il PD, tra i mugugni della minoranza interna, si astiene andando contro al proprio esponente in Commissione Europea e al gruppo dei socialisti che vota a favore. La regione è semplice e speculare a quella a destra: non esporre il fianco al M5S che vota contro.
Infine, si astengono anche i gruppi di Italia Viva e Azione sempre in dissenso dal gruppo europeo di appartenenza, i liberali, che invece votano a favore. Se fossimo nella Commedia di Dante, saremmo nell’antinferno, tra gli ignavi.
Ma siamo davanti a ben altro tipo di farsa, una farsa che rischia di minare l’immagine dell’Italia che passa non solo come Paese che non vuole impegnarsi a onorare i propri debiti ma anche come paese poco serio, non in grado di assumere posizioni politiche certe.
L’orizzonte corto della politica italiana
Insomma, il gran carnevale italiano andato in scena in Europa ha come propria ragion d’essere il l’opportunismo politico legato alla ravvicinata scadenza del voto. E, per carità, è anche naturale che i partiti politici pensino al proprio tornaconto elettorale. Ma in Italia questo atteggiamento sta iniziando ad assumere proporzioni allarmanti per due ordini di motivi: primo, si vota in continuazione; secondo, la politica italiana è gravemente ammalata di populismo.
Per quanto riguarda il primo punto, la dimostrazione plastica dell’esistenza di un calendario elettorale senza soluzione di continuità è sotto gli occhi di tutti. Si è votato per la Sardegna il 25 febbraio, per l’Abruzzo il 10 marzo, per la Basilicata il 21 aprile. Si voterà per le Europee e per il Piemonte l’8 giugno mentre, sempre nel 2024 ci saranno le elezioni in Umbria anche se ancora non è stata decisa una data.
A questo calendario elettorale impazzito, che si ripete più o meno ogni anno, si aggiungono la spettacolarizzazione e la bulimia informativa della politica del nuovo millennio che dipingono ogni elezione come dirimente per le sorti del Governo, del partito o del Segretario di turno.
In questo clima, i partiti politici vengono spinti in una costante e continua campagna elettorale che li porta ad anteporre messaggi e decisioni più appetibili per il proprio elettorato di riferimento e meno attente non solo all’interesse generale del paese ma anche al perseguimento dei propri obiettivi politici di lungo termine.
Questo pone le forze politiche in un orizzonte corto, cioè in una prospettiva temporale completamente schiacciata sul presente che tende ad escludere il passato ed il futuro. E non è un caso che negli ultimi anni si siano esacerbate le polemiche e le contrapposizioni sul 25 aprile, sulla Resistenza e in generali sui valori antifascisti della nostra Costituzione. Questo processo non è solamente il frutto dell’arrivo di FdI alla Presidenza del Consiglio dei ministri ma anche dell’utilizzo del passato come arma appiattita sul presente.
Se si volesse davvero aprire in Italia un dibattito su cosa siano stati il Fascismo e la Resistenza non si assisterebbe a teatrini, reciproche accuse e polemicucce da bocciofila il cui unico scopo non è un’analisi del passato ma l’uso del passato come strumento politico per il presente.
E, specularmente, un serio dibattito strategico sulle linee di politica interna ed estera che il Paese dovrebbe affrontare per superare il difficile scenario demografico, economico e geopolitico in cui l’Italia versa, non è semplicemente possibile poiché l’orizzonte corto spinge le forze politiche a guardare alla prossima (ravvicinata) scadenza elettorale.
L’appiattimento sul presente è legato al secondo fattore che spinge le forze politiche ad agire solo in base a calcoli politici: il populismo. Dal 1994, in Italia, l’afflato populista declinato sia nella sua versione giustizialista-moralista (Questione morale, Tangentopoli, M5S) sia nella sua versione moderata-garantista (Berlusconi e Renzi), ha dominato il dibattito pubblico.
Questo perché si è dimostrato essere l’approccio comunicativo più efficace nell’orizzonte corto delle forze politiche, capace di veicolare un messaggio semplice, diretto e rivolto a solleticare i bisogni e i timori più immediati della gente.
La deriva populista spinge la politica italiana a rinunciare a quella funzione di guida che dovrebbe essere la caratteristica peculiare di ogni élite e di ogni ceto dirigente all’interno di un’organizzazione umana, sia essa uno Stato o qualsiasi altra forma di organizzazione.
In Italia è sempre più vero il contrario e i ceti dirigenti stilano la propria agenda politica in base alla spendibilità elettorale delle proposte, abdicando di fatto al compito di indirizzare la comunità. Tale fenomeno non riguarda soltanto la classe politica ma il ceto dirigenziale in generale a cominciare da giornalisti e intellettuali.
Tornando al voto sul nuovo Patto di stabilità, l’opportunistica presa di posizione delle forze politiche italiane sembra rientrare a pieno in questo schema. Appiattiti su un eterno presente, attenti soltanto alle variazioni percentuali delle preferenze nei sondaggi, immemori e incapaci di progettare un futuro, con questo atteggiamento i partiti italiani condannano il nostro Paese a rimanere ostaggio del presentismo.
Una farsa che mira soltanto a fare rumore e a generare caos e che però, come ogni vero Carnevale, si limita a durare il tempo dell’oggi senza generare cambiamenti o avere ripercussioni durature. Un paese senza nocchiero in gran tempesta. Ma quella era un’altra Commedia.
In copertina, Il Parlamento Europeo, credit to: Wikipedia Commons