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Iran: inflazione ai massimi storici

In Iran l'inflazione ha raggiunto il picco storico, il paese deve far fronte a nuove sanzioni e proteste sempre più frequenti

Sono picchi preoccupanti quelli raggiunti in Iran dall’inflazione tra il giugno e il luglio 2022, riportati dal Statistic Center of Iran (SCI), la principale agenzia statistica di Teheran. Se tra il novembre 2021 e l’aprile 2022 il paese ha registrato una certa stabilità, con un’inflazione oscillante tra il 34,7 e il 35,7%, una risalita nel mese di maggio che l’ha portata al 39,3% fino all’impennata del 52,5% di giugno. 

In Iran l’inflazione tocca cifre record

Sempre lo SCI ha previsto un’inflazione media ferma al 50% almeno fino all’aprile 2023, quando finirà l’anno iraniano, più ottimista è la Banca Mondiale che ha stimato una percentuale pari al 40,7%. Inoltre Henry Rome (economista presso la società di consulenza sul rischio statunitense Eurasia Group) in un suo tweet ha evidenziato un tasso d’inflazione mensile, ossia la variazione dei prezzi in un paniere prestabilito di beni nell’arco di 30 giorni, del 12,2%. 

Tutte le principali categorie di consumo dei cittadini iraniani hanno conosciuto una crescita dei costi, più o meno sensibile, rispetto all’aprile 2019: alloggi e servizi pubblici si attestano ora al 31,4%; i trasporti sono al 43,1% ma l’innalzamento più evidente riguarda il prezzo di cibo e bevande analcoliche che ha subito un’accelerazione pari all’82,6%.

Vecchie sanzioni statunitensi

Una delle cause riguarda le sanzioni statunitensi contro la Repubblica islamica. Già dal 1995, Washington vieta a tutte le persone fisiche e giuridiche d’intraprendere transazioni con l’Iran, di esportare qualsiasi bene o servizio nazionale o straniero fatta eccezione per i settori medico, alimentare, umanitario e sportivo e d’importare negli USA beni di origine iraniana. Tutte queste norme sono contenute nell’Iranian Transactions Sanctions Regulation (ITSR). 

La parentesi del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) ha fatto sperare in una distensione tra Teheran e l’Occidente. L’ “accordo sul nucleare” sottoscritto dall’Iran con Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Cina e Russia, Germania e l’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, imponeva alla Repubblica degli ayatollah di eliminare le sue riserve di uranio a medio arricchimento e di tagliare del 98% quelle di uranio a basso arricchimento, impedendo all’Iran di costruire ordigni atomici ma consentendogli di continuare a produrre energia nucleare per usi civili

In cambio i “5 +1” hanno rimosso tutte le sanzioni imposte dall’Unione europea e dal Consiglio di sicurezza Onu oltre a eliminare tutte le sanzioni secondarie imposte dagli Stati Uniti, ossia quelle rivolte a persone fisiche e giuridiche non statunitensi. Gli USA si sono ritirati dall’accordo nel 2018 sotto l’amministrazione Trump. Lo stesso, durante la sua campagna nel 2016, si era scagliato contro il JCPOA definendolo come il «peggior accordo internazionale mai siglato dagli Stati Uniti». 

Il presunto ritrovamento da parte del Mossad di 110.000 documenti, che numerose perplessità hanno destato tra gli esperti, 55.000 pagine di documenti cartacei più altri 55.000 file archiviati su 183 CD, contenenti prove sugli arricchimenti di uranio oltre i limiti consentiti e lo sviluppare armi nucleari e missili balistici da parte dell’Iran ha consentito all’amministrazione Trump di ritirare gli USA dall’accordo e di reintrodurre sanzioni di secondo grado. 

Nuove sanzioni all’Iran

Nonostante le promesse del neo-POTUS Joe Biden di rientrare nell’accordo, questo proposito è tutt’ora lettera morta. Lo scorso maggio sono state inflitte nuove sanzioni dopo che il Dipartimento del Tesoro aveva parlato dell’esistenza di una rete di contrabbando di petrolio e riciclaggio di denaro che avrebbe coinvolto la Russia, la Quds Force (forze speciali interne al Corpo delle guardie della rivoluzione Islamica) e le stesse Guardie con lo scopo di foraggiare i principali alleati regionali dell’Iran: i libanesi di Hezbollah, gli Huthi in Yemen, i palestinesi di Hamas e le milizie sciite in Iraq. 

Tra i principali soggetti colpiti: la Russia RPP LLC, che sarebbe stata utilizzata per aiutare a trasferire il denaro per conto dei Quds, la Zamanoil DMCC, accusata di collaborare con il governo russo e la Rosneft, compagnia petrolifera in maggioranza del governo moscovita che avrebbe contribuito a spedire il petrolio iraniano alle aziende europee.

Le sanzioni, che oltre a colpire le compagnie petrolifere (una delle principali risorse del paese) hanno coinvolto la Banca centrale iraniana, contribuendo alla svalutazione del riyal, pari al 60%, del 2020, hanno duramente minato l’economia del paese già fragile a causa di una crisi che lo aveva colpito nel 2018, alla Pandemia e alla recente crisi alimentare scaturita dalla guerra tra Russia e Ucraina. 

Questo ha portato a un accordo di cooperazione strategica venticinquennale con la Cina in cui Teheran si impegna a offrire petrolio a Pechino in cambio d’investimenti finanziari e ha radicalizzato la popolazione innescando una crescita dei sentimenti antiamericani. Una cartina sono state le elezioni presidenziali del 2021 che, pur con bassissima affluenza (pari al 48,8%) hanno decretato la vittoria dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi, ex capo della magistratura iraniana sostenuto anche dall’ayatollah Khamenei. 

Le fallite riforme di Raisi

A ciò si aggiunge il fallimento delle riforme di Raisi. Lo scorso maggio, il presidente iraniano ha dichiarato di voler regolarizzare il sistema di sussidi, introdotto da Rouhani, per stabilizzare i prezzi di fronte alle sanzioni, arrivando a un taglio di circa il 40% delle erogazioni, nonostante avesse inizialmente promesso di non toccare i prezzi del pane, del carburante e dei medicinali. 

Il piano è iniziato il primo mese distribuendo quattro milioni di riyal a persona a un terzo della popolazione, mentre il 60% ha ricevuto tre milioni di riyal persona. Nei mesi successivi, era previsto un sistema di coupon elettronici per il controllo dei prezzi, in modo da sovvenzionare il costo del pane. Raisi ha poi eliminato il tasso di cambio artificiale di 42.000 riyal per dollaro sulle esportazioni, introdotto nel 2018 per prevenire eventuali aumenti dei prezzi. 

Inizialmente queste misure sono state accolte favorevolmente dagli analisti, dal momento che la continua immissione di moneta e il vasto piano di sussidi della precedente amministrazione, avevano contribuito all’aumento dell’inflazione. Il tasso sovvenzionato aveva fallito nel contenere l’aumento dei prezzi e foraggiato la corruzione, inoltre sul mercato nero il tasso di cambio era pari a 300.000 riyal per dollaro.

Ma i provvedimenti di Raisi hanno inciso negativamente sul potere d’acquisto, portando il tasso di cambio di mercato a 281.000 riyal per dollaro, mentre secondo Bonbast sarebbe addirittura di 315.000 riyal per dollaro. Senza contare che l’eliminazione del sussidio per grano e farina ha portato il costo del pane a 160.000 riyal al chilo. 

Questa situazione ha avuto ripercussioni negative sull’amministrazione Raisi. Lo scorso giugno il Ministro dell’Industria e del Commercio Reza – Fatemi Amin ha subito un’interrogazione parlamentare, seguita dalle dimissioni del Ministro del Lavoro, delle Cooperative e della Previdenza sociale Hojjatollah Abdolmaleki. 

L’inflazione soffia sul fuoco delle proteste

La riduzione del potere d’acquisto derivante dalle misure mese in atto dall’amministrazione di Raisi ha generato un diffuso malcontento sfociato in diverse proteste per chiedere l’adeguamento di salari e pensioni all’inflazione.

Ad Ahvaz, capitale del Khuzestan provincia al confine con l’Iraq ricchissima di petrolio dove già l’anno scorso si erano tenute proteste a causa di una crisi idrica per la quale si accusava il governo di mala gestione delle pubbliche utenze, molte delle quali in mano alle Guardie della rivoluzione, sono scesi in piazza i pensionati delle banche statali e semi statali per chiedere un innalzamento delle pensioni. 

Domenica 12 giugno, in diverse città tra le quali Ilam, è toccato ai commercianti al dettaglio che hanno indetto sciopero, tenendo chiuse le loro attività fino al mercoledì. I rivenditori hanno protestato contro l’introduzione di nuove tasse sulle piccole imprese. 

 Il consiglio dei sindacati degli insegnanti è sceso in piazza, organizzando una serie di proteste fino al 16 giugno, per rinnovare la richiesta al governo di liberare 18 docenti arrestati durante le manifestazioni del 1 maggio, durante la festa dei lavoratori, episodio in cui si sono cantati slogan contro il Ministro dell’Istruzione Yousef Nouri e si sono richieste le dimissioni del presidente del Parlamento Mohammad-Bagher Gabilaf, accusato di aver organizzato vacanze shopping in Turchia con la sua famiglia attraverso il denaro pubblico.

I tassisti a Mashad hanno scioperato contro l’aumento del prezzo del carburante. Inoltre, questo 12 luglio, migliaia di donne sono scese in piazza in occasione della giornata nazionale dell’hijab e della castità levandosi il velo in segno di dissenso.

Questi episodi compongono il mosaico di un Iran fortemente instabile con un ottimo potenziale bellico e militare ma con un’economia fragile. Tuttavia, potrebbe non essere questa crisi a segnare la fine di una teocrazia che resiste dal 1979. Le strade sono due: riaprire nuovi negoziati con Washington sul JPCOA o rinsaldare i rapporti con Russia, Cina e la vasta galassia antiamericana. 

Il sospetto, che serpeggia nel Pentagono, circa i droni militari che Teheran si preparerebbe a fornire a Mosca e la prima visita ufficiale, dall’insediamento del presidente Raisi lascia ben pochi dubbi su quale dei due scenari sia il più percorribile. 

Foto in evidenza: “File:Hassan Rouhani press conference following 2017 election victory 09.jpg” by Mahmoud Hosseini is licensed under CC BY 4.0.

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