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La mano invisibile che sta sabotando la Brexit

Le speranze che Theresa May riesca ad imprimere il suo nome sul passaggio storico che vedrà il Regno Unito uscire dall’Unione Europea nel Marzo prossimo sembrano, al momento, ridotte al lumicino. L’accordo, faticosamente ottenuto dopo mesi di negoziati con la Commissione Europea, sembra infatti non avere i numeri per essere approvato e ratificato dalla House of Commons di Westminster. Il governo conservatore si scontra infatti, ancora una volta, con lo scoglio dei controlli alle dogane lungo l’unica frontiera terrestre del regno, ovvero quella che ancora divide l’Irlanda del Nord, britannica, dalla Repubblica d’Irlanda, facente parte a pieno titolo dell’Unione Europea e dell’Eurozona. Secondo il rappresentante legale del governo (figura prevista dall’ordinamento politico britannico), l’Attorney General Geoffrey Cox, mentre Inghilterra, Galles e Scozia uscirebbero de facto e de iure dall’Unione Europea e dal Mercato Unico Europeo, l’Irlanda del Nord rimarrebbe in pieno regime di mercato unico con l’Unione Europea. Un provvedimento, questo, che avvicinerebbe molto la contesa regione cattolico-protestante con il resto dell’Irlanda cattolica, lasciandola in uno stato di profonda integrazione economica ed unione doganale con Dublino, allentando dunque l’influenza di Londra nel complesso contesto nordirlandese. Un’eventualità che ha provocato l’incredulità e le durissime proteste del partito unionista nordirlandese DUP (Democratic Unionist Party), che con i suoi dieci seggi alla House of Commons garantisce una precaria maggioranza al governo di Theresa May. Per i lealisti protestanti di Belfast l’accordo ottenuto dal Primo Ministro con la Commissione di Bruxelles segnerebbe un’intollerabile vittoria per la parte cattolica e repubblicana dell’Irlanda del Nord, ancora egemonizzata dai separatisti irlandesi dello Sinn Féin, partito un tempo braccio politico dell’IRA, che alla vigilia del referendum si era schierato contro la Brexit proprio per evitare un allontanamento della regione dal resto dell’Irlanda. Ma i problemi, per il governo, non sono limitati all’Ulster.

La fronda londinese dei Tories insoddisfatta dell’accordo, giudicato troppo morbido e permissivo nei confronti dell’arroganza “neo-imperiale” dell’Unione Europea, sta infatti protestando energicamente nei confronti della Premier assieme ai liberal-sovranisti del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP), a suo tempo promotori del referendum e da sempre critici verso la politica di appeasement della May con la Commissione Europea. Tra i conservatori dissidenti troviamo il potente ex Ministro degli Esteri Boris Johnson, già dimessosi nel luglio scorso proprio in polemica con la linea troppo morbida nei confronti dell’Unione Europea, e l’ex Ministro degli Interni, dimessosi per le stesse ragioni, Sajid David. Theresa May appare dunque stretta tra due fuochi: da un lato i mai sopiti partigiani del Remain, ovvero tutti coloro che continuano, con ogni mezzo, a voler evitare l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, che radunano la sinistra radicale, buona parte del Labour ed i centristi liberali, e dall’altra i sovranisti dell’UKIP, i conservatori lealisti nordirlandesi del DUP, del UUP e del TUV e la consistente fronda di destra dei Tories, che invece chiedono il perseguimento di una linea dura per quanto riguarda l’uscita del Regno Unito, senza alcun riguardo per i costi che questa avrà sia per i britannici sia, soprattutto, per l’UE ed i suoi numerosi cittadini che risiedono in Regno Unito. La via di mezzo moderata della premier conservatrice non sembra dunque piacere a nessuno. Questo dato rende bene l’idea di una Gran Bretagna sempre più radicalizzata e divisa tra chi la Brexit non la vorrebbe proprio e chi invece la vorrebbe ancora più radicale e conflittuale con le istituzioni europee.

Sull’altro versante della Manica si canta, ovviamente, vittoria. Juncker e soci sono riusciti pienamente nel loro scopo, ovvero gettare la Gran Bretagna in uno stato di caos politico generale sufficiente a paralizzare lo Stato, rinfocolare le spinte secessioniste, da sempre eurofile, di Irlanda del Nord e Scozia, terrorizzare le borse, e mettere a repentaglio il governo conservatore. Indiscrezioni, infatti, dicono che la maggioranza Conservatrice-Unionista potrebbe sfiduciare la Premier per proporre alla regina Elisabetta II un nuovo Primo Ministro, più vicino alla destra dei Tories e dunque ad una cosiddetta Hard Brexit, ma lo stallo, temono i sovranisti, potrebbe portare anche alla necessità di nuove elezioni, per mettere fine ad una situazione politica sempre più ingarbugliata con un mandato chiaro da parte degli elettori. Nuove elezioni significherebbero, chiaramente, un nuovo referendum informale sulla Brexit, e se queste venissero vinte dai Laburisti, o da una coalizione filo-europea (quale ad esempio una coalizione di Laburisti e Liberal-Democratici), la strada per il grande sogno, mai sopito, dei partigiani del Remain, ovvero l’indizione di un secondo referendum, sarebbe teoricamente spianata. Gli esiti dell’indizione di un nuovo referendum però sarebbero potenzialmente imprevedibili: la Gran Bretagna, paese storicamente refrattario ai disegni egemonici delle potenze continentali europee, dalla Francia napoleonica alla Germania guglielmina fino al Patto di Varsavia, potrebbe reagire in maniera piccata all’arroganza di un’Unione Europea disposta a trattarla come un’Irlanda qualsiasi. Quando l’Irlanda nel 2008, sempre mediante referendum, disse di no al Trattato di Lisbona, con ben sette punti percentuali di scarto sul sì, fu semplicemente riportata a votare poco tempo dopo, fino a quando non fu il sì a risultare vincitore. Il gioco, risultato vincente con la piccola Irlanda, storicamente provincia periferica del Regno Unito prima e dell’Unione Europea poi, potrebbe però fallire con Londra, capitale a forte vocazione libertaria, centro finanziario mondiale di prim’ordine e tutt’ora signora di un Commonwealth che raduna oltre due miliardi di abitanti e cinquantaquattro nazioni, delle quali sedici vedono ancora Elisabetta II come Capo di Stato.

Il fattore del nazionalismo imperiale londinese, insomma, convitato di pietra durante il primo referendum e fautore, assieme al sabotaggio (ben nascosto dietro le quinte) operato dalla monarchia nei confronti del Remain, potrebbe riservare molte inaspettate sorprese ai collaborazionisti eurofili sul continente. La pervicacia dei sostenitori del Remain e del nuovo referendum, inoltre, non fa che soffiare sul fuoco dei sovranisti più oltranzisti, i quali hanno buon gioco a dimostrare la pesante ingerenza di Bruxelles sulla politica britannica. Anche i fautori della permanenza nell’Unione riconoscono questa ingerenza, ma la indicano principalmente come dimostrazione dell’ormai irrevocabile interconnesione tra i due sistemi politici e le due economie, mentre i Tories, la Casa Reale e più in generale i sovranisti ricorrono al vecchio schema, tradizionalmente inglese, che vede gli interessi (e la democrazia) dei britannici periodicamente minacciati dai disegni egemonici della potenza continentale di turno. Dietro alle pressioni a favore del Remain stanno inoltre, come di consueto, i signori della finanza della City of London, che per decenni hanno goduto dei profitti del Mercato Unico, e delle grandi multinazionali che molto hanno beneficiato del libero accesso nel Regno Unito di considerevoli masse di lavoratori sottopagati, in primis est-europei ed italiani, che hanno implementato di molto i loro profitti. Da non sottovalutare anche il peso dei baroni delle Università, Oxford e Cambridge in primis, che grazie al programma Erasmus hanno potuto consolidare a spese di altri atenei continentali, il proprio ruolo di fari nel mondo della ricerca attingendo a piene mani ad un bacino di giovani europei altamente istruiti a spese altrui. Il nocciolo del contendere sembra ancora una volta, non a caso, proprio la nozione di confine, e non è un strano che proprio sui controlli doganali alla frontiera dell’Irlanda del Nord il governo May rischi di impantanarsi. Si ha la percezione che l’antica “mano invisibile” di concezione smithiana stia apertamente fomentando lo scontro tra i due schieramenti, col solo scopo di mantenere al sicuro uno dei precetti cardine del libero mercato dei tempi moderni: la dissoluzione dei confini. Farà molto riflettere il lettore il fatto che fino a non molti anni fa i controlli alle frontiere erano qualcosa di assolutamente normale non solo in Irlanda del Nord, nella quale peraltro si viveva in regime di guerra civile strisciante, ma anche nel resto dell’Europa pacificata. Oggi, invece, i controlli alle frontiere sembrano un’eventualità talmente inconcepibile da essere, nella giungla di problemi sollevati dalla Brexit, uno scoglio talmente difficile da evitare dal causare la caduta di un governo, quando non un precedente storico gravissimo come sarebbe, se realizzato, la ripetizione del referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Se dunque il libero mercato, o per meglio dire l’ordine neo-feudale che si spaccia come tale, non può accettare non la chiusura, ma nemmeno un rallentamento delle operazioni di controllo ai confini terrestri della Gran Bretagna, ed il governo May rischia il tracollo proprio su questo punto, è evidente dunque quale sia la mano invisibile che, dietro le quinte, sta cercando di sabotare la Brexit. La realtà, ovviamente, è molto complessa, e probabilmente gli artefici di questi disegni sono molto più integrati nel sistema politico e finanziario britannico che non nelle istituzioni bruxellesi, spesso incapaci di perseguire disegni politici di tale portata ed impegno. Viene difficile, insomma, pensare che quei poteri, solo nominalmente centrali, residenti a Francoforte e Bruxelles ed incapaci di ridurre all’obbedienza Viktor Orbàn e Matteo Salvini, riescano invece a creare un simile guazzabuglio all’interno di una potenza globale come il Regno Unito; si ha l’impressione che a Londra operi un conflitto silenzioso tra numerose èlites stratificate: un complesso sistema di scatole cinesi di poteri che ne nascondono altri al proprio interno, e che si fanno la guerra gli uni con gli altri a seconda della convenienza per le tasche dei propri maggiorenti. In tutto questo il sovranismo sembra avere un ruolo marginale e totalmente accessorio, ed il dubbio sembra essere più su come salvare il capitalismo globalizzato che non su come abbatterlo. Da un lato i fautori del Remain credono che una maggior integrazione col disegno utopistico e liberale bruxellese aiuti in tal senso, mentre dall’altro si crede che Bruxelles non farà altro che aumentare, in uno stile tutto tedesco, regolamentazioni, lacciuoli e burocrazie che impedirebbero al leone britannico di ruggire con tutta la sua forza e che potrebbero, soprattutto, allontanarlo pericolosamente dall’altro lato dell’Oceano Atlantico, un oceano, questo, nel quale gli inglesi preferiscono rimanere, seppur in regime di coabitazione con Washington, al centro, piuttosto che diventare la periferia occidentale dell’impero neo-carolingio della Merkel e del suo vassallo Macron. Si scontrano dunque due visioni di capitalismo, una più anarchica e legata alle prospettive utopistiche, neo-illuministiche e trotskiste, vicina a Bruxelles, ed un’altra più classica, più vicina alla visione conservatrice della storia inglese, ereditata da Burke, nella quale i concetti di Law, Property and Order vengono certamente prima degli sbandierati Human Rights europeisti, non a caso molto criticati sia dai padri del conservatorismo inglese, Burke e Coleridge in primis, sia dalla stessa Theresa May, dei quali in più occasioni, sia da deputata che da Primo Ministro, ha auspicato la sospensione in determinati contesti di crisi e necessità. La grande sfida della politica britannica, dunque, sembra lontana anni luce da quella tra mercati e produttori, tra èlites e popolo in corso sul continente. Ancora una volta il sovranismo europeo, con alcune eccezioni, non sembra considerare con lucidità la questione inglese, leggendola con occhi tipicamente continentali, ed ottenendone una visione molto deformata dai prismi delle nostre vicende politiche. La storia inglese è sicuramente ad un nuovo punto cardine della storia, che mette lo Stato britannico di fronte ad una nuova grande sfida; come ai tempi della Gloriosa Rivoluzione e come al momento dello scoppio della rivoluzione in Francia, la Gran Bretagna è ancora una volta chiamata a riformare sé stessa a fronte del cambio degli assetti globali, ed ancora una volta lo scontro con il continente è l’elemento centrale di questo cambiamento. La sfida per Theresa May, e per i governi che verranno dopo di lei, sarà proprio quella di continuare questa tradizione di cambiamenti politici pacifici, fino ad ora sempre molto ben diretti dal sistema di pesi e contrappesi delle istituzioni britanniche. La Gran Bretagna, unico paese d’Europa a non avere mai attraversato grandi travagli rivoluzionari o guerre civili fin dai tempi di Cromwell, deve in massima parte a questa innata capacità di mediazione, la sua abilità a spalmare in lassi di tempi molto lunghi, cambiamenti graduali in grado di operare però profondamente nella società. Cambiamenti che, invece, sul continente richiedono solitamente rivoluzioni, guerre civili o guerre tout-court. Se la Gran Bretagna saprà ancora una volta rimanere fedele a sé stessa ed alla propria tradizione politica lo scopriremo solamente vivendo, ma da sovranisti non possiamo non cercare di leggere tale prospettiva in chiave realmente europea, piuttosto che viziata da un europeismo collaborazionista d’accatto o da un vetusto sovranismo populista e bottegaio. Ciò che invece dovrebbe premerci ancora di più, piuttosto che la mera curiosità storiografica in merito alle vicende inglesi, è capire verso quale transizione la Gran Bretagna si avvierà: se, cioè, essa farà come ai tempi della Rivoluzione, ovvero assecondare ancora di più, ma in maniera pacifica e graduale, le tendenze dissolutorie delle comunità, oppure se essa, pur nella sua prassi di consolidata gradualità e prudenza, opterà per una scelta che riavvicini il suo popolo ad un modello sociale più organico ed attento ai bisogni della comunità, tanto cara ai Whigs ed ai primi Tories. La risposta, ancora una volta, appare per ora ancora molto ben nascosta nelle nebbiose strade tra i grattacieli della City e nei corridoi di Buckingham Palace.


Marco Malaguti

“On the Day of the Ukrainian Navy.” by President Of Ukraine is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

Marco Malaguti

Marco Malaguti (Bologna, 1988), appassionato di giornalismo, filosofia e civiltà orientali, vivo, lavoro e studio a Bologna. Da oltre dieci anni collaboro con testate, blog e think tanks che raccontano la politica europea ed il panorama culturale attuale. Mi occupo prevalentemente di politica estera e dirigo il portale culturale Essenzialismi.it

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