Lunedì il ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, ha annunciato i preparativi per un incontro diplomatico d’alto rango con il suo omologo azero, Jeyhun Bayramov. Il proposito sarebbe quello di discutere un possibile trattato di pace tra Erevan e Baku, sulla falsariga degli accordi trilaterali firmati due anni fa, alla fine della seconda guerra del Nagorno Karabakh.
Accordi che garantirono da subito lo sblocco dei trasporti di natura economica e il passaggio, dall’Armenia all’Azerbaijan, di alcune zone di territorio in favore di Baku, vera vincitrice del conflitto. Quindi un trattato che riconosca un vincitore e uno sconfitto, con relative prerogative per l’uno e svantaggi per l’altro.
Invero, nessun trattato di pace fu firmato quando, nel novembre del 2020, Armenia e Azerbaijan decisero di porre fine all’ennesima guerra del Nagorno Karabakh. L’unico documento garante di un’uscita dal conflitto in modo per quanto più possibile ordinato, fu l’accordo trilaterale tra le due controparti e la Russia.
Mosca promise protezione all’Armenia, almeno formalmente, con l’entrata di quest’ultima nel trattato di sicurezza collettiva. Ma, al momento del bisogno, il Cremlino fece orecchie da mercante, rifiutando l’attivazione del CSTO e declassandosi al mero ruolo di mediatore quando il conflitto era già al suo epilogo, con lo stazionamento di una forza militare russa nel ruolo di peace maker.
Si potrebbe speculare sul perché del non intervento russo a difesa di Erevan. Paura di un impantanamento stile Cecenia, oppure di un allargamento del conflitto con la Turchia, ben radicata in territorio azero?
Non che Mosca non avesse rifornito l’Armenia di armi e munizioni, ma la sconfitta di quest’ultima pesò molto sull’orgoglio nazionale e influenzò notevolmente l’opinione degli armeni e della loro classe politica verso la Russia, poi ulteriormente precipitata con l’invasione dell’Ucraina.
Tuttavia, Bayramov accusa l’Armenia di non aver applicato tout court gli accordi trilaterali. Ad esempio, formazioni armene occupano ancora oggi alcuni territori del Karabakh e i campi minati, in assenza delle mappe che ne indichino la locazione, rimangono un serio problema per gli azeri, che, secondo le parole di Bayramov, assistono a eventi tragici ogni settimana.
La volontà russa di normalizzare le relazioni armeno-azere si inserisce però all’interno di un quadro generale più complesso e articolato, già descritto in queste pagine. Il rischio, per Mosca, è quello di perdere qualsiasi appiglio nel Caucaso meridionale. Ankara ha ottime relazioni con Baku e, recentemente anche Tel Aviv ha messo piede in territorio azero, in funzione anti-iraniana. Gli Stati Uniti sarebbero disposti a concedere la loro protezione all’Armenia, eliminando così quella che sembrava una consolidata presenza russa e, di conseguenza, cancellando anche quella iraniana.
Attraverso questa lettura si può comprendere meglio il proposito di Lavrov. Cosciente che il teatro del Nagorno Karabakh è un focolaio pronto a esplodere, la normalizzazione dei rapporti tra armeni e azeri è un imperativo se Mosca vuole evitare di perdere definitivamente l’appiglio nella regione a causa di un nuovo conflitto, in cui l’Armenia potrebbe chiedere aiuto ad altri attori o soccombere definitivamente.
Con questa mossa diplomatica, in cerca di un trattato di pace il più equo possibile, Mosca mette sul piatto la sua forza negoziale, facendo sicuramente più un favore a Erevan che a Baku. È un gesto di scuse informale verso gli armeni, ma è anche, realpolitik parlando, il tentativo di ristabilire la propria influenza in una regione strategica per gli equilibri del Caucaso nel suo complesso, con la componente settentrionale, Cecenia in primis, sempre in subbuglio.
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