La BCE ha recentemente annunciato la fine del Quantitative Easing, insieme all’aumento dei tassi di interesse, a partire da luglio, di 25 punti base. L’annoso dibattito sulla condotta della politica monetaria europea è tornato alla ribalta. Gli schieramenti sono principalmente due: chi vorrebbe mantenere una politica monetaria espansiva e allentare o, addirittura, eliminare qualsiasi vincolo al tasso d’inflazione e al rapporto deficit/PIL (una riforma del patto di stabilità) e chi vorrebbe invece una rigida disciplina fiscale e monetaria e il ritorno agli indiscutibili dogmi del PSC.
Fanno parte del primo schieramento gli Stati dell’Europa meridionale (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia; in parte anche la Francia). In Italia il dibattito è particolarmente sentito, espresso dall’attività dei partiti populisti (ex) euroscettici. Del secondo schieramento fanno parte gli Stati del nord Europa, i c.d. “paesi frugali” (originariamente Austria, Olanda, Danimarca e Svezia, poi diventati otto con Lettonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Finlandia).
Questi, generalmente contrari al recovery plan, traditi dalla Germania, promotrice del piano, condividono una linea di condotta “frugale” riguardo le questioni di finanza pubblica e politica monetaria. Berlino è sempre stata una fedelissima dell’austerity e il suo appoggio al recovery non era per niente scontato. La Repubblica federale, infatti, si è sempre fatta portabandiera di quegli “ideali economici” volti all’austerità e alla disciplina fiscale.
L’inflazione nella Germania di Weimar
Il trauma dell’iperinflazione durante la repubblica di Weimar condiziona tutt’oggi le scelte di politica economica tedesche che, inevitabilmente, si riverberano sulle scelte di politica economica Europee.
Nel 1914, all’inizio della prima guerra mondiale, la Germania abbandona il gold standard (sistema di cambio fisso basato sulla convertibilità della valuta in oro al fine di mantenere contenuto il livello di inflazione) per stampare moneta (papiermark) per assecondare gli sforzi bellici. L’impero tedesco era convinto di uscire vittoriosa dal conflitto, ristabilire il sistema aureo e ripagare il debito attraverso i futuri risarcimenti di guerra che avrebbe riscosso dai nemici sconfitti.
La storia andò in modo diverso e la Germania, nel frattempo diventata repubblica di Weimar, somma al problema del grande debito accumulato durante gli anni del conflitto le enormi riparazioni imposte dai vincitori. Berlino cerca di estinguere i debiti di guerra stampando ulteriore moneta, senza tenere conto delle riserve d’oro che avrebbero dovuto garantire la valuta, e questo non fa altro che alimentare la svalutazione della moneta. L’incapacità della Germania di far fronte alle riparazioni spinge la Francia a occupare la Ruhr (cuore industriale della Germania) a titolo di garanzia.
È nel biennio 1922-1923 che la Germania sperimenta i più alti tassi di inflazione: nell’autunno 1922 occorrevano 4.500 marchi per acquistare un dollaro, all’inizio del 1923 ne occorrevano 6.890, mentre alla fine del 1923 ne occorrevano 4.200 miliardi. Solo con l’immissione di una nuova moneta (Rentenmark) si riuscì a frenare l’inflazione.
L’analisi storica, per quanto scheletrica, rende eloquente la tragicità di quegli anni. Uno Stato uscito sconfitto dalla guerra, umiliato e caduto in una crisi economica drammatica, che sarà poi corroborata dalla grande depressione del ’29. Gli anni ’20 in Germania sono anni traumatici, contraddistinti dall’instabilità, che sono rimasti impressi nelle menti dei Tedeschi e tutt’oggi ricordati con grande timore.
L’influenza sul presente
Dopo la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, la situazione finanziaria tedesca è gradualmente migliorata, sperimentando negli anni un rapporto deficit/Pil tra i più bassi dei grandi Stati europei. Ci sono stati periodi di maggiore deficit, ma sono sempre stati rapportati a congiunture esterne e mai al mutare delle coalizioni governative. La disciplina fiscale si è radicata nello spirito della nazione tedesca e la politica, espressione di tale spirito, non la influenza, se non marginalmente.
Alcuni esempi: nel 2003 la Germania è considerata la “malata d’Europa” per gli alti livelli di disoccupazione e il rapporto deficit/Pil superiore ai parametri di Maastricht. L’opinione pubblica ne risente e le forze politiche mettono in atto uno sforzo nazionale coordinato per risollevare le finanze pubbliche. Questo non causa una recessione ma, anzi, un leggero miglioramento della situazione economica dello Stato.
Un secondo esempio è costituito dal “freno del debito” (Schuldenbremse). Si tratta di un emendamento all’art. 109 della costituzione tedesca. Approvato a larga maggioranza nel 2009. È un meccanismo che introduce in costituzione il pareggio di bilancio. In condizioni “normali” è permesso un deficit non oltre lo 0,35% del PIL. In questo modo la Germania è riuscita a ridurre il suo debito, creando frequenti avanzi di bilancio.
Un ultimo esempio è la scelta adottata dall’ex governo di Angela Merkel nel 2020. Di fronte alle poche risorse del Next Generation EU destinate alla Germania, l’allora cancelliere decise di utilizzarle per la riduzione del debito pubblico. Nessuna opposizione dal ministero delle Finanze (allora presieduto dal neo-cancelliere Scholz).
Attraverso queste scelte la Germania è riuscita ad affrontare, mediamente meglio rispetto agli altri Stati europei, la pandemia. Il registrarsi, negli anni, di avanzi di bilancio e il mantenimento di un debito pubblico relativamente basso, non hanno creato problemi di spesa pubblica. In questo modo la Repubblica Federale è riuscita ad aiutare lavoratori e le imprese in maniera efficace. È anche questo uno dei motivi per cui una politica fiscale “prudente” è vista di buon occhio dall’opinione pubblica ed è anche spesso associata a situazioni di benessere piuttosto che di recessione.
La tesi dell’iperinflazione non pretende di essere l’unica spiegazione alla disciplina fiscale tedesca. Sicuramente contribuisce anche un senso civico particolarmente sviluppato (non creare debito che gravi sulle future generazioni). Tuttavia rimane centrale l’idea che le caratteristiche di una collettività, e i paradigmi da essa adottati, abbiano le loro radici più profonde nella storia. Difficile non individuare, nella parabola storica di ogni nazione, delle macchie indelebili: traumi e cleavages che condizionano e spiegano il presente meglio di qualsiasi altra cosa.