A quasi tre anni dal ridimensionamento dell’asse Est-Ovest del commercio internazionale europeo, causato dalle ripercussioni belliche sul settore agricolo, energetico e manifatturiero, la trasformazione dell’Italia in hub energetico mediterraneo stenta a decollare per via della fumosità dei progetti euro-africani.
Le consolidate difficoltà nello sviluppo economico e il crescente impatto del cambiamento climatico rischiano di far perdere risorse e investimenti internazionali al continente africano: secondo i dati del Gca (Global Center on Adaptation) la perdita ammonterebbe a sei trilioni di dollari entro il 2035 senza ulteriori finanziamenti per l’adattamento climatico.
Sono aspetti che influiscono negativamente sui progetti di partenariato europei e denotano un difficile equilibrio tra sostenibilità, resilienza climatica e sviluppo economico nel continente. Per l’Europa, l’accesso alle fondamentali risorse minerarie dall’Africa è sempre più in bilico.
L’Europa cerca in Africa i minerali per la transizione green
Nel marzo 2024 la Commissione Europea ha elaborato una stima previsionale sulla domanda di materie prime critiche per cinque settori strategici dell’Ue: energie rinnovabili, mobilità elettrica, industria, tecnologie dell’informazione e della comunicazione, settore aerospaziale e della Difesa1.
Ne è emerso che la realizzazione dei progetti negli ambiti summenzionati sarà subordinata a un incremento della disponibilità di input di decine di milioni di tonnellate annue al 2030. In particolare, la richiesta di alluminio, rame, nichel e manganese aumenterà, rispettivamente, di 105, 68, 25 e 5.8 milioni di tonnellate nel 2030, rispetto al decennio 2020, arrivando in taluni casi a quadruplicare.
A ciò si aggiunge il predominio indiscusso della Cina nei processi di estrazione, assemblaggio e componentistica per la costruzione di pale eoliche, pannelli fotovoltaici, batterie e strumenti di robotica, la cui filiera produttiva continua ad essere largamente globalizzata e decentrata.
Se si congiunge questo dato con la constatazione che circa il 98% delle terre rare, il 47% della grafite naturale e il 93% del magnesio necessari per queste tecnologie continuano ad essere importate in Europa dalla Cina, siamo in grado di comprendere che il raggiungimento dell’indipendenza energetica (e quindi politica) da Pechino con una transizione green rappresenti allo stato attuale una velleità utopistica.
In risposta a queste esigenze è stato istituito il Global Gateway, un’iniziativa europea orientata alla promozione di connettività, infrastrutture e sostenibilità energetica attraverso partenariati con Paesi esteri. Nei rapporti Ue-Africa, è declinata nel Global Gateway Investment Package, di cui il piano Mattei costituisce una sorta di appendice, il quale prevede anche la costituzione di nuove catene di trasporto di materie prime con gli Stati africani.
I limiti dell’intesa tra l’Ue e i Paesi dell’Africa
Nonostante i successi degli accordi tra Stati Uniti, Europa, Angola, Zambia e Congo per la costruzione del Lobito Corridor, un’infrastruttura destinata a snodarsi per oltre 1.300 chilometri dalle coste angolesi fino alla Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e funzionale al trasporto di materie prime critiche, in particolare il cobalto (di cui il Congo copre il 70% della domanda mondiale), diversi interrogativi affliggono l’efficacia del progetto.
Innanzitutto la competizione con la Cina, prima firmataria di accordi con la Rdc e attualmente gestore della linea ferroviaria di Tazara, che collega lo Zambia al porto di Dar es Salaam sull’Oceano Indiano, coinvolgendo il Congo nel trasporto di minerali strategici, tra cui anche il rame. Qui, l’Europa rischia di giocare il ruolo secondario del partner di riserva.
Inoltre, l’Ue subordina i progetti finanziari al rispetto di standard ambientali e sociali piuttosto rigorosi, con particolare enfasi sui diritti umani. A tal riguardo è emerso da un’indagine di Amnesty International che l’espansione dei siti minerari congolesi di rame e cobalto ha causato, nel 2022, il trasferimento forzato di intere comunità, con aggressioni e violazioni umanitarie nella provincia meridionale di Lualaba.
Un aspetto destinato a tradursi in attriti tra la Ue e le istituzioni della Rdc, nonché in un evidente svantaggio competitivo con la Cina, i cui finanziamenti sono guidati da una spregiudicata politica di profitto a zero vincoli, più congeniale agli interessi delle èlite africane.
Un radicato sentimento antioccidentale e una altrettanto radicata dipendenza dall’export di idrocarburi contribuiscono a complicare ulteriormente i tasselli dell’intesa. Di fatto, la perdita di fiducia negli stessi modelli politici occidentali, in particolare democrazia e diritti, pone inquietanti interrogativi sul futuro della presenza europea nella regione, alla luce anche dei recenti colpi di stato in Burkina Faso, Mali e Niger, sostenuti attivamente dai mercenari russi della Wagner.
Questi sovrintendono a uno schema diretto ed efficace, fatto di protezione militare in cambio di diritti minerari, che sta emarginando la presenza occidentale nel Sahel a vantaggio della Russia, ponendo fine a quello che fino a poco tempo fa era definito “il cortile di casa francese”.
Un destino a cui non sembra sfuggire neanche la corteggiata Rdc, alla luce delle proteste contro le ambasciate di Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna a Kinshasa dello scorso febbraio. Queste erano motivate dallo sfruttamento delle risorse del Congo da parte dell’Occidente e sono potenzialmente esplosive in caso di rafforzamento di quella cooperazione infrastrutturale e mineraria che il Lobito Corridor sottende.
C’è poi da considerare che l’Africa, continuando a subordinare il proprio sviluppo all’esportazione di idrocarburi, non vede di buon occhio la fine del finanziamento massivo dell’Europa ai combustibili fossili. Un aspetto già evidenziato dall’ex presidente del Senegal, Macky Sall, nel suo discorso inaugurale del 2022 alla presidenza dell’Unione Africana.
Un’impasse in cui è incappato anche lo stesso piano Mattei, le cui linee di sviluppo, alla luce del summit Italia-Africa di gennaio 2024, stanno delineando una contraddizione sempre più marcata tra una spinta africana a partenariati incentrati sui combustibili fossili e l’impiego delle energie rinnovabili, previsto dai pilastri del documento.
Una direzione che sembra confermata dall’incontro del 20 luglio scorso tra il presidente della Repubblica del Congo, Denis Sassou N’Guesso e l’amministratore delegato di Eni per l’esportazione di gas liquefatto dal Paese.
La transizione verde e l’Africa: un rapporto complesso
È evidente che le caratteristiche peculiari dell’Africa impongano l’elaborazione di un piano più adatto ai suoi fragili equilibri e soprattutto più flessibile rispetto agli standard europei. Se gli accordi euro-africani non dovessero estendersi alle energie rinnovabili, non solo si vedrebbe tradito lo spirito originario del Global Gateway, ma anche la crescita degli Stati africani verrebbe messa a rischio dallo sviluppo irregolare prodotto dall’industria del greggio.
La stessa condizione che ha determinato l’aumento del tasso di povertà in Congo con l’apertura allo sfruttamento delle risorse petrolifere e, in prospettiva, il rafforzamento del sentimento antioccidentale emerso dalle recenti proteste. Viceversa, una piena transizione green frenerebbe la crescita privando i Paesi dell’indotto generato dall’export di idrocarburi.
Secondo l’African Climate Foundation, se il modello europeo del Cbam venisse esteso all’Africa, le esportazioni verso l’Europa dal continente diminuirebbero del 5.72%, con una decrescita del Pil dell’ 1.12% a causa della forte esposizione dell’economia africana ai Paesi Ue, a differenza di quella cinese o indiana.
Il regolamento Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism) prevede, al fine di ridurre le emissioni di gas serra nello spazio extra-Ue, l’applicazione di una tariffa sui beni importati proporzionale ai livelli di emissioni necessari a produrli.
Inoltre, si ravvisa un disallineamento tra il Global Gateway europeo e Il Piano Mattei. Solo il primo, infatti, prevede espressamente l’attuazione di partenariati orientati all’acquisizione di materie prime “critiche” (nichel, litio, terre rare, manganese, ecc..), essenziali per tecnologie green, semiconduttori e veicoli elettrici. Il secondo risponde più all’esigenza di approvvigionamento energetico e al contrasto all’immigrazione clandestina, rischiando così di esaurirsi in accordi centrati sui combustibili fossili.
Di conseguenza, se neppure il Global Gateway Investment Package dovesse avere successo in merito, l’auspicata direttrice Nord-Sud (sostitutiva della precedente Est-Ovest), potrebbe subire un’inaspettata deviazione verso l’Oceano Indiano, privilegiando i rapporti tra Europa, Medio Oriente, India e Indocina, con una rotazione angolare di 45°.
Immagine in evidenza: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Vertice_Italia_Africa_%2854%29.jpg