Da tradizionale satellite russo, a nuovo focolaio di proteste filo-occidentali. L’Armenia continua a non trovare pace dopo le tragedie del secolo scorso e le tre guerre del Nagorno-Karabakh, i cui venti di conflitto si sono riaccesi con la nuova offensiva azera nella regione ed i bombardamenti condotti da Baku sulla capitale Stepanakert e su altre città di rilievo per la repubblica separatista.
Il preambolo dello scontro
Le nuove ostilità nella regione dell’Artsakh sono iniziate martedì 19 settembre, in seno alla situazione creatasi con il secondo conflitto del Nagorno-Karabakh scoppiato nel 2020 e che già altre volte ha portato a scontri di confine e situazioni di tensione (tant’è che si parla, nel periodo tra 2020 e 2023 di terza guerra dell’Artsakh).
Ma a differenza del passato, questa volta l’esito degli scontri è stato differente: il governo di Yerevan di fatto, pur cercando timidamente di far sentire la propria voce, ha da subito escluso un proprio coinvolgimento nella questione, dichiarando di “non volersi immischiare negli affari interni della repubblica azera”.
Una scelta obbligata da parte armena, che attualmente non dispone delle capacità militari ed economiche per affrontare un nuovo scontro aperto con lo scomodo vicino; ma ciò non ha fermato la pesante presa di posizione della popolazione armena che, spinta anche da un forte senso di unità nei confronti dell’Artsakh, ha subito mostrato il proprio dissenso con le scelte del presidente Pashinyan.
Da parte azera, le operazioni portate avanti nell’arco di qualche giorno si sono mostrate decisamente più efficaci e risolutive rispetto agli scontri del 2020 e alle tensioni di confine successive, determinando il successo per Baku in tempistiche sorprendentemente rapide che non hanno permesso una risposta da parte armena (sia da Yerevan che da Stepanakert), con le autorità dell’Artsakh che non hanno potuto fare nulla se non prendere atto della sconfitta e annunciare lo scioglimento della repubblica separatista.
La sensibilità armena
Agli occhi del cittadino armeno, l’Artsakh è una parte integrante del Paese e l’attacco azero rappresenta una minaccia soprattutto sul piano etnico, rievocando, nei casi più sensazionalistici, similitudini con quanto il popolo armeno ha passato nel 1900 sotto la dominazione ottomana.
A dare speranza, quantomeno di stabilità, al popolo armeno fu lo stanziamento di una forza russa di peacekeeping a seguito del conflitto del 2020. Con le nuove azioni intraprese da Baku però, il mancato intervento delle forze russe nel fermare l’aggressione ha marcato un decisivo cambio nella sensibilità del popolo armeno.
Le forze russe di fatto, in adempimento del ruolo che il Paese ricopre come “garante”, all’interno della Csto, si era fatta carico di garantire il mantenimento ed il rispetto dell’accordo per il cessate il fuoco della seconda guerra del Karabakh del 2020.
L’accordo, infatti, prevedeva la cessione di ampi territori della regione del Nagorno-Karabakh all’Azerbaijan, lasciando alla repubblica separatista solo i core territories dell’Artsakh armeno, garantendo tuttavia un collegamento con Yerevan attraverso il corridoio di Lachin, sotto protezione delle forze russe.
La presenza dei russi nella zona ha garantito, almeno fino al 2023 e non senza alcuni momenti di tensione, la stabilità della regione, con il popolo armeno che percepiva la presenza dell’alleato come fondamentale per la sicurezza dell’Artsakh e dei propri concittadini in loco.
Nonostante la loro presenza, i russi non hanno potuto impedire il proseguimento azero del blocco del corridoio di Lachin, che nella primavera del 2023 hanno portato alla creazione di un checkpoint azero nell’area sotto osservazione degli stessi soldati russi.
L’assenza russa ed il ritorno di Baku
Se, almeno sulla carta, la presenza russa garantiva stabilità, l’Azerbaijan era consapevole che Mosca non aveva interesse ad essere coinvolta e ad impegnarsi in un conflitto nella regione, soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina. Per Baku è stato, dunque, relativamente facile far leva sulla presenza di soldati armeni (che in realtà facevano parte dell’esercito di difesa dell’Artsakh), nella regione per obbligare giocoforza i russi a premere sui propri alleati per il ritiro delle truppe.
Nell’immediatezza successiva al lancio dei primi attacchi su Stepanakert, Mosca si è subito distanziata dalle richieste di Yerevan, negando ogni possibilità di coinvolgimento per spingere al rispetto del cessate il fuoco del 2020. Nonostante i contatti tra Pashinyan e Putin, le istituzioni russe hanno mantenuto una linea il più diplomatica e distaccata possibile anche a fronte di incidenti come quello avvenuto a Dzhanyatag, dove alcuni soldati russi sono rimasti vittime di un attacco azero.
Il mancato intervento alleato, ed il successivo annuncio del presidente azero del conseguimento degli obiettivi militari nella regione (culminati con l’ufficiale scioglimento della Repubblica dell’Artsakh), non hanno potuto che provocare grande rabbia popolare.
Nella notte di mercoledì 20 settembre, a Yerevan, si sono registrate numerose sollevazioni spontanee confluite in due distinte proteste nel centro cittadino, che hanno obbligato la polizia ad intervenire per bloccare l’accesso al Parlamento. Nelle manifestazioni, numerosi cittadini armeni hanno strappato i propri passaporti russi e hanno richiesto le dimissioni di Pashinyan, sventolando bandiere statunitensi e dell’Unione Europea sia davanti al palazzo presidenziale, sia di fronte all’ambasciata russa.
Le proteste e le sollevazioni sono continuate nei giorni seguenti, con l’opposizione guidata dall’ex presidente Vagzen Manukyan che ha annunciato l’inizio di una disobbedienza di massa, invitando anche i cittadini delle altre province del Paese a unirsi alla protesta.
L’Armenia tra due fuochi
Le manifestazioni di Yerevan rappresentano un segnale forte da parte del popolo armeno che si è deciso a un cambio di passo rispetto alla linea diplomatica tradizionale del Paese, ma per l’Armenia la situazione geopolitica è tutt’altro che semplice e un avvicinamento all’Occidente può rappresentare un rischio notevole per il piccolo Stato del Caucaso.
La direttrice geopolitica armena è da sempre stata legata alla Russia per due motivi principali: il primo è la vicinanza religiosa tra il popolo armeno, unico popolo cristiano della regione, ed il popolo russo. Il secondo è di carattere storico, con la nazione armena che tra il XIX ed il XX secolo si era sempre più legata alla Russia in chiave anti-ottomana, soffrendo per questo pesanti atrocità come il Genocidio Armeno del 1915.
Anche dopo l’indipendenza del 1991 l’Armenia è rimasta sempre vicina a Mosca, divenendo l’unico Paese dell’area ad aderire alla Csto per tutelarsi da una possibile aggressione da parte dei popoli turchi di Azerbaijan e Turchia.
E’ quindi evidente che Yerevan non coltivi buone relazioni con i propri vicini e questo, in un’ottica di avvicinamento all’Occidente, in particolare alla Nato e all’UE, non è certo un vantaggio. In caso di una possibile richiesta di adesione all’Alleanza atlantica (che Yerevan potrebbe portare avanti per porsi sotto l’egida statunitense), tale domanda verrebbe bloccata dal parlamento turco, con il Presidente Erogan che imporrebbe condizioni durissime al Paese.
Oltre alle difficoltà politiche, l’ingresso dell’Armenia nella NATO porrebbe anche grandi sfide logistiche per l’Occidente che, a causa della complessa geografia della regione, sarebbe impossibilitata a garantire un afflusso di materiali via terra, lasciando come unica via percorribile il rifornimento aereo del Paese tramite la vendita di armamenti come già dichiarato essere nelle intenzioni della Francia.
In misura opposta però, il tempo di Yerevan nella Csto sembra essere in arrivo a un capolinea, a causa della percezione di “tradimento”, che il popolo armeno ha sviluppato per il mancato intervento russo. Già a maggio il Presidente Pashinyan aveva anticipato la possibilità di un’uscita armena dall’alleanza, quando si era detto pronto a rinunciare alle pretese sul Nagorno-Karabakh qualora Baku avesse garantito la tutela della minoranza armena.
Se, quindi, da un lato si chiedono novità sul piano diplomatico, dall’altro la situazione rimane scomoda per l’Armenia e la classe politica del Paese non può che cercare di “salvare il salvabile”.
Foto in evidenza: By Dante Meloni – Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=114156545