L’11 ottobre scorso, dopo quasi un decennio di monopolio italiano, il comando della missione Kosovo Force (Kfor) è passato dal comandante Michele Ristuccia, al generale Özkan Ulutaş. Nella cerimonia svoltasi al Camp Film City di Pristina un militare turco ha assunto, per la prima volta dal suo avvio nel 1999, le redini della missione Nato, dove il contingente inviato dalla Turchia risulta come il secondo più numeroso dopo quello italiano.
Per la presidenza di Recep Tayyip Erdoğan si è trattato di un piccolo traguardo, forse fautore di una lunga stagione della Kfor a guida turca. Sicuramente è stato il risultato degli sforzi portati avanti da Ankara nella parte occidentale della penisola balcanica, da almeno un ventennio al centro dei suoi progetti per (ri)guadagnare influenza su quelli che sono stati, per quasi mezzo millennio, tra i più fedeli sudditi dell’Impero ottomano.
Come si muove la Turchia nei Balcani
Quando nel 2008 Enver Hoxhaj, l’allora ministro dell’Educazione kossovaro, ricevette dal suo omologo turco, Hüseyin Çelik, la richiesta di rivedere – col fine di edulcorarle – certe considerazioni riguardo al periodo ottomano all’interno dei libri di scuola del Kosovo, la locuzione “neo-ottomanesimo” aveva da poco fatto breccia nel lessico della politica internazionale.
Ankara aveva infatti rimesso a punto la sua visione strategica dopo un periodo, quello della Guerra fredda, di introversione geopolitica. Invero, al tempo dell’Unione sovietica la Turchia si sentiva schiacciata sull’uscio di casa – decise di entrare nella Nato proprio a causa dell’aggressiva retorica di Stalin nei suoi confronti – soffrendo di un limitato raggio d’azione, oltre che di una politica interna che badava su tutto alla stabilità della Repubblica e a ricercare uno stile di vita “all’occidentale”.
Con l’avvicinarsi dell’unipolarismo, che mutò radicalmente la distribuzione del potere in Europa, e sulla scia dei principali eventi internazionali – dall’inizio delle guerre jugoslave alla distrazione americana in Medio Oriente – Ankara mise in discussione il suo assetto geopolitico, pensando fosse arrivato il momento opportuno per tornare in forze all’interno di quei quadranti una volta di sua centrale competenza, a cominciare dai Balcani.
L’occasione propizia giunse con le guerre nella ex Jugoslavia, dove la Turchia si impegnò attivamente dalla parte dei secessionisti, riconoscendo infine la loro statualità a scapito del progetto della grande Serbia del vozd Milošević.
Le comunità mussulmane in Bosnia, Albania e Kosovo – dove sono in tutti e tre i casi la maggioranza della popolazione – furono tra le più riconoscenti, certo in ragione dell’innata simpatia che produce la comune fede religiosa, che Ankara utilizza proprio come strumento di soft power, ma anche per le prospettive di una proficua cooperazione economica, che oggi conta numeri importanti.
Dalla firma degli accordi di libero scambio con tutti i neonati Paesi balcanici nei primi anni Duemila, le esportazioni turche sono passate da 1,2 a circa 22,5 miliardi di dollari nel 2022, mentre le importazioni sono aumentate da 1,6 a 10,3 miliardi.
Più nello specifico: Ankara è il secondo partner commerciale, dopo l’Unione europea, dell’Albania e del Kosovo. Sempre in questi due Paesi sono poi diretti la maggior parte degli investimenti turchi, sebbene nella maggior parte degli altri Stati della regione predominino ancora quelli cinesi ed europei.
Lo scambio commerciale tra la Serbia e la Turchia è stato invece di 1,7 miliardi di dollari nel 2021, raddoppiato dal 2017, uno dei più alti in assoluto. Coltivare ottimi rapporti con la Serbia, nonostante decisioni di politica estera percepite con ostilità da Belgrado (il riconoscimento dell’indipendenza Kosovo tra tutte), è rimasto nel tempo un punto fuori discussione per Ankara, che vede il Paese balcanico come un importante crocevia per la stabilità regionale e gli interessi turchi.
Negli anni varie visite di Stato si sono avvicendate. La penultima del Presidente Erdoğan nel settembre 2022 a Belgrado, dove si spinse a criticare la politica dell’Occidente nei confronti della Russia – da sempre sostenitrice delle istanze serbe – definendola “provocatoria”.
Questo legame speciale non è però passato inosservato da quelle parti dove non si ha un’ottima opinione della Serbia e del suo premier Aleksandar Vučić. Non per niente, dopo che il partito nazionalista Vetëvendosje (autodeterminazione) è andato al potere in Kosovo nel 2021, le relazioni tra Ankara e Pristina si sono relativamente deteriorate.
Il cerchiobottismo turco non dispiacque neanche al serbo Milorad Dodik, il presidente ultranazionalista a capo della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, le cui intenzioni dichiarate sono quelle di secedere per congiungersi a Belgrado. «Credo che Erdoğan sia naturalmente interessato a supportare ed aiutare i bosgnacchi, ma sono anche convinto dai diversi contatti che ho avuto con lui che non farebbe nulla alle spese degli altri popoli della Bosnia-Erzegovina», disse nel 2021 Dodik alla vigilia dell’incontro con Erdoğan ad Ankara.
Riguardo invece alla piccola Macedonia del Nord, dove vive una ristretta minoranza turca (circa il 4%), anche lì si distingue l’afflato culturale di Ankara, alimentato non tanto da commercio e investimenti, quanto da cooperazione in altre materie più sensibili al dato culturale. Le stesse al centro della dottrina della profondità strategica di Ahmet Davutoğlu, dal 2009 al 2014 ministro degli Esteri della Repubblica di Turchia. Colui che ha auspicato l’attuale ruolo di Ankara nel suo estero vicino.
Gli strumenti del soft power turco
Tra i vari instrumentum regni che Ankara ha messo a punto come corollario della sua revisione strategica a inizio anni Novanta, l’Agenzia turca per la cooperazione e la coordinazione (Tika) è forse quello più accurato in termini di risorse e ritorno dell’investimento.
Fu costituita nel gennaio del 1992 sotto la presidenza di Turgut Özal come agenzia tecnica internazionale sottoposta al controllo del Ministero degli Esteri, nel 1999, visto il suo ruolo crescente, passò sotto la diretta dipendenza del capo del governo.
L’istituto rafforza giorno dopo giorno la sua funzione intermediatrice nei compiti della politica estera turca in più di 140 Stati. Segnatamente alla promozione di una positiva immagine della Turchia nel mondo, l’agenzia facilita la cooperazione tra la Turchia e i Paesi interessati attraverso progetti in ambito economico, culturale ed educativo. Ne è un esempio, in Kosovo, la restaurazione di parte della moschea della cittadina di Prizren.
La costruzione o il restauro di edifici ad uso e consumo del grande pubblico pare sia il frutto della lezione impartita dalla Repubblica Popolare cinese nel continente africano, dove Pechino, oltre agli investimenti strategici, edifica anche immobili ben visibili e a scopo per lo più ricreativo, come stadi o centri culturali. Per una Paese come la Turchia, dalle risorse limitate rispetto al colosso cinese, pare sia la soluzione migliore in termini di costo opportunità.
Ad esempio, alcune di queste c.d. infrastrutture balcaniche con caratteristiche cinesi (ri)messe in piedi da Ankara sono la International university of Sarajevo (creata da imprenditori vicini all’Akp, il partito di Erdoğan) e la International burch university. Altri atenei sono poi stati aperti in Albania, Montenegro e Macedonia, mentre edifici di epoca ottomana sono stati restaurati un po’ dovunque. La Turchia è stata inoltre uno dei principali finanziatori della ricostruzione albanese dopo il terremoto del 2019.
Anche la grande moschea di Tirana, in stile ottomano e di gran lunga la più grande di tutti i Balcani, è stata quasi interamente finanziata dalla Turchia. Ora pressocché completata, fu annunciata nel 2014 dalla Presidenza turca degli affari religiosi (Diyanet), un’istituzione nata nel 1924 ma operante nei Balcani solo dal tempo delle guerre jugoslave, quando la solidarietà mussulmana nei confronti dei bosgnacchi e degli albanesi del Kosovo fu assunta a pieno titolo dalle autorità di Ankara.
Nel tempo, attraverso la Diyanet la Turchia è riuscita ad assumere anche un ruolo religioso preminente nella regione dei Balcani occidentali, soprattutto a seguito degli eventi dell’11 settembre 2001 quando i Paesi balcanici, sotto la pressione degli Stati Uniti, hanno ridotto considerevolmente il numero delle sigle religiose di matrice conservatrice, specialmente quelle finanziate e sostenute dall’Arabia Saudita.
In questo modo le organizzazioni religiose turche, tra cui la stessa Diyanet, hanno provveduto a colmare il vuoto istituzionale religioso creatosi nella regione. Alcuni compiti di questa istituzione sono quelli di sostenere finanziariamente decine di migliaia di musulmani dei Balcani per il loro pellegrinaggio alla Mecca, e distribuire borse di studio a imam e ad altri studiosi dell’islam per studiare in Turchia.
Chiude infine il cerchio degli enti culturali l’istituto Yunus Emre, dal famoso poeta turco vissuto nel medioevo. Fondato nel 2009 e diffuso con 62 centri in 52 Stati, promuove la lingua e la cultura turca nel mondo attraverso la stessa metodologia dell’istituto Goethe e di altri simili, riuscendo, solo in Bosnia ed Erzegovina, ad essere presente con ben tre sedi.
Da ultimo, ha assunto particolare rilievo il fenomeno delle serie televisive turche, che hanno preso piede anche in Italia con la famosa telenovela “Terra amara”. Gli sforzi in questo settore hanno reso Ankara ufficialmente il secondo Paese al mondo esportatore di serie Tv-dramma dopo gli Stati Uniti, riuscendo così a diffondere, in aree spesso caratterizzate da deboli strutture politiche – come può essere il caso dei Balcani – un modello socioculturale che faccia emergere la Turchia come punto di riferimento.
I limiti della spinta turca nei Balcani
Attraverso tutti questi strumenti e mettendo in conto anche il dato economico, Ankara ha col tempo impreziosito il suo ruolo di partner, tanto da poter fare anche pressioni sui governi locali. Ad esempio – com’è successo – pressandoli affinché chiudessero gli istituti ritenuti vicini a Fethullah Gülen, che il regime turco accusa di essere l’organizzatore del tentato golpe del 2016, nonché richiedendo di estradare i suoi sospetti attivisti.
Tuttavia, nonostante questi e altri risultati, dettati da enormi sforzi in un arco temporale relativamente stretto, l’influenza della Turchia nei Balcani rimane, per alcuni, ancora sottodimensionata rispetto ad altri contesti dove Ankara porta avanti con più spregiudicatezza la sua agenda neo-ottomana, anche attraverso un maggiore impiego dello strumento militare.
Il motivo sarebbe dato dal fatto che gli Stati della penisola balcanica si trovano molto vicini al sistema europeo, o in più di un caso sono assimilati al suo interno. In altre parole: gli Stati Uniti proteggono e tengono sotto controllo il Vecchio continente attraverso la deterrenza garantita dalla Nato.
Con l’Europa pilastro dell’egemonia statunitense nel globo, per il benestare di tutto il continente, l’area balcanica deve rimanere stabile e in sicurezza, e la Turchia contenuta nelle sue aspirazioni di potenza.
Nella regione mancherebbe dunque lo spazio per una politica estera sfrontata fatta di giochi di potere e divide et impera, come invece è la politica turca in Medio Oriente e in parte del continente africano. Ciò non toglie che, una volta indebolitosi il vincolo esterno, Ankara non possa pompare ulteriori forze nei Balcani, appoggiandosi a ciò che è riuscita a costruire con lungimiranza negli ultimi tre decenni.
Immagine in evidenza: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Revenge_map_for_Ottoman_Balkan_1914.jpg