Da quella primavera del 2014 in cui alcuni miliziani barbuti riuscirono a prendere il controllo di una larghissima fetta di territorio nel nord di Siria e Iraq e lanciare il loro grido di battaglia contro l’Occidente, l’Isis è stato la bestia nera delle cancellerie e degli apparati di sicurezza di mezza Europa. Quando nel 2017 venne finalmente sconfitto sui campi siriani e iracheni da varie milizie locali, Pmf in Iraq e Sdf in Siria, si tirò un sospiro di sollievo e si credette che il peggio fosse passato.
Come un cancro che forma delle metastasi, lo sradicamento di un’organizzazione, di un progetto politico e ideologico come quello propugnato dall’Isis, è più difficoltoso di così. Persa la sua base territoriale, l’organizzazione si è riprodotta in vari punti del mondo tramite affiliazioni, quasi delle sponsorizzazioni, con gruppi dai programmi simili ed in parte si è ritirata nelle zone meno raggiungibili e controllabili di Siria ed Iraq. Continuando nel mentre a lanciare sporadici attacchi terroristici, che seppur di minore intensità rispetto a qualche anno fa, rimangono comunque un elemento piuttosto complesso da gestire.
Nonostante il fenomeno delle sponsorizzazioni sia molto rilevante in vari contesti, come il nord del continente nero, il Sahel ed il corno d’Africa, è la resilienza di alcuni gruppuscoli dello Stato Islamico nelle terre che furono di loro dominio negli anni tra il 2014 e il 2017 a destare maggiore interesse. In molte zone della Siria, ormai praticamente pacificata seppur totalmente distrutta dalla guerra, si teme ancora un ritorno di fiamma dei miliziani neri e lo stesso vale per alcune zone dell’Iraq, in cui né il governo centrale né i curdi hanno interesse ad intervenire.
Il problema è infatti sempre lo stesso: in Siria e in Iraq mancano le condizioni strutturali e politiche tali da permettere un’accurata e condivisa lotta contro ciò che rimane dell’Isis, specialmente oggi che i russi si ritirano dal paese di Assad, mentre in Iraq le fazioni sciite del centro e del sud sono sul punto di farsi apertamente la guerra.
Il contesto geopolitico internazionale e quello politico interno non favoriscono in alcun modo quelle che dovrebbero essere delle operazioni coordinate tra forze che non hanno intenzione alcuna di dialogare. Il tutto a scapito delle popolazioni che vivono ancora nelle zone più vulnerabili ai rinnovati attacchi del califfato.
L’Isis in Iraq: la zona cuscinetto tra curdi e arabi
In Iraq l’Isis non è morto, è solo in ritirata strategica. Vista la situazione interna del grande stato mediorientale, diviso tra varie fazioni sciite in lotta tra loro nel centro-sud e con un nord pressoché indipendente in mano ai curdi, ci sono tutti gli ingredienti per una poderosa rinascita dell’organizzazione estremista sunnita.
Sconfitto nel 2017 grazie ad una grande coalizione di milizie sciite collettivamente note come People’s Mobilization Forces e alle sparute ma letali bande curde dei Peshmerga, lo stato islamico in Iraq non ha però perso la sua spinta e le sue energie, almeno non del tutto.
Le Pmf si sono rivelate poco dopo la sconfitta territoriale dell’Isis per quello che erano veramente, ovvero un’accozzaglia di fazioni tenute insieme solo dal comune odio per il nemico, mentre i curdi si sono rapidamente trincerati nel proprio territorio ignorando e rifiutando di finire il lavoro ed inseguire i miliziani neri in ritirata.
Si è venuto a creare così quello che viene chiamato “il nuovo triangolo della morte”, che fa eco al nome dato al triangolo sunnita dalle forze d’occupazione statunitensi nel 2003. Questo nuovo triangolo comprende Kirkuk a nord, Diyala a sud-est e Salaheddin a sud-ovest e rappresenta la linea di contatto tra i territori dei curdi e quelli degli arabi.
In questa zona di confine interno difficilmente si riesce a capire a chi spetti dar la caccia ai miliziani sopravvissuti alla caduta e perciò, in puro stile mediorientale, sostanzialmente nessuna delle due parti (arabi e curdi) se ne fa carico. Il risultato di questo comportamento è che tra le montagne e le grotte tipiche di questa zona si nascondono ancora, dopo cinque anni dalla caduta territoriale del loro “stato”, circa un migliaio di guerriglieri dell’Isis, che compiono scorribande e assalti vari contro i villaggi della zona e persino contro alcune istallazioni militari e petrolifere nei pressi di Kirkuk.
La consistenza numerica di queste bande è risibile se confrontata con i numeri e soprattutto i mezzi che il califfato riuscì a schierare nel 2014, ma la possibilità che il movimento possa prendere piede nuovamente non è da sottovalutare. Del resto, le condizioni politiche interne in Iraq continuano a sfavorire pesantemente le popolazioni sunnite, che vivono proprio nella zona in questione e che potrebbero, come già otto anni fa, tornare a guardare al califfato come ad un utile alternativa al dominio sciita e curdo del paese.
Certo è che stando così le cose, al momento, non esiste possibilità che le forze anti-Isis che sconfissero il califfato cinque anni fa organizzino un’operazione congiunta per stanare e finalmente distruggere ciò che resta della milizia nelle montagne del triangolo.
Siria: i miliziani neri nella Badia siriana
In Siria la questione è invece più complessa perché alcuen sacche dell’Isis resistettero alle varie offensive dell’Sdf e delle forze governative sparpagliandosi sul territorio e continuando ad operare più o meno indisturbate in alcune zone in cui non vi era, e non c’è tuttora, un controllo forte. In particolare, in tutta la Jazira, ovvero la zona tra il Tigri e l’Eufrate, e in particolare nel cosiddetto “becco d’anatra” nel nord del paese, negli ultimi anni c’è stata una serie di piccoli attentati e attacchi da parte di bande disorganizzate di ex miliziani del califfato. Il grosso delle forze dell’Isis è però fuggito nella Badia siriana, il grande deserto a sud-est, in attesa di un momento propizio.
Negli ultimi mesi si sono intensificati gli attacchi sia nella Jazira sia nella zona di confine con la Badia, tanto da spingere gli iraniani ed il governo di Assad a redistribuire due importanti brigate di mercenari sciiti, la Fatemiyoun e la Zainebiyoun, rispettivamente composte da afghani e pakistani, lungo la strada che collega Damasco a Deir Ezzor.
Lungo quella direttrice passano gran parte dei collegamenti tra le roccaforti governative nell’est del paese e la capitale ed è interessante notare come il governo tema il ritorno dei miliziani dal deserto ed un possibile isolamento delle divisioni lealiste schierate ad est, in particolare della quarta.
Quanti e come siano armati i miliziani fuggiti nel deserto non è dato saperlo, ma visto l’imponente spiegamento di forze schierato da Assad è possibile presumere che si tratti di formazioni non indifferenti. Tuttavia, il deserto è un luogo inclemente e ci sono poche oasi in cui potrebbero aver trovato rifugio i membri dell’Isis e ciò potrebbe far pensare che molti di questi siano semplicemente passati in Iraq attraverso l’effimera frontiera nel deserto che separa i due paesi. Alcuni potrebbero addirittura aver riparato in Giordania, per quanto improbabile possa sembrare.
Resta il fatto che il califfato nero, sia in Siria che in Iraq, è lontano dall’esser veramente morto e con il deteriorarsi pressoché costante delle condizioni di vita nei due paesi unito alla prevedibile destabilizzazione che li colpirà, e già in parte li colpisce, come conseguenza del conflitto russo-ucraino, potremmo assistere ad un ritorno spettacolare della nera bandiera degli Abbasidi.
Il punto è che la congiuntura che ha permesso in primis la nascita dell’organizzazioni è ancora presente in entrambi i paesi. Assad governa su un paese instabile e con una maggioranza sunnita marginalizzata e in Iraq gli sciiti spadroneggiano ancora, abbandonando il triangolo sunnita a sé stesso. Che l’Isis possa riguadagnare la spinta del passato appare oggi improbabile, ma non impossibile.
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