Venerdì 3 novembre 2023. Giorgia Meloni viene da una settimana tutt’altro che rilassante. Le fibrillazioni della maggioranza sulla manovra economica, lo scherzetto dei comici russi, la guerra in Medio Oriente: un accastellarsi di questioni divisive e pericolose che rischiano di minare la coesione dell’esecutivo. E come ogni giocatore di carte sa, quando si arriva al momento critico della partita è meglio andare avanti e non esitare. E così la premier tira dritto.
Anzi, rilancia e sbatte sul tavolo del dibattito politico l’asso nella manica: la tanto invocata riforma istituzionale. “La madre di tutte le riforme”, lo slogan della Meloni. Il testo consta di appena cinque articoli e mira a rafforzare l’esecutivo attraverso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, un unicum nel novero delle democrazie occidentali (l’unico precedente è Israele tra il 1992 e il 2001).
Il primo articolo del disegno di legge abroga il secondo comma dell’art. 59 della Costituzione, quello che prevede la nomina da parte del Presidente della Repubblica di senatori a vita. Discendenti di quei senatori nominati dal Re, antico retaggio da Statuto Albertino, secondo alcuni.
I maligni potrebbero sostenere che è un riflesso psicologico involontario dei fatti del 2006, quando una manciata di senatori a vita tenne in piedi il governo Prodi per più di due anni. Al di là della motivazione, l’eliminazione della figura del senatore a vita non rappresenta di per sé un problema di architrave costituzionale. Se ne può discutere su opportunità e forme ma non è chiaramente questo il nodo della riforma.
L’elezione diretta del Premier
Gli art. 3 e 4 del testo rappresentano il cuore della proposta del governo Meloni e, riformando gli art. 92 e 94 della Costituzione, mirano a introdurre due correttivi importanti al sistema parlamentare italiano: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e quello che è stato ribattezzato “meccanismo antiribaltone”, una sorta di sfiducia costruttiva limitata.
Sgombriamo subito il campo da imbarazzanti considerazioni allarmistiche, inutili e tendenziose: la proposta non prefigura rischi alla democrazia, non stravolge il nostro assetto istituzionale e non rende il Presidente della Repubblica un notaio. La scelta di rafforzare l’esecutivo è sacrosanta e l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri può essere una strada giusta per farlo.
Ciò che dovrebbe destare più di una perplessità è, invece, il “come” questa riforma vuole arrivare all’obiettivo. I primi interrogativi riguardano il mantenimento del rapporto fiduciario con il Parlamento. Se il Presidente del Consiglio trae la sua forza e la sua legittimità dall’elezione diretta da parte del popolo sovrano perché dovrebbe aver bisogno di una fiducia del Parlamento?
Per di più di un Parlamento come quello italiano, formato da due Camere, estremamente litigiose e frammentate. Avrebbe avuto senso, almeno, limitare il rapporto ad una sola delle due camere e riformare l’altra, prefigurando magari una camera delle autonomie e superando così il bicameralismo paritario.
Ma la riforma non tocca il Parlamento e lascia intatto il rapporto di fiducia con il Governo. Il cortocircuito non è solo logico e formale ma sostanziale. L’essere eletti direttamente dalle urne investe il Presidente del Consiglio di un mandato forte che proviene immediato, cioè senza alcuna mediazione, da quel popolo sovrano su cui si fonda la nostra Costituzione.
Come si può conciliare la forza di questo tipo di mandato con la necessità di un voto di fiducia? E se il Parlamento esprimesse, in un secondo momento, una sfiducia, non sarebbe l’eletto portato a rivendicare quel mandato, andando ad uno scontro aperto con la Camera che l’ha sfiduciato?
Onde evitare che il Premier eletto si ritrovi ad avere un Parlamento ostile, la riforma, all’art. 4, prevede un premio di maggioranza che garantisca il 55% dei seggi in entrambe le camere alle liste collegate al candidato vincente. Il testo non spiega però quali dovrebbero essere le condizioni per il raggiungimento della suddetta soglia, demandando la questione alla legge elettorale.
Sul punto, la Corte costituzionale ha già stabilito, con la sentenza 1/2014 che non può essere attribuito un premio di maggioranza senza condizionalità. Nella nuova legge elettorale si dovrà quindi prevedere una soglia minima per l’ottenimento del premio.
E se nessuno raggiungesse quella soglia? A quel punto, le strade sono due: o si opta per un doppio turno, andando verso un sistema prettamente maggioritario o, in alternativa, si prevede la possibilità di un’anatra zoppa, cioè di un Governo che non ha la maggioranza in Parlamento. Circostanza che però contraddice quanto stabilito dall’articolo riformato.
Il meccanismo antiribaltone
L’altro meccanismo per rafforzare l’esecutivo è la cosiddetta “norma antiribaltone” e, se possibile, è ancor più pasticciato del premio di maggioranza. Si inserisce un terzo comma all’art. 94 del testo costituzionale che stabilisce che, in caso di cessazione dalla carica del Premier eletto, quindi anche in caso di sfiducia da parte di una delle due camere, il Presidente della Repubblica possa dare l’incarico al medesimo Presidente del Consiglio o a un parlamentare che sia stato eletto nelle liste collegate al Presidente del Consiglio dimissionario.
Nel caso in cui anche questo ipotetico secondo Presidente del Consiglio dovesse cadere, le Camere verrebbero sciolte e si tornerebbe al voto. Con il paradossale risultato che il Presidente del Consiglio subentrante ha più potere del primo, quello eletto direttamente dal popolo. Infatti, il secondo avrebbe una leva politica nei confronti del Parlamento, lo scioglimento delle Camere in caso di sue dimissioni, che il primo non ha.
E queste sono solo le criticità su ciò che la riforma fa. A queste andrebbero aggiunte e analizzate tutte quelle che derivano da ciò che la riforma non fa, a cominciare dal già citato superamento del bicameralismo paritario.
Ma la partita non è ancora finita e la palla passa ora al Parlamento che potrà analizzare il testo e, si spera, introdurre dei correttivi che possano rendere la “madre di tutte le riforme” più coerente e funzionale.
Da questo punto di vista, è positivo il fatto che Giorgia Meloni si sia detta aperta a suggerimenti e modifiche e abbia chiaramente scisso il destino del proprio Governo dall’approvazione della riforma costituzionale, evitando così strumentalizzazioni politiche e dimostrando di aver appreso la lezione di taluni incauti predecessori.
Le possibili correzioni
Da tale confronto, tuttavia, non è possibile aspettarsi miracoli o stravolgimenti. La linea di Fratelli d’Italia è molto chiara. Giorgia Meloni ha scelto per l’elezione diretta del Premier e non possiamo sperare in improvvisi ripensamenti che conducano verso altre soluzioni come il semipresidenzialismo alla francese o il cancellierato tedesco. Appare utopistico anche il superamento del rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento perché richiederebbe l’inserimento di meccanismi di riequilibrio dei poteri tali da dover rivoluzionare il testo.
La rotta è stata scelta e, al massimo, ciò che si può fare è inserire qualche correttivo che miri a risolvere le criticità che il testo presenta.Si potrebbe, ad esempio, modificare la norma antiribaltone e renderla una vera e propria sfiducia costruttiva, sul modello di quella tedesca o spagnola: per votare una mozione di sfiducia è necessario contestualmente presentare un nuovo Governo che abbia la fiducia nelle Camere.
Oppure ancora si potrebbe pensare di introdurre il principio, valido per le Regioni, del simul stabunt simul cadent. Nell’ordinamento regionale, le dimissioni del Presidente di Regione provocano la caduta della Giunta e del Consiglio Regionale, circostanza che garantisce al vertice dell’esecutivo regionale un potente elemento di stabilità.
Tuttavia, inserire un simile meccanismo a livello nazionale richiederebbe introdurre una qualche forma di contrappeso in favore del Parlamento per non concentrare troppo potere nelle mani del Governo. Un’altra modifica che può essere introdotta per migliorare il testo riguarda il premio di maggioranza. Lasciare la materia alla legislazione elettorale è rischioso ed espone la questione al giudizio della Consulta.
Sarebbe opportuno precisare meglio già nel testo costituzionale una soglia minima per accedere al premio e dei meccanismi che si attivano nel caso nessuno raggiunga questa soglia.In Parlamento, maggioranza e opposizione dovrebbero ragionare in quest’ottica costruttiva.
Se non si troverà un accordo, si andrà al referendum dove gli esiti possono essere solo due: il naufragio dell’ennesimo tentativo di riformare le nostre istituzioni o l’approvazione di un testo pasticciato che rischia di creare ancor più instabilità di quanta il nostro paese sia solito sopportare.
Foto in evidenza: By Italian Government – https://www.governo.it/it/articolo/gli-impegni-del-presidente-meloni-di-luned-30-gennaio/21620, CC BY-SA 3.0 it, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=128209704