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La guerra, l’Ucraina, la Pace: un punto di vista filosofico.

Un punto di vista filosofico, quanto mai attuale, sulla Pace attraverso i saggi della Chiesa e la visione di Francesco

Sulla guerra in Ucraina si è scritto e letto molto sul piano di analisi geopolitica ed economica del conflitto, ma poco – ad eccezione di alcune voci isolate, come quella del Pontefice- se ne è parlato cercando di tematizzare la questione da un punto di vista filosofico e spirituale. Papa Francesco ha parlato a proposito dei conflitti in corso già nella Fratelli Tutti, come di una “terza guerra mondiale a pezzi”».[23].

Ha poi ribadito, a proposito dei meccanismi psicologici e spirituali che reggono questa, come ogni guerra, dei rischi di una polarizzazione che fa danno alla Verità e alla ricerca del Bene. A questo proposito, sempre della Fratelli Tutti, sono mirabili le seguenti parole per la chiarezza, la semplicità e allo stesso tempo profondità evangelica: «Questo non stupisce se notiamo la mancanza di orizzonti in grado di farci convergere in unità, perché in ogni guerra ciò che risulta distrutto è il territorio di ciò che è “barbaro”, da cui bisogna difendersi ad ogni costo.

Smilitarizzare i cuori

Di conseguenza si creano nuove barriere di autodifesa, così che non esiste più il mondo ed esiste unicamente il “mio” mondo, fino al punto che molti non vengono più considerati esseri umani con una dignità inalienabile e diventano semplicemente “quelli”».

Riappare «la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti. Perché gli manca questa alterità»[1].

Smilitarizzare i cuori, è il richiamo di Papa Francesco ad una conversione delle menti e dei cuori che risuona tra i rombi dei cannoni, tra le grida dei sofferenti di questo mondo, afflitti dalla povertà, dalla guerra. La guerra in Ucraina ha colpito al cuore l’Europa e l’ha riprecipitata nell’inferno della guerra: questo ha profondamente scosso le coscienze e riportato il tema della guerra al centro dell’agenda giornalistica, mentre dall’agenda vaticana non se n’era mai andato. 169 sono i conflitti aperti nel mondo, come sottolinea Avvenire, e in tutti questi conflitti il Vaticano è impegnato in azioni di Pace.

A proposito della guerra in Ucraina, il Papa ha inoltre sottolineato il ruolo che la stessa Europa, culla della cristianità può e deve giocare in chiave ecumenica: «Voi siete per natura un ponte tra le Chiese in Europa e le istituzioni dell’Unione», le parole rivolte alla Comece (Commissione delle conferenze episcopali della comunità europea): «Siete per missione costruttori di relazioni, di incontro, di dialogo. E questo è già lavorare per la pace. Ma non basta. Ci vuole profezia, ci vuole lungimiranza, ci vuole creatività per far avanzare la causa della pace. In questo cantiere ci vogliono sia gli architetti sia gli artigiani; ma direi che il vero costruttore di pace dev’essere sia architetto sia artigiano»[2].

Un’alternativa allo stato di guerra

Secondo la Chiesa, non ogni guerra è esecrabile, se dichiarata con retta intenzione e senza fine imperialistico; tuttavia, né vescovi né preti possono essere parte attiva nella dichiarazione di una guerra, come è invece accaduto in Russia col patriarca Kirill. In ogni caso, la Chiesa non considera mai auspicabile una guerra. Persino quando si tratta di un male necessario per riparare all’ingiustizia essa non è mai, almeno per chi scrive, instauratrice del Bene.

È vero però che Dio passa attraverso però l’ingiustizia, la sofferenza, la miseria, ed è proprio quando non si ha voce che la voce di Dio può articolarsi, nel suo apparente o paradossale silenzio. Per questo è importante che gli intellettuali, piuttosto che asservirsi al potere costituito di turno, articolino la voce di chi ha un grido strozzato in gola e non è in grado di esprimere la propria sofferenza.

A questo punto, è interessante osservare quali limiti la Chiesa attribuisce al ruolo del potere politico. Secondo la dottrina della Chiesa Cattolica, l’autorità politica deve tener conto sul piano tanto spirituale quanto economico della dignità di ogni individuo e non può attentare alla Verità eterna, cui deve invece vincolarsi. In questo, il cattolicesimo si discosta molto dalla filosofia della storia di Hegel per cui: «Lo stato è la vita morale reale. Tutto il valore dell’uomo, tutta la realtà spirituale gli viene solo dallo Stato. Lo Stato è la Verità, unione di universale e particolar, qui la libertà ottiene la sua oggettività»[3]. Al contrario, «Lo Stato è per la Chiesa uno strumento che deve operare al servizio del Bene comune»[4].

Contro ogni tentativo di nascondimento della Verità nella sofferenza degli ultimi è quanto mai necessario che si levino voci attente, nei periodi in cui si consumano guerre e sofferenze atroci, capaci di tenere conto dell’altro, del sui punto di vista, delle sue ragioni, del suo stesso esistere, riconoscere il suo valore nella sua umanità e quindi anche nella sua debolezza, nella sua finitezza, fallibilità, contingenza e cioè, nel non suo non avere la sua ragione d’essere in sé stesso, eppure partecipare dell’Essere.
Riconoscere la comunanza nella differenza, anche nello scontro più aspro riconoscere l’altro come un Tu e cioè qualcosa di irriducibile all’oggettivazione, di cui non si può fare un uso tecnico, come si fa con le cose.

Se questo riconoscimento manca ogni scontro, dal più piccolo al più grande, da quello nato per difendere la propria patria a quello per il più bieco interesse imperialistico, diventa l’inferno. L’altro, per usare un’espressione sartriana, diventa il nostro inferno, avviene la demonizzazione dell’avversario. Così, agli occhi dei russi l’Ucraina diventa il paese corrotto, una sorta di Anticristo, con tanto di giustificazione religiosa del vescovo Kirill, e viceversa la Russia viene vista come erede dello stalinismo.

È la schmittiana distinzione amico-nemico, l’altro è l’antitesi hegeliana, ciò senza il quale la propria tesi, la propria identità e il proprio universo di valori non acquistano concretezza e forza, è questa dialettica che si vivifica. Detta in modo ecclesiastico, senza l’eresia non c’è l’ortodossia: senza l’eresia di Marcione non c’è Ireneo di Lione e questa è l’anima di verità di ogni conflitto.

La logica amico-nemico

Ma c’è anche l’anima di erroneità di ogni polarizzazione, di ogni contrapposizione frontale, e cioè ciò che si perde di vista è  quanto si ha in comune, non solo sul piano delle tradizioni e della religione, come nel caso di Ucraina e Russia, ma più essenzialmente quello che si perde è proprio l’elemento eterno dell’uomo, la propria anima di ragione e passione, come se questo presupposto comune mancasse. Diversi modi di pensare e leggere il mondo si contrappongono; l’una taccia l’altra di follia, di illogicità, di irrazionalismo. Di mancare insomma di quel presupposto che distingue l’uomo dalle bestie selvagge. È la capacità di leggere la realtà attraverso le lenti della riflessione, di cogliere il dato coi sensi ed astrarne il contenuto profondo, con la ragione. Data forma alla realtà con il linguaggio l’uomo coglie l’essere dapprima nello stupore, poi animato dalla meraviglia si domanda il senso delle cose, il perché del loro essere così come sono.

È una capacità universale, la cui universalità non sfuma anche se si incarna in dei singolari. Tale capacità sfuma se alla lettura aperta del dato subentra una chiusura ideologica che genera un muro tra le diverse razionalità intente ad analizzare la realtà, si addensa il fumo dell’illusione, della realtà rimane solo l’ombra e la luce della Razionalità si spegne.

Questo è il rischio insito in ogni conflitto umano, tale rischio sembra precipitare la realtà nel caos e l’uomo diventa incapace di coglierne il senso, l’armonia intrinseca, dietro il contrasto che sembra animare ogni cosa all’occhio distratto dell’uomo contemporaneo. Uomo che dimentica la lezione di Eraclito, come dalla caoticità dei contrari risalta la più bella armonia. In questo senso esiste una conflittualità sana, che diventa rigoglio di pace e giustizia, ed è il conflitto sociale, nel divergere e nell’incontrarsi dei diversi interessi e delle diverse prospettive su temi etici o economici.

In questo senso un conflitto che tiene conto del punto di vista dell’altro senza squalificarlo a priori o demonizzazione è auspicabile: in questa direzione va ad esempio la valorizzazione del movimento sindacale operata da San Giovanni Paolo II nella Laborem Excersens

«Perciò, bisogna continuare interrogarsi circa il soggetto del lavoro e le condizioni in cui egli vive. Per realizzare la giustizia sociale nelle varie parti del mondo, nei vari Paesi e nei rapporti tra di loro, sono necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro. Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La Chiesa e vivamente impegnata in questa causa, perché la considera come sua missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde essere veramente la “Chiesa dei poveri”. E i “poveri” compaiono sotto diverse specie; compaiono in diversi posti e in diversi momenti; compaiono in molti casi come risultato della violazione della dignità del lavoro umano: sia perché vengono limitate le possibilità del lavoro – cioè per la piaga della disoccupazione -, sia perché vengono svalutati il lavoro ed i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia»[5].

La Pace, anelito profondo di ogni uomo

Come dice Giovanni  XXII nella Pacem In Terris «La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio. I progressi delle scienze e le invenzioni della tecnica attestano come negli esseri e nelle forze che compongono l’universo, regni un ordine stupendo; e attestano pure la grandezza dell’uomo, che scopre tale ordine e crea gli strumenti idonei per impadronirsi di quelle forze e volgerle a suo servizio.

La convivenza fra gli esseri umani è quindi ordinata, feconda e rispondente alla loro dignità di persone, quando si fonda sulla verità, conformemente al richiamo dell’apostolo Paolo: “Via dunque da voi la menzogna e parli ciascuno col suo prossimo secondo verità, poiché siamo membri gli uni degli altri” (Ef 4,25)»[6].

In questo senso, Kant ha scritto pagine degne di nota nei suoi scritti sulla Pace Perpetua. L’autore tedesco ritiene la Pace una necessità della Ragione e ritiene che la prova empirica di questa necessità sia da ritrovarsi nel suo tempo, nell’evoluzione apportata dalla Rivoluzione Francese alla politica europea: l’evolvere cioè da forme di dispotismo monarchico alla forma costituzionale della Repubblica, nella quale il ricorso della guerra deve essere limitato fortemente dalle leggi. Il Filosofo di Koenisberg ritiene inoltre che in tale quadro legislativo la conflittualità sarà legata alla competizione economica, l’impulso egoistico mercantile concorre per Kant alla possibilità della Pace.

Secondo Kant, la diffusione delle idee repubblicane e l’incentivazione indurranno l’uomo a seguire quella tendenza formale della Ragione, soggiogando gli impulsi sensibili. Secondo chi scrive, in Kant c’è una grande e lodevole fiducia nelle potenzialità della ragione, che tiene conto anche delle difficoltà di attuazione della pace perpetua: infatti Kant tiene conto del male radicale che affetta l’uomo, una sorta di riedizione laica del peccato originale. Tuttavia, in Kant manca una considerazione ontologica della possibilità della pace: infatti, si considera la libertà come condizione di possibilità di un’esistenza umana.

La libertà è nella formalità(il dovere in quanto dovere, l’universale), così per Kant si distingue dell’animale. Viene però meno la possibilità di definire positivamente il contenuto della libertà umana, del Bene morale a partire da una descrizione di chi è l’uomo. Senza una definizione positiva di questo non è possibile costruire un edificio morale coerente che tenga conto dell’uomo nella sua integralità e nelle sue molteplici sfaccettature.

 Definire per concetti, dunque, fatto salvo il limite dell’indicibile, sulla soglia del quale bisogna sempre fermarsi quando si parla dell’uomo. Come sottolinea Jacques Maritan in “Umanesimo Integrale”  la città temporale conduce insieme verso il regno della perdizione e verso il regno di Dio” e sinché vi saranno classi oppresse. E’ che l’amore andrà prima a cercarli[…] e perché li ama vuole che un giorno non vi siano piú classi oppresse”[7] e cioè la Grazia di Dio interviene nella storia donando speranza all’uomo e risollevandolo dai suoi fallimenti facendo della sua debolezza la sua forza.

In questo senso vorrei citare l’enciclica Spe Salvi di Papa Benedetto XVI. Nel passo citato si condensa un’indicazione di possibilità per un futuro di speranza: un futuro che rimane sempre nei limiti del possibile e dell’umano, ma mantiene un orizzonte aperto all’operare della Grazia, di un Bene che, per citare il Platone del Simposio «ci deve essere dato dall’alto».

Una prospettiva di libertà

«Poiché l’uomo rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone.

Conseguenza di quanto detto è che la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione; non è mai compito semplicemente concluso. […] Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito – anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell’uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti[…]

L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di “redenzione” che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: “Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l’uomo è “redento”, qualunque cosa gli accada nel caso particolare»[8].

Parlare della Pace, per concetti.

In questo senso la Pace che discende dall’Amore è che ha la sua radice ultima in dio è una forza che ha valore ontologico. In questo senso è importante tenere conto del fatto che il Bene non è qualcosa di non cogliibile e di noumenico, ricompensa della fedeltà al Dovere come in Kant, né qualcosa di intuibile come in Moore, o qualcosa di riducibile ad un mi piace/non mi piace come in Hume o in Ayer e nel contemporaneo neopositivismo.

Il Bene è, come sottolinea Peter Geach in Good and Evil (1956) attributivo. Infatti buono non è predicativo, non è nemmeno qualità non naturale come per Moore ma attributivo, attaccato al sostantivo che qualifica, buono ha significato descrittivo e valutativo.

Inoltre come evidenzia Philippa Foot in “Natural Goodness”[9]Buono” deve essere collegato ad una “teoria generale della valutazione degli esseri viventi|…| è necessario  infatti, per parlare di moralità, fare riferimento a contenuti. Le considerazioni morali devono cioè essere collegate al bene degli esseri umani, nel senso di una normatività naturale.

Bene e Male non sono nemmeno invenzioni o strumento di controllo dei più deboli sui più forti con la motivazione politica di un’eguale distribuzione per coprire l’impotenza dei più deboli vedi Callicle nel Gorgia di Platone. Come Callicle rivendicava la possibilità per l’uomo che davvero doveva considerarsi tale di andare al di là della giustizia e della temperanza, così Nietzche nella contemporaneità ha provato, con le debite differenze, a prendere in positivo a mettersi dalla parte di Callicle contro Socrate, simbolo di un’etica del risentimento e dell’auto-repressione degli istinti vitali, mettendo al centro della sua oltre-etica la nozione di volontà di potenza, una volontà che andasse al di là dei canoni costituiti della razionalità come dell’irrazionalità.

Tuttavia tale nozione non considera abbastanza che, come è possibile dedurre dall’insegnamento di Tommaso d’Aquino, ogni volontà non è fine a sé stessa ma deve sempre avere un oggetto ultimo del suo agire, essa è sempre infrenata razionalmente, ogni impulso lo è perché è accompagnato da una rappresentazione di uno stato di cose del Bene e del male che inerisce alla realtà in questo senso sincronia tra emozione e passione attraverso il concetto di esercizio nella virtù come medio tra due eccessi di pathos.

Nietzche è grande nello squalificare le etiche dualiste che contrappongono l’intelletto agli impulsi ma non sembra andare molto oltre la decostruzione, la stessa volontà di potenza sembra più una proiezione dell’io, piuttosto che un giudizio normativo sulla realtà delle cose sul piano morale, volendo andare oltre la morale.

Anche sul tema dell’identità e del soggetto Hume nel suo Trattato sulla natura umana sembra aver operato una decostruzione efficace proprio come Nietzche. Identità siamo fasci di percezioni solo attraverso un’influenza extra-empirica ed extra logica posso parlare di Io o di Persona.

 Non c’è nessuna impressione che rimanga la stessa, il flusso passionale varia continuamente, l’io non è se non un collettore di Passioni. Qui si perde il principio d’identità per cui ogni cosa è uguale a sé stessa, l’essere sostanziale è identico, ciò che è accidentale può mutare, ed in questo senso si può fare un esempio per risolvere il dilemma: se Giovanni si è fatto male al polso avrà uno stato mentale di afflizione, oppure se ha paura tale sentimento potrà avere delle ricadute psicofisiche ma c’è sempre qualcosa a cui inerisce il mutamento. Inoltre nel conflitto tra sensazioni é sempre il soggetto pensante che può legiferare.

In questo senso l’aristotelismo tomista, linea guida della Chiesa Cattolica. riesce inoltre a parlare del Valore, il Giusto, il Bene, la Pace nel nostro caso a partire dai soggetti che ne sono portatori che lo incarnano o non li incarnano, la Pace il Bene, il Giusto sono radicati nella Persona Divina e non sono idee da raggiungere tramite metodo dialettico ( vedi Platone) o idee regolative della ragione ma si fanno carne, prendono Volto.

L’uomo ha la capacità di giungere attraverso la propria individuale ricerca al Bene Universale e alla Verità,  inferenza dell’animale che s c’è un modo di essere felice proprio dell’uomo, questa felicità non si ferma per Tommaso sul piano del naturale come in Aristotele ma grazie alla Grazia può portare l’uomo sino alla visione beatifica, il Bene che viene dall’alto.

Per una ontologia della Pace

In questo senso va la quarta via di Tommaso d’Aquino, quella dei gradi di perfezione  che si riscontrano nelle cose. “È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose secondo che esse si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; così più caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo Aristotele.

Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio”[10].

Ad indicare la tendenza dell’uomo al Bene è  la quinta via “La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come appare dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia dall’arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest’essere chiamiamo Dio”[11].

Il finalismo intrinseco nell’essere umano è qualcosa che lo porta secondo la propria natura a desiderare la Pace, uno stato di armonia tra i popoli simbolo dell’armonia che il Creatore ha posto nella realtà.
La pace é  quindi ontologica perché è radicata nell’Essere Divino, non è idea della ragione come per Kant né trova perfetta incarnazione nello Stato come per Hegel, è qualcosa di Trascendente e allo stesso tempo di Reale, la Persona Divina come Ipsum Esse per Se Subsistens, fonte e origine di ogni positività. Lo stato di guerra cruento e il male sono un allontanamento da questa sorgente che dà la Vita, allontanarsi da essa equivale alla morte e alla perdita di Realtà e di Essere.

La libertà dell’uomo non è quindi come ritengono Nietzche e Sartre nella non esistenza di Dio, né è qualcosa di folle o contradditorio credere ancora in Do perché il progresso scientifico non confuta in alcun modo l’idea di un creatore, lo stesso Big Bang in realtà conferma l’idea cristiana e tomista che il mondo non sia eterno e che abbia avuto inizio nel tempo. Le teorie morali alternative in ambito analitico come la sopravvenienza (non spiega come il fisico derivi dal non fisico), l’espressivismo o emotivismo(“rende il disaccordo morale la norma”[12]), il naturalismo(non spiega il mentale e la sua separazione dal fisico) sono frammentarie e carenti, mancano cioè di una visione integrale, quella visione integrale richiamata da Maritain ma anche da molti pontefici da Paolo VI° a Papa Francesco…

La Pace è per citare nuovamente la Pacem in Terris di Giovanni XXIII° un “ordine fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà”[13].


[1] Fratelli Tutti, Papa Francesco, 2020.

[2] Idem.

[3] Lezioni sulla Filosofia della Storia, Georg Wilelhm Hegel, Laterza 2013.

[4] Fratelli Tutti, Papa Francesco, 2020.

[5] Laborem Excersens, Giovanni Paolo II°, 1981.

[6] Pacem in Terris, Giovanni XXIII°, 1963.

[7] Umanesimo Integrale. Jacques Maritain, ed. orig. 1936, ed. Borla 2009.

[8] Spe Salvi, Benedetto XVI°, 2007

[9] STORIA DELL’ETICA CONTEMPORANEA, da Kant alla filosofia analitica, Luca Fonnesu, Carroci Editore, 2006, p. 268.

[10] Summa Theologia, S. Tommaso d’Aquino, Carimo.

[11] Idem.

[12] Morale e Religione.  Per una visione teistica, Andrea Aguti, Morcelliana, 2021.

[13] Pacem in Terris, Giovanni XXIII°, 1963.


Foto in evidenza. “General Audience with Pope Francis” by Catholic Church (England and Wales) is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.

Giacomo Bonetti

Sono Giacomo Bonetti classe 2000 vengo da Fermo, splendida cittadina immersa tra le colline marchigiane. Studio Filosofia all'Università Cattolica di Milano.
Mi interesso di filosofia politica, morale, metafisica, letteratura e cinema. Tutto ciò che é umano mi appassiona.

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