In occasione della scorsa Pasqua ortodossa, nella regione di Akmola, nel Kazakistan settentrionale, il sacerdote Jakov Vorontsov del patriarcato di Mosca ha celebrato la liturgia in lingua kazaka, destando scalpore tra colleghi e fedeli, abituati all’uso della lingua russa nelle cerimonie religiose. L’iniziativa dell’ecclesiastico è andata poi oltre questo gesto di facciata. Infatti, ha anche aggiunto «da tempo non siamo più una colonia russa, e dobbiamo lottare per il nostro futuro, quello di una nazione multietnica». Per questo motivo, secondo Vorontsov gli ortodossi kazaki, seguendo l’esempio degli ucraini, dovrebbero separarsi dal patriarcato di Mosca.
Sorvolando sulla figura eccentrica del sacerdote, autore di continui ammonimenti su Facebook contro l’invasione russa dell’Ucraina, oltre che di azioni prescrittive, per cui Astana dovrebbe uscire da tutte le istituzioni di matrice russa, Unione economica euroasiatica e Csto compresi, quello che esprime è un sentimento che riguarda un numero crescente di kazaki, soprattutto tra le giovani generazioni. Anche se, probabilmente, non nella misura in cui Vorontsov si è spinto in certi casi, con dichiarazioni accese contro il governo russo, etichettato come un “regime di cannibali” intento a “restaurare le tradizioni staliniane”.
Ad ogni modo, l’azione di coloro che promuovono la necessaria vicinanza verso Mosca, sostenendo l’irrilevanza del Kazakistan in caso di allontanamento dalla Russia, si fa sempre più difficile. Soprattutto, dopo l’emergere nell’ultimo ventennio di potenze quali Cina e Turchia, desiderose di penetrare nelle steppe centro asiatiche offrendo valide alternative al caduco orso russo, e l’inizio dell’operazione militare speciale, che ha esacerbato la russofobia nelle ex provincie sovietiche, timorose di essere i prossimi potenziali bersagli di Mosca.
Allo stesso tempo, questi timori vengono espressi ora con meno scrupoli a seguito della percepita sconfitta strategica russa in Ucraina, probatoria delle serie difficoltà in cui versa la macchina bellica di Mosca, che ormai non desta più timore come in passato. Specialmente dopo il tentato golpe di Prigozhin, che non ha di certo contribuito a riscattare la figura della Russia. Come si sa, per uno stato che si professa grande potenza, la credibilità è pressocché tutto.
Il divorzio culturale e linguistico da Mosca
In questo contesto, il sentimento di avversità verso il Cremlino si ripercuote sulla lingua russa, percepita come coloniale. Il primo provvedimento per estenderla fu preso da Stalin dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando ordinò l’impartizione dell’istruzione superiore nei paesi dell’Asia centrale solamente in lingua russa, con la conseguenza che le persone istruite erano quasi esclusivamente russofone, le stesse che andavano poi a ricoprire le cariche apicali della macchina statale. Questo processo di inedita violenza culturale fu tuttavia antecedente alla “grande guerra patriottica”.
L’annichilimento degli idiomi dei popoli dell’Asia centrale passò attraverso il cambiamento di due alfabeti nell’arco di pochi anni. Difatti, le lingue dei vari -stan, turciche, si esprimevano secondo l’alfabeto arabo, che fu poi sostituito da quello latino, lo Yanalif, nel 1928, per poi approdare definitivamente a quello cirillico nel 1938-40. Solo con la fine dell’impero sovietico gli -stan riacquisirono la loro “indipendenza linguistica”, pur restando fortemente condizionati da decenni di russificazione forzata.
Quello che avviene oggi è una profonda inversione di tendenza. Stando agli ultimi dati, il 40% delle persone tra i diciotto e i ventinove anni dichiara di parlare sempre e in ogni ambiente kazako, e coloro che non lo parlano vengono etichettati come nedokazaki, ovvero kazaki “non del tutto”. Esemplificativo in tal senso è la sempre maggiore diffusione di film e programmi televisivi in lingua kazaka, soprattutto l’ultimo successo americano, Avatar 2, visto quasi esclusivamente nella lingua locale.
Oltre all’intrattenimento mediatico, anche altri campi dell’arte e della cultura sono esplicativi della rivoluzione identitaria in corso. Suinbike Suleymenova è il nome della giovane regista e pittrice che, attraverso la sua arte, ricorda la figura del bisnonno, accusato di nazionalismo kazako. C’è poi la giovane Sayagul, autrice del dipinto i am kazakh, che afferma di aver riscoperto la lingua della sua terra dopo un lungo percorso, non intrapreso dai suoi genitori, che ancora non lo parlano. Infatti, diversa è la questione per le persone sopra i sessanta anni, per cui la percentuale di chi riesce a esprimersi in kazako si riduce fino al 25%. Resta comunque il dato della tendenza positiva in costante aumento, e, con tono ironico, molti kazaki affermano che Putin ha fatto di più per la lingua kazaka in un anno che in trenta anni Nazarbaev, lo storico presidente in carica dal 1990 al 2019.
Al contrario, vi è una riscoperta del turco, ovviamente con lo zampino di Ankara e dell’azione coordinata delle sue associazioni impegnate nel campo culturale e linguistico, a partire dall’Organizzazione degli Stati turchi. Sul finire dello scorso anno, sulla scia della russofobia innescata dalla guerra d’Ucraina, la suddetta organizzazione ha messo a discussione la creazione di un alfabeto unico, il già citato Yanalif, capace di creare un idioma condiviso dall’intero mondo turcico, che oggi comprende all’incirca 300 milioni di individui. L’unificazione linguistica sarebbe quindi un modo per gli -stan di riscoprire la loro identità, corroborando il legame con la Turchia; oltre che per difendersi ed emanciparsi da Mosca, rea di aver sfruttato anche il fattore linguistico – la difesa degli ucraini russofoni – per giustificare l’operazione militare speciale.
La geopolitica di Astana
In ogni caso, andando oltre alla questione glottologica, il Kazakistan rimane il paese centroasiatico più importante per pura geoeconomia, essendo demograficamente ridotto a 19 milioni di individui. Il dato demografico conta relativamente quando si possiedono qualità o risorse eccezionali. Tra i due, Astana possiede la seconda, essendo leader mondiale nell’esportazione del preziosissimo Uranio, con una quota globale del 40%. Il dato è fondamentale perché alimenta considerevolmente il peso geopolitico del Kazakistan nella regione. Soprattutto, attira le mire, gli investimenti e le concessioni delle maggiori potenze locali: Cina, Turchia e Russia, che competono tra di loro per acquisire l’oro verde.
Astana ha così imparato a giocare da media potenza, affidandosi alla sicurezza russa per evitare di appiattirsi troppo su Ankara o Pechino. In altre parole, giocare su due tavoli finché il banco non salta. Questa tattica potrebbe conferirle un ruolo da guida, ponendola come leader della derussificazione dell’Asia centrale, riunendo attorno a sé gli altri -stan, timorosi dell’assertività dei tre imperi asiatici. Al momento, Astana si sta già muovendo in tal senso, essendo il paese che maggiormente tenta di liberarsi dall’influsso russo di memoria sovietica, e l’ideale politico di “una nuova nazione kazaka” del presidente Tokaev rischia di divenire il leitmotiv che accompagna la politica estera dello spazio post-sovietico, trovando nel Kazakistan il suo leader ideologico. In questo intento, la strada percorsa da Astana per emanciparsi culturalmente da Mosca conferisce un punto di riferimento per gli altri -stan, anche loro desiderosi di affrancarsi in tal senso.
Se in Kazakistan si commemorano tutte le vittime delle repressioni sovietiche, compreso l’Holodomor, il Turkmenistan è intento a riscopre e incentivare sempre di più il folklore domestico, addirittura celebrando con balli, musiche e costumi nazionali l’ultima parata per la celebrazione della grande guerra patriottica nella Piazza Rossa a Mosca. Un altro caso è il Kirghizistan, dove nella capitale Biškek è stata recentemente organizzata una conferenza internazionale “sul ponte della memoria”, con l’intento esplicito di “salvare la nostra cultura e la nostra lingua dalla tirannia” – una frase che non si sforza neanche di nascondere l’accusa verso Mosca. Da ultimo, anche l’Uzbekistan si inserisce in questa vicenda. Invero, Tashkent ha ultimamente riabilitato l’immagine di riformatori e intellettuali mussulmani duramente repressi durante la parentesi sovietica.
Mosca non vuole rinunciare all’Asia centrale
Tuttavia, se la società civile è antagonista alla Russia, le oligarchie locali mantengono un legame stretto con Mosca, che riesce così a mantenere una significativa quota d’influenza in Asia centrale, anche grazie ai milioni di russi che vivono nella regione, specialmente in Kazakistan. Questo ha fatto si che il presidente kazako Toqaev decidesse di rivolgersi al Cremlino quando a gennaio 2022 l’ondata di proteste infiammò il paese.
Per giunta, la postura ambigua e contraddittoria del Kazakistan nei confronti di Mosca rispecchia fedelmente la sua volontà di smarcarsi da quest’ultima ma, allo stesso tempo, di trarne vantaggio. Invero, dall’inizio del conflitto ucraino, Astana ha aiutato Mosca ad aggirare le sanzioni occidentali, ma, contemporaneamente, si è impegnata in un progetto energetico volto a smarcare il paese dalla dipendenza verso gli idrocarburi russi. Si tratterebbe di un oleodotto non passante per la Federazione, capace di sopperire, in parte, alle richieste energetiche del Vecchio continente, riducendo così il peso del ricatto moscovita verso le economie europee.
Da parte russa, la reazione verso queste dimostrazioni di distacco non sembra essere troppo clemente. Infatti, in perfetto stile russo, cinico e violento, sembra che le forze dell’ordine della Federazione stiano dando la caccia ai migranti tagichi. Le opinioni a riguardo sono discordanti: da semplice razzismo fino a una tattica per incentivare il governo tagiko, il più fedele alleato russo in Asia centrale, a supportare maggiormente la guerra russa in Ucraina.
È dello scorso mese la notizia che, nella regione di Khabarovsk, nell’estremo oriente russo, uomini dell’Omon, l’unità speciale antiterrorismo, il cui motto “noi non conosciamo pietà e non ne chiediamo” rispecchia fedelmente lo stile russo sopradescritto, abbiano aggredito cento studenti tagiki senza alcuna chiara ragione. Altri arresti e violenze sono stati registrati a San Pietroburgo e in vari quartieri della capitale.
Tra i vari punti di vista sulle reali motivazioni di queste violenze, spicca quello del tagiko Abdumalik Kodirov, secondo cui «alle autorità russe servono persone da mandare alla morte senza accumulare altri sensi di colpa: finora hanno usato i soldati delle regioni asiatiche della Federazione e i detenuti, ora serve altra carne da cannone». Della stessa opinione è Ališer Ilkhomov, secondo cui sarebbe stato l’incontro di tre circostanze a scatenare l’ondata di violenze contro i tagiki. In particolare, l’incontro dei leader dell’Asia centrale in Cina, che ha tagliato fuori la Russia; il problema dell’Afghanistan, particolarmente sentito dai tagichi; e la guerra in Ucraina, alla quale il Tagikistan proibisce di partecipare ai suoi cittadini, mentre la Russia vorrebbe reclutarne a migliaia.
Per concludere, il declino della Russia quale potenza si legge anche attraverso il fattore cultura: sempre meno persone nel mondo vogliono essere o assomigliare ai russi. Dagli ucraini, ai baltici, fino ai popoli dell’Asia centrale, tutti rivendicano un nazionalismo per decenni soffocato. Al contrario, il successo nella lontana Africa tramite l’azione della Wagner rispecchia la logica geopolitica del ricercare sempre un patron il più lontano possibile. Infatti, l’ingombrante stazza russa, seppure ridimensionata nella potenza, produce ancora timori nei paesi a lei contigui.
Ad oggi, gli unici fattori d’attrazione rimasti a Mosca sono il suo mercato del lavoro, bengodi per milioni di migranti centroasiatici, e i rimasugli della sicurezza che la Csto può garantire. Tuttavia, sono necessità a cui i popoli centroasiatici rinuncerebbero volentieri se gli si presentasse una valida alternativa, che attualmente, per vicinanza geografica e soft power, appare solo nelle disponibilità di Cina e Turchia.
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