In seguito alla seconda guerra mondiale e alla spartizione dell’Europa in due blocchi risultante da Yalta, le vie che si aprivano per il futuro del continente erano fondamentalmente tre: l’adozione di un regime comunista (ciò che successe giocoforza nell’Europa dell’est), lo smantellamento totale dell’apparato industriale tedesco e lo smembramento della Germania per eliminare alla radice il neo che rendeva fragili gli equilibri nell’Europa continentale da quasi cento anni, convertendola in un’economia agricola e pastorale (il piano Morgenthau), e, per ultimo, l’integrazione europea. Alla fine si optò, come è noto, perlomeno in Europa occidentale, per quest’ultima soluzione, lasciando una Germania, seppur divisa, forte, militarizzata e industrializzata.
Il processo di integrazione europea è stato lungo, e non è ancora terminato. Dal punto di vista esclusivamente economico, un’integrazione economica procede attraverso diversi gradini: il primo, quello più debole, è la creazione di un’area di commercio preferenziale, ovvero una mutua riduzione dei dazi doganali, il secondo è l’area di libero scambio, il terzo è l’unione doganale (custom union), ovvero l’adozione delle stesse tariffe verso i prodotti provenienti da un paese terzo, il quarto è il mercato unico (ovvero il libero movimento di merci, capitale e lavoro), il quinto è l’unione monetaria (l’adozione di una valuta comune) e il sesto e ultimo è l’unione economica, ovvero una totale coordinazione di politiche economiche, comprese quelle fiscali. Dopo il trattato di Maastricht, l’integrazione economica europea è arrivato al quinto gradino, e sembra che la via per arrivare al sesto si sia paralizzata.
E’ inutile girarci attorno, negli ultimi anni la questione centrale sollevata dai partiti sovranisti ed euroscettici è quello della moneta unica, che secondo questi ultimi avrebbe causato squilibri nel saldo delle partite correnti tra i paesi europei (ovvero il saldo della bilancia commerciale sommato a quello dei servizi, redditi primari e secondari e trasferimenti unilaterali correnti), dato che, per il fatto di essere una moneta forte, avrebbe favorito l’export tedesco (infatti il tasso di cambio dell’euro è molto simile a quello del marco) e sfavorito quello di altri paesi che erano dotati di monete più deboli, diminuendo quindi la competitività dei loro prodotti. Il risultato è quindi che le economie del nord Europa ottengono surplus nel saldo delle partite correnti, mentre quelle del sud deficit che vengono finanziati dalle economie del nord, costringendo quindi i paesi del sud ad indebitarsi ancora di più, creando un circolo vizioso che alimenta sempre di più questi squilibri. Questa può essere un’argomentazione piuttosto convincente, a cui probabilmente si dedicherà un articolo apposito in futuro, ma che tuttavia non spiega tutto.
Uno dei vantaggi della fine dell’era delle svalutazioni competitive (ovvero l’impossibilità, in presenza di un regime di cambi fissi, di ridurre il valore della propria moneta per rendere i propri prodotti più competitivi nel mercato internazionale) è il fatto che traspare con chiarezza quali paesi siano veramente più competitivi di altri per via della loro maggior produttività (che è data dalla combinazione di tre fattori produttivi: capitale, lavoro, tecnologia), senza poter “barare” attraverso meccanismi di dumping sociale; e in termini di produttività, intensità di capitale e livello tecnologico, nonché di capacità di innovazione, la Germania è certamente sopra paesi come Italia, Spagna, Grecia o finanche la Francia. Insomma, la fine dell’era delle svalutazioni competitive mette finalmente in luce tutti i problemi strutturali di economie ormai stantie e senza capacità di innovazione né di sufficiente accumulazione di capitali.
Ma perché si è arrivati a concepire l’idea di una moneta unica? Fondamentalmente per il fallimento del precedente Sistema Monetario Europeo. Occorre innanzitutto, prima di proseguire, fornire un paio di accenni storici e una spiegazione di un principio fondamentale dell’economia politica: il trio inconciliabile (o trilemma di Mundell-Fleming). Questo stabilisce che è impossibile che in un’economia sussistano questi tre elementi simultaneamente: perfetta mobilità dei capitali, controllo del tasso di cambio (ossia un regime di cambi fissi) e autonomia nella politica monetaria. Ora, sappiamo che dall’inizio degli anni ’70 il sistema stabilito alla conferenza di Bretton Woods (1944), basato sulla convertibilità dell’oro in dollaro e sulla fissazione di tutte le altre valute a quest’ultimo in un regime di cambi fissi, era giunto a termine. C’era bisogno pertanto di trovare un nuovo sistema che potesse stabilizzare le valute affinché i paesi europei riacquistassero la credibilità nei mercati finanziari e non fossero bersagli facili degli speculatori (che guadagnano nel comprare e vendere valute diverse, in modo da ricavarci sulla differenza tra i diversi tassi d’interesse, dato che in un regime di tassi di cambio flessibili non sempre la condizione della parità dei tassi di interesse tra le diverse valute viene rispettata, ciò è detto arbitraggio).
Dopo un breve tentativo fallito con il “serpente monetario”, si venne a creare, nel 1979, il Sistema Monetario Europeo (SME). Lo SME funzionò bene fino agli anni ’90, quando il processo di unificazione tedesca cominciò a far aumentare le tendenze inflazionarie e a spostare sempre più capitali verso la Germania per finanziare il suddetto processo. Finché si arrivò al cosiddetto mercoledì nero. A causa dell’eccessivo indice di liquidità monetaria in Germania, dovuto alla riunificazione tedesca e al cambio alla pari tra marco dell’ovest e dell’est, la Bundesbank fu costretta ad alzare i tassi d’interesse che a metà del 1992 arrivarono al 10%.
Quando la Germania, in quel momento il paese finanziariamente ritenuto più stabile e solvibile al mondo, alzò i suoi tassi a livelli così elevati, molti cominciarono a comprare marchi e Bund tedeschi, dato che costituivano un investimento sicuro e ad alta remunerazione. I capitali esteri che affluirono in Germania causarono da un lato la rivalutazione del marco ma dall’altro la svalutazione delle altre monete. Da una parte i tassi tedeschi attirarono capitali da molti paesi, soprattutto da quelli deboli, dall’altro i timori sul proseguimento dell’unificazione europea portarono a un aumento del rischio percepito sulle economie più deboli del continente, che si sarebbero trovate totalmente isolate se l’unificazione fosse fallita. Quindi i paesi deboli europei erano vittime di due movimenti monetari avversi: attrazione di capitali verso la Germania e paura sulla tenuta delle loro economie. In quel momento il paese più debole dello SME era l’Italia, dato che durante gli anni ’80 aveva accumulato un debito pubblico enorme, disavanzi pubblici costanti e un differenziale inflattivo col resto dei paesi SME che, sebbene fosse calato, rimaneva elevatissimo. Questo causò una fuga di capitali dall’Italia e di conseguenza il crollo della lira, con la conseguente uscita dell’Italia dallo SME. I trasferimenti cominciarono a giugno del 1992 e toccarono il picco a settembre, quando avvenne la svalutazione. I capitali bancari italiani dirottati all’estero furono pari a 25.900 miliardi di lire e il governo Amato fu costretto a prelevare soldi forzosamente dai conti correnti degli italiani per riequilibrare i conti pubblici. L’uscita della sterlina inglese dallo SME fu causata alla stessa dinamica, cioè dal differenziale inflattivo accumulato e dal richiamo dei tassi tedeschi (la differenza con l’Italia è che mancava la crisi da debito).
Per controllare quindi le tendenze inflazionarie, aumentare la fiducia degli investitori, proteggersi dagli attacchi speculativi e dalle crisi valutarie e ristabilire la credibilità delle economie europee, fu deciso di creare l’euro e il sistema che l’avrebbe controllato: l’Eurosistema, composto dalla Banca Centrale Europea, indipendente dai governi, e le banche centrali dei vari paesi nell’eurozona. Lo scopo primario dell’Eurosistema è quello di controllare la stabilità dei prezzi. L’indipendenza della BCE serve a fare in modo che i governi non possano cedere alla “tentazione” di stampare moneta per monetizzare il debito (la BCE quindi non può agire come prestatore di ultima istanza) e a garantire quindi la credibilità dell’intero sistema agli occhi dei mercati finanziari, oltre che per evitare tendenze inflazionarie (uno dei più frequenti difetti della monetizzazione del debito).
Fin qui sembra tutto logico e ben ponderato. Ma c’è un aspetto che non abbiamo considerato ancora, ovvero se l’eurozona sia un’area valutaria ottimale, ovvero se l’economia e la moneta comune riescono a rispondere ai cosiddetti shock asimmetrici, ossia, per esempio, il calo della domanda di un bene in un paese più che in un altro (per cui in questo caso il paese affetto dal calo della domanda dovrebbe svalutare per evitare la deflazione e quindi la recessione, ma facendo così causerebbe inflazione nell’altro paese non coinvolto dal calo della domanda, se entrambi adottano la stessa moneta).
Un’area valutaria ottimale si dà secondo 3 criteri economici e 3 politici. I criteri economici sono: 1)perfetta mobilità del lavoro, 2)apertura al mercato, 3)diversificazione sufficiente dei prodotti; mentre quelli politici sono: 1)disponibilità a compensare chi viene affetto da uno shock asimmetrico attraverso trasferimenti fiscali, 2)omogeneità delle preferenze, 3)accettazione di un comune destino e quindi disponibilità ad accettare sacrifici in nome di un bene e un interesse comune. Ciò che è certo è che l’UE non possiede l’ultimo criterio, dato che l’integrazione economica si è verificata molto prima dell’unione politica che non è ancora avvenuta. L’UE inoltre non possiede nemmeno il criterio di compensazione, essendo la politica fiscale competenza dei singoli Stati.
Riguardo all’omogeneità nelle preferenze (in particolare sulle politiche monetarie e fiscali che i singoli Stati vogliono seguire), la questione è ambigua, ma non si può di certo nemmeno dire che questo criterio sia sufficientemente soddisfatto, e men che meno è soddisfatta la mobilità perfetta del lavoro, dato che le barriere nazionali e culturali sono ancora troppo elevate. Ne deduciamo quindi che l’eurozona non è un’area valutaria ottimale, e l’adozione di una moneta unica provoca, pertanto, inefficienze e, soprattutto, rende molto più lento e doloroso l’aggiustamento dei prezzi in base a variazioni della domanda rispetto ad un sistema di tassi di cambio variabili.
Un altro nodo cruciale è l’indipendenza della Banca Centrale Europea con rispetto alle altre istituzioni politiche europee, il che significa che i paesi europei non possono dettare alla BCE una politica economica, e neppure la BCE può finanziare il loro debito comprando direttamente i loro titoli di Stato (dato che la BCE può compiere solo operazioni di mercato aperto, ovvero acquistare titoli nei mercati secondari, cioè, in parole molto semplici, quelli dove si comprano e vendono titoli già emessi che vengono rivenduti). La ratio di queste limitazioni, come spiegato prima, è quella di contenere l’inflazione. Per statuto, infatti, la BCE ha il solo compito di mantenere l’inflazione nell’eurozona attorno al 2%. Tale parametro fu voluto fortemente dalla Germania, forse per via del timore atavico dei tedeschi, motivato da ragioni storiche, verso i fenomeni iper-inflattivi.
Il problema sostanziale qui è questo: l’esistenza di un trade-off tra inflazione e debito pubblico, due problemi che il nostro paese del resto ha conosciuto bene durante tutta la sua storia dal dopoguerra in poi. Per generare una rapida crescita nel breve o medio periodo, infatti, uno Stato ha a disposizione due vie: farsi finanziare i disavanzi, ottenuti come conseguenza delle politiche fiscali espansive, dalla propria banca centrale emettendo moneta (monetizzazione del deficit) in modo da sostenere gli investimenti statali a sostegno dell’economia e guadagnare sul signoraggio a costo di aumentare l’inflazione (che è una vera e propria tassa con effetti redistributivi a svantaggio dei creditori e a vantaggio dei debitori) per via di un aumento della moneta in circolazione, oppure ricorrere all’emissione di titoli di stato che possono venire comprati da diversi investitori, generando debito ma mantenendo stabili i prezzi. Venendo a mancare la prima opzione, poiché lo statuto della BCE vieta la monetizzazione dei deficit dei singoli Stati membri, gli Stati europei sono costretti a rigide politiche fiscali per mantenere in ordine i conti pubblici, sulla base dei vari trattati europei, per non aumentare il loro rapporto debito/PIL a livelli insostenibili (come era successo all’Italia negli anni ’80 dopo il famoso divorzio con la Banca d’Italia).
Parametri ultra-restrittivi vennero imposti, su insistente pressione della Germania, già nel Patto di Stabilità e Crescita del 1997, in particolare quelli di avere un disavanzo pubblico non superiore al 3% e un debito pubblico inferiore al 60%. In seguito vennero riformati o ridiscussi più volte (la Germania proponeva addirittura nel 2010 di revocare il diritto di voto di quei paesi membri che non rispettassero i vincoli di bilancio, riferendosi in particolare alla Grecia), fino ad arrivare all’odierno fiscal compact, contenente parametri ancora più restrittivi. In molti hanno sottolineato, molto prima di questo articolo, che le ragioni per cui l’Europa rimanga in una fase di crescita modesta e con un tasso di disoccupazione molto elevato, mentre gli Stati Uniti si siano ripresi abbastanza agilmente dall’ultima Grande Depressione, sono da ricondurre soprattutto alla rigidità dell’Eurosistema e dei parametri europei nell’attuare politiche monetarie e fiscali capaci di contrastare controciclicamente gli effetti della crisi.
In definitiva, possiamo affermare, dopo questo breve excursus sulle principali problematiche derivanti dall’adozione dell’euro, quanto segue: “La spinta per l’Euro è stata motivata dalla politica, non dall’economia. Lo scopo è stato quello di unire la Germania e la Francia così strettamente da rendere una possibile guerra europea impossibile, e di allestire il palco per i federali Stati Uniti d’Europa. Io credo che l’adozione dell’Euro avrà l’effetto opposto. Esacerberà le tensioni politiche convertendo shock divergenti che si sarebbero potuti prontamente contenere con aggiustamenti del tasso di cambio in problemi politici di divisioni. Un’unità politica può aprire la strada per un’unità monetaria. Un’unità monetaria imposta sotto condizioni sfavorevoli si dimostrerà una barriera per il raggiungimento dell’unità politica”
Ciò veniva detto ancora nel 1997 dal premio nobel per l’economia Milton Friedman, qualche anno prima che l’euro facesse la sua effettiva comparsa. E in effetti se guardiamo agli avvenimenti degli ultimi 20 anni, risulta evidente che l’Eurosistema abbia fallito, sia nel portare crescita e sviluppo a tutti i paesi europei, sia nel rispondere con efficacia e prontezza alla Grande Depressione del 2008. Tutte le previsioni di Friedman si sono rivelate profetiche: l’ulteriore rafforzamento dell’asse tra Francia e Germania (i due paesi che, ad oggi, sono tra i più europeisti e meno devono preoccuparsi di possibili stravolgimenti dei propri scenari politici, anche grazie a istituzioni e sistemi elettorali che favoriscono nettamente lo status quo), l’inasprimento delle divisioni politiche tra e dentro i paesi europei, l’emergere di partiti sovranisti di destra di massa, che hanno trovato specialmente in Italia il proprio laboratorio politico. E’ l’Italia infatti la prima grande potenza europea (all’infuori del Regno Unito, che però costituisce un esempio atipico in quanto l’euroscetticismo è sempre stato presente anche in partiti “del sistema” come i conservatori) dove i sovranisti sono andati al potere e dove ancora oggi sono sistematicamente in testa ai sondaggi, confermandosi quindi nel tradizionale ruolo di paese anticipatore di tendenze culturali, come già accadde con l’Umanesimo e il Rinascimento, e ancora a inizio secolo scorso durante il primo dopoguerra.
In particolare oggi questo ruolo sarebbe propiziato dal suddetto rafforzamento dell’asse franco-tedesco che vede, come era inevitabile, l’esclusione dell’Italia dal club dei paesi leader del processo di integrazione europea, relegandola all’essere una potenza di second’ordine come la Spagna, e quindi provocando un tanto giustificato quanto sano desiderio di rivalsa in seno alle classi medie italiane che, ora più che mai, esprimono al voto tutto il loro disagio e la frustrazione verso un sistema per il quale sono state, nel corso degli ultimi 30 anni, gravemente impoverite.
Per concludere, si è descritto brevemente il contesto storico e i vari problemi che spinsero all’ideazione e all’attuazione della moneta unica, ma allo stesso tempo si è visto come la sua creazione abbia recato con sé alcuni problemi che ancora oggi paiono insanabili e che forse, con il sistema attuale, non verranno mai superati. Non è tuttavia in questo luogo che si intende discutere sull’opportunità di un’uscita dall’euro, soluzione che, allo stato attuale delle cose, porterebbe forse, per l’Italia, a conseguenze ben peggiori rispetto a una permanenza nell’eurozona, soprattutto in assenza di valide alternative (lasciando da parte i tempi della Prima Repubblica che erano basati su una crescita che comportava un aumento spropositato dell’inflazione o del debito e quindi non sostenibile nel lungo periodo).
di Riccardo Calabretta