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L’India frammentata: la tragedia di Manipur e il futuro delle comunità tribali

In India lo Stato di Manipur brucia a causa dei dissidi etnici. La convivenza delle genti diverse interne al Paese è sempre più difficile

La tragedia che si è consumata tra le strade di Manipur, Stato dell’India orientale, ha bruscamente risvegliato nella coscienza dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale le terribili conseguenze della discriminazione etnica. Un video gira dallo scorso maggio sulla rete e, in un luglio già di per sé caldo per la politica indiana, ha catturato anche l’attenzione del governo infestando i media locali.

Il video, girato presumibilmente nel distretto di Kangpokpi, mostra almeno due donne costrette a sfilare totalmente nude e aggredite da una folla inferocita di uomini. Le due donne, una ventenne e una quarantenne, hanno inoltre dichiarato ai media di aver subito in quell’occasione molestie sessuali: ai danni della più giovane delle due, come riportato dal quotidiano The Indian Express, si sarebbe addirittura consumato uno stupro di gruppo.

L’accaduto è il culmine di un’escalation di violenza sistematica in cui l’intera valle di Imphal, la capitale dello Stato, è messa da mesi a ferro e fuoco. La polizia sta indagando per assicurare i sospettati alla giustizia; tuttavia, dai racconti delle vittime all’Express parrebbe che gli agenti stessi abbiano consegnato incautamente le malcapitate ai suoi carnefici.

In rosso lo Stato di Manipur | da Wikimedia Commons

La sconvolgente notizia ha fatto il giro del mondo a causa della brutalità dei fatti e lo stesso Modi si è levato per condannare l’accaduto. Le cause di un evento tanto tragico sono da ricercarsi nella piaga che affligge i paesi del Golfo del Bengala, in primis il Myanmar, e che evidentemente non risparmia le regioni orientali dell’India: la discriminazione etnica e religiosa.

La marginalizzazione delle genti tribali nella mitologia indiana

Un passo indietro, prima di addentrarci nelle vicende dello scorso maggio, è necessario per inquadrare almeno in parte la condizione delle comunità tribali indiane e ricostruire quali processi mentali e culturali abbiano portato alla situazione a cui stiamo assistendo in questi giorni.

L’India orientale è da sempre abitata da una radicata varietà di comunità tribali, spesso completamente isolate dal resto della civiltà, stanziate principalmente in zone forestali. Negli antichi poemi epici della tradizione indù gli storici e gli studiosi moderni hanno visto riferimenti allegorici ai popoli tribali delle foreste.

Nel Mahabharata, ad esempio, il poema che narra storia della guerra tra le famiglie aristocratiche dei Kuru e dei Pandava a cui avrebbe partecipato Krishna stesso, si parla continuamente di popoli incontrati nelle zone più remote e isolate. La descrizione che si fa di queste comunità è spietata: di fatto sono demoni o creature antropomorfe semi-mostruose, rozze, con capelli rossicci e la pelle scura.

L’interpretazione di questi passi, non certo univoca, ha visto parte del mondo accademico concorde nel ritenere che i discendenti degli arya, popolo delle pianure dell’Asia centrale che avrebbe invaso l’India in un periodo protostorico che va dal 2500 al 1000 a.C., abbiano simbolicamente descritto nei poemi gli incontri con i popoli tribali indigeni. Il problema di questa interpretazione, tuttavia, è a monte: non vi è infatti ad oggi evidenza storica certa dell’invasione arya, e dunque non è possibile nemmeno parlare in maniera assoluta di popoli autoctoni e di popoli esterni al subcontinente.

Probabilmente si tratta di elementi mitologici, più che di simbolismi e allegorie, in cui la matrice razzista è più evidente nella chiave di lettura proposta dagli storici occidentali che nel poema stesso. In un’ottica altrettanto discutibile, si è letto in maniera analoga il presunto ruolo storico del “popolo delle scimmie” che compare nell’altro grande poema della letteratura epica indiana: il Ramayana.

Rappresentazione dei Vanara, il “popolo delle scimmie” che compare nel Ramayana | da WIkimedia Commons

Nel Ramayana si narrano le gesta del settimo avatara, l’incarnazione terrena di Vishnu, Rama appunto, e la vittoria sul signore dei demoni Ravana. Qui, va premesso, è innegabile un sottotesto allegorico, poiché la precisione con la quale si descrivono luoghi tra loro lontanissimi (come la città di Ayodhya, in Uttar Pradesh, e l’Isola di Lanka, l’odierno Sri Lanka) ed eventi presumibilmente pseudostorici fa pensare ad una effettiva mitizzazione della storia.

Questa caratteristica del poema ha proiettato nelle interpretazioni moderne le comunità tribali delle foreste dell’India orientale nel popolo di scimmie parlanti e guerriere che aiuta Rama nell’impresa di sconfiggere il proprio rivale demoniaco.

È difficile dire se vi sia davvero un intento allegorico nella narrazione del Ramayana volto a subordinare, pur in maniera benevola, un popolo indigeno e straniero che compare nel mito, spersonalizzato e addirittura reso zoomorfo. Le comunità tribali sono sempre state il ricettacolo perfetto nel quale teorie politiche e movimenti sociali o religiosi eterodossi hanno potuto trovare terreno fertile per maturare.

Alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, ispirati dagli ideali di marxisti e dalla leadership di Mao, un gruppo di ribelli guidò una rivolta di contadini nel remoto villaggio di Naxalbari, nel Bengala Occidentale. Ad oggi la lotta armata dei “naxaliti”, dal nome del villaggio appunto, è una minaccia costante nella regione e le ideologie maoiste negli anni hanno affascinato numerose tribù della regione in cerca di rivalsa sociale.


La terribile condizione dei dalit oggi e nell’India antica

I dalit, i cosiddetti “paria” o “fuori casta”, sono ad oggi circa il 25% della popolazione indiana. La condizione di queste persone è spesso degradante, di estrema povertà ed emarginazione sociale. Il sistema castale in India è profondamente radicato specialmente nelle aree rurali, è un modello che regola e ordina i ruoli sociali con gerarchie a volte piuttosto rigide.

Il sistema delle caste, che sarebbe più corretto chiamare varna (“colore”), compare nei Veda, l’antichissima fonte di conoscenza della tradizione brahmanica indù. Il proprio destino nella comunità veniva assegnato alla nascita, e l’ascensore sociale era pressoché inesistente o quasi immobile.

I servi erano ai piedi della piramide, sulla quale troneggiava la casta dei sacerdoti: i brahmani. La condizione dei servi, tuttavia, era ben più dignitosa di quella che spettava ai reietti, agli emarginati e, appunto, agli stranieri delle tribù. I dalit, dunque, erano persino fuori dalla piramide sociale, e hanno sempre dovuto fare i conti con tutte le discriminazioni che una tale posizione comporta.

Una protesta dei Daliti per chiedere l’abolizione del sistema castale (2015) | da Wikimedia Commons

Sempre, poiché il sistema castale, sebbene ammorbidito e a volte anche evirato delle implicazioni religiose originali, non è mai sparito dalla cultura indiana, specialmente dalle campagne, dove certi schemi si adattano con più fatica ai tempi e alle politiche contemporanee.

Un censimento del 2011, proposto da Times of India e ancora attuale, registra un dato interessante. I dalit parrebbero concentrarsi negli stati del Bihar, dell’Uttar Pradesh, del Tamil e del Bengala Occidentale. Il sottotesto di questo dato fa intuire come, essendo questi stati quelli dove si concentra la maggior parte delle comunità tribali indiane, vi sia un chiaro legame tra la condizione di paria e l’appartenenza ad un gruppo tribale. I dati moderni sono stati anche la naturale conseguenza dell’inasprimento della discriminazione etnica che ha colpito gli indiani durante e dopo il periodo coloniale.

L’idea di un’India unita, pur anche lontana dalle ideologie nazionaliste più estreme, è un miraggio e la dominazione britannica non ha fatto che contribuire a diffondere nelle menti degli indiani forme di discriminazione verso gli indiani stessi. Il meccanismo di difesa durante il periodo coloniale era proprio quello di andare a colpire, anche ideologicamente (con la teoria dell’invasione arya appunto), gli indiani che meno si adattavano al modello imposto dal regime coloniale, come i fuori casta e le comunità tribali.

Un altro fattore che ci aiuta a ricostruire le cause della vicenda di Manipur è sottolineare l’influenza della cultura occidentale sulle comunità emarginate in campo religioso. Numerose tribù tra le quali i Khasi e gli Oraon, si sono, più o meno spontaneamente, convertite al cristianesimo ricercando il riscatto sociale che i valori cristiani propongono.

Sebbene vi siano anche delle ragioni pratiche, come la flessibilità sul cibo rispetto all’induismo, l’appeal generato dalla religione cristiana su queste comunità si deve soprattutto all’idea di progresso e uguaglianza, valori senza dubbio cari a popoli emarginati e spesso privati della propria dignità.

I fatti di Manipur: etnie e religioni divise, con lo spettro cinese sullo sfondo

Tre grandi gruppi etnici vivono nello stato di Manipur: più della metà sono Meitei, mentre il restante 40% è Kuki o Naga. I Meitei sono prevalentemente indù e controllano la maggior parte delle terre, avendo di fatto una rappresentanza quasi egemonica nei governi locali.

Al contrario, i Kuki sono in maggioranza cristiani e faticano ad ottenere lo status di comunità tribale che almeno potrebbe permettergli di rivendicare una rappresentanza e comprare alcune terre. Lo scontro tra le milizie di questi gruppi è sempre stato feroce, ma negli ultimi tempi quello tra i Meitei e i Kuki ha lasciato una scia di sangue senza precedenti.

Alcune donne di etnia Kuki | da Wikimedia Commons

Mentre l’esercito cerca di tamponare i danni di una vera e propria guerra civile con scarsi risultati, le forze paramilitari dei rispettivi gruppi etnici hanno compiuto una vera e propria mattanza dallo scorso maggio ad oggi: circa 130 persone hanno perso la vita e oltre 400 persone sono state ferite nei vari scontri.

Alle vittime sia aggiungono i danni al patrimonio culturale e civile della regione, che ha visto bruciare centinaia di chiese, templi e addirittura interi villaggi durante le violente rappresaglie dell’uno o dell’altro gruppo etnico contro i propri rivali. Il tutto è culminato con le immagini del video in questione, che comunque restano solo una parte marginale delle brutalità compiute negli scontri.

Sull’India è stata “gettata vergogna”, queste le parole del Primo Ministro e leader del BJP, ed è lecito aspettarsi l’intervento di un numero consistente di forze armate per arginare le tensioni che sono esplose nella regione. La critica dell’opposizione al “silenzio” del governo attuale sull’accaduto, reo di non aver agito preventivamente a tutela delle minoranze tribali locali, non si è fatta attendere.

È un momento difficile per Modi sul fronte interno: il Pm deve infatti arginare la minacciosa maxi-alleanza che i partiti di opposizione hanno stretto in questi giorni. L’acronimo I.N.D.I.A., che sta per Indian National Democratic Inclusive Alliance, è stato simbolicamente scelto per questa coalizione che racchiude praticamente tutte le forze che non sono al governo.

La risposta poco tempestiva e la negligenza nel prevenire le violenze sono tra le accuse mosse al governo. Diventa difficile per Modi correre ai ripari se si pensa che appena tre settimane fa, durante la visita negli Stati Uniti, il PM sosteneva che in India non vi fossero discriminazioni ai danni dei cristiani.

L’Arcivescovo Mar Joseph Pamplany della Chiesa Cattolica sino-malabarese aveva risposto a questa affermazione, come riportato dal Millennium Post, proprio mettendo in luce la difficile situazione dei Kuki nel nord-est dell’india. Le rassicurazioni di Modi si sono scontrate con una realtà che preoccupa sul fronte interno e anche su quello internazionale, a causa dell’importanza strategica dell’appendice orientale dello Stato indiano.

Va tenuto presente che secondo gli analisti indiani una delle manovre cinesi per indebolire l’India è quella di tagliare lungo il corridoio di Siliguri. Questa striscia di terra circondata dal Bangladesh a sud e da Nepal e Bhutan a nord separa gli stati nord-orientali dell’India dal proprio nucleo peninsulare.

Qualora un’eventuale invasione cinese passasse per il corridoio, oltre 50 milioni di persone verrebbero isolate negli stati orientali dell’India rendendo poi estremamente complesso rispondere ad una tale manovra offensiva. Questa minaccia è remota ad oggi, ma le tensioni interne, se esasperate, potrebbero in futuro facilitare i piani cinesi ai danni di Delhi.


Il governo Modi deve agire tempestivamente, non solo con misure tanto importanti quanto simboliche, come l’elezione dell’attuale e prima Presidente della Repubblica di origini tribali, Draupadi Murmu. La discriminazione etnica e religiosa avvelena ancora l’India, ma Modi sa bene che per rivendicare il proprio ruolo e la propria forza il Paese ha bisogno di unità, oggi più che mai.

Immagine in evidenza: “DSC00475” by Tareq Salahuddin is licensed under CC BY 2.0.

Matteo Borgese

Nato a Roma nel 1996. Ho frequentato il Liceo Classico per poi proseguire in un percorso di crescita e studio delle discipline umanistiche che mi ha avvicinato sempre più alla filosofia orientale. Mi occupo del subcontinente indiano e di tutto quello che riguarda la cultura e la storia antica e contemporanea dell'India. Appassionato di storia delle religioni, di mistica e del rapporto tra l'uomo e il divino nella sua totalità, cerco di scorgere nella politica contemporanea gli echi delle dottrine filosofiche antiche.

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