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Spieghiamo a cosa serve la geopolitica

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Scopri Il ritorno delle guerre

L’ultimo numero della rivista di Aliseo, dedicato allo studio dei conflitti contemporanei. 14 analisi per capire come sono cambiate le guerre e perchè ci toccano da vicino

Lo stretto di Hormuz: radiografia di una “strozzatura” nella globalizzazione
Teatro dello scontro tra Usa e Iran. Per di qua passa un quarto del gas e un quinto del petrolio
stretto di Hormuz

Ogni giorno, dalle rovine dei castelli portoghesi delle isole di Qeshm e Hormuz, è possibile osservare le gigantesche petroliere che, attraversando l’omonimo stretto, fanno da tramite trai terminali di gas naturale e petrolio del Golfo Persico e i paesi utilizzatori. Il braccio di mare misura 45 chilometri nel suo punto più stretto, in corrispondenza dell’isola di Qeshm e il suo controllo è di vitale importanza negli equilibri della regione medio-orientale proprio per la grande quantità di risorse naturali che vi transita ogni giorno.

Dopo un secolo e mezzo di dominio portoghese, tra 1507 e 1662, le isole principali caddero nelle mani dell’Impero Savafide, passando per le mani dello Scià in quelle del paese degli Ayatollah. L’Iran, che non può prescindere dal mettere lo stretto al centro della sua strategia, occupa anche le tre isole Abu Musa, Grande Tunb e Piccola Tunb, nella zona settentrionale, dopo averle strappate nel 1971 alla sovranità inglese (attualmente le isole sono rivendicate anche dagli Emirati).

Hormuz di gas e petrolio

Attraverso l’esiguo corridoio di acque internazionali, nel 2018 sono passati ogni giorno 21 milioni di barili di petrolio, pari, su base annuale, a un quinto del consumo mondiale (un terzo degli interi trasporti marittimi di greggio). Aggiungendo le ingenti quantità di gas naturale (un quarto del fabbisogno mondiale), è chiaro che lo stretto di Hormuz è uno dei choke point più importanti del pianeta. Dal collo di bottiglia, le petroliere raggiungono l’Oceano Indiano per arrivare ai consumatori dell’estremo oriente (Cina, India, Giappone e Corea in primis) ma anche ai porti occidentali, passando attraverso il Golfo di Aden e poi per Suez.

Paesi come il Qatar, che fondano la propria economia sulle esportazioni di gas naturale liquefatto, sono fortemente legati alle sorti dello stretto. Un potenziale sbarramento dei traffici avrebbe un impatto fortissimo su moltissime delle economie globali, tagliando uno dei canali più importanti di approvvigionamento e determinando rialzi dei prezzi immediati a 150-175 dollari al barile. Le tensioni tra Iran e Usa nei giorni seguenti l’uccisione del generale Sulejmani, da sole furono in grado di rialzare il prezzo del petrolio fino a picchi del 3-5%, poi rientrati quasi totalmente nel corso della de-escalation.

La difficoltà di creare canali di diffusioni alternativi a causa del contesto geografico e politico, insieme alla ridotta spare capacity(capacità inutilizzata) del mercato attuale, fanno dello stretto di Hormuz uno snodo imprescindibile nella strategia di tutti gli attori internazionali, regionali e non. Nonostante la rivoluzione del petrolio shale, che negli ultimi anni ha trasformato l’America da consumatore a esportatore, anche i mercati occidentali potrebbero essere colpiti da un’interruzione del traffico nello stretto; l’Italia ad esempio, nel 2019 ha importato dal Medio Oriente (Iraq e Arabia Saudita), il 29,3% del petrolio utilizzato durante l’anno.

In seguito alle intenzioni di distensione dell’amministrazione Obama, la presidenza Trump ha deciso di riprendere la linea dura con Teheran, con un regime sanzionatorio che ha avuto pesanti ricadute sull’economia iraniana, annunciato dal ritiro dall’accordo Jcpoa sul nucleare, iniziando una politica di “massima pressione” sul paese degli Ayatollah. Il 20 giugno del 2019 la tensione si è acuita con l’abbattimento di un drone spia statunitense RO-4A, reo, a detta dell’Iran, di avere sconfinato nel suo spazio aereo. Il 20 luglio Teheran ha poi sequestrato, come reazione ad un’azione analoga a suo danno avvenuta a Gibilterra negli stessi giorni, la petroliera britannica Stena Impero mentre attraversava il collo di bottiglia.

All’interno di questo crescendo di tensioni, culminato con l’assedio dell’ambasciata USA di Baghdad e l’uccisione del Generale Sulejmani, si inquadra la crescente militarizzazione dello stretto. La mai risolta questione della navigazione da parte di navi americane nello stretto è ancora un fattore importante da valutare, dato che una complessa situazione di diritto del mare (né Teheran, né Washington hanno firmato  la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare) permette all’Iran, come paese costiero, di fare del passaggio nello stretto una questione di sicurezza nazionale e di avanzare persino pretese di interdire il traffico a vascelli da guerra americani.

Secondo il comando navale americano, solo negli ultimi 3 anni, si sono verificate decine di interazioni pericolose tra navi americane ed iraniane, alcune sfociate in potenziali crisi come l’arresto di 10 marinai americani nel 2016. Gli Stati Uniti, nel luglio del 2019, hanno risposto proponendo l’invio di forze internazionali per scortare la navigazione nello stretto di Hormuz, proposta rilanciata da Italia, Gran Bretagna e Danimarca dopo il sequestro della Stena Impero, paventando una missione di sole forze europee il cui destino dipende dai recenti sviluppi della situazione regionale.

Iran: una collettività appollaiata sullo stretto di Hormuz

Naturalmente il choke point di Hormuz è fondamentale nella strategia iraniana. L’Iran ha infatti grande capacità(almeno potenziale) di interdizione sullo stretto, che potrebbe essere esposto ad eventuali attacchi con una temporanea chiusura del traffico. Nel contesto della sua strategia di guerra navale asimmetrica, Teheran ha puntato molto sullo sviluppo di sistemi arma eterogenei, come mine marine, agili imbarcazioni con o senza equipaggio e sottomarini leggeri, il tutto ovviamente sotto l’ombrello dei letali missili iraniani, vera eccellenza delle forze armate persiane.

Il Mit (Massachusetts Institute of Technology) ha stimato che le sole operazioni di sminamento per riaprire lo stretto potrebbero durare dai 40 ai 120 giorni. Lo stop ai traffici, secondo un rapporto del Nasdaq del 2012 potrebbe portare il prezzo del greggio fino alle cifre allucinanti di 440 dollari al barile, con ovvie conseguenze sui mercati globali oltre che sulle economie che vivono del petrolio del Golfo – anche se è da notare che il rapporto non tiene conto del raggiungimento dell’autonomia da parte USA.

Altra arma a disposizione di Teheran è quella di utilizzare la compagnia nazionale esportatrice di petrolio, la Nioc, per contrabbandare illegalmente il petrolio, vendendolo ad un prezzo di favore ai mercati asiatici e alterando delicati equilibri commerciali (si stima che la Nioc possa vendere ad un prezzo intorno ai 50 dollari a barile). L’Iran, che già nel 2012 aveva fatto pesante ricorso a questo tipo di scappatoia contro le pesanti sanzioni americane, non ha mai cessato di utilizzarla, anche se le sanzioni dell’amministrazione Trump potrebbero avere come risultato quello di implementare questa pratica e forse(almeno secondo il fronte ribassista dei bullish) è proprio a questa pratica che si deve la diminuzione delle esportazioni ufficiali di greggio dall’Iran negli ultimi due anni.

Alle possibili limitazioni sulla navigazione americana nello stretto si potrebbero aggiungere degli “inviti” alle marine russa e cinese. Un precedente sono gli sviluppi dell’operazione Cintura di Sicurezza marina, svoltasi tra 27 e 30 dicembre di quest’anno nel Golfo dell’Oman (pochi km oltre lo stretto di Hormuz) che ha visto la partecipazione di imbarcazioni cinesi e della Federazione russa. Lo specchio d’acqua risulta inoltre utile alla duplice funzione di proiezione delle forze armate iraniane verso altri contesti (come fatto in Oman durante gli anni ’70) e di prima linea di difesa in caso di invasione. La mira mai accantonata di Teheran di qualificarsi come egemone della regione e contraltare all’ingerenza USA passa per il raggiungimento della condizione di decidere sul chi possa o meno attraversare lo stretto, con la possibilità di tendere agguati alle imbarcazioni ostili – condizione che non è al momento quella di Teheran e che genererebbe sicuramente una reazione militare imponente da parte americana.

Allo stesso modo di come rappresenta un moltiplicatore di potenza, tuttavia, lo stretto di Hormuz è anche un limite ed una vulnerabilità per l’Iran. La quasi totalità delle infrastrutture marittime iraniane si trova nello stretto, con l’eccezione della costruzione del grande porto di Chabadar nel mare di Oman, che tuttavia risulta ancora in costruzione. Il commercio del paese, sia in entrata che in uscita, è fortemente legato alle sorti dello stretto.

Il 55% delle importazioni passa per il porto di Bandar Abbas, il maggiore di quelli affacciati su Hormuz, cifra che sale all’80% se vengono conteggiate tutte le istallazioni portuali che potrebbero essere interessate da un eventuale blocco dei traffici. Se le conseguenze di una crisi nella regione portassero ad un escalation militare tale da rendere troppo pericolosa la navigazione attraverso il collo di bottiglia, la Repubblica islamica, potrebbe essere paradossalmente trai paesi più colpiti. In secondo luogo è da considerare che a essere colpiti molto duramente sarebbero anche dei partner di cui l’Iran non può fare a meno, in primis Cina e India, maggiori acquirenti insieme a Corea del Sud del greggio di Teheran.

La chiusura volontaria dello stretto non è che da considerarsi un’extrema ratio in un contesto in cui la sicurezza nazionale è direttamente minacciata. La situazione economica iraniana non è delle migliori in seguito alle sanzioni disposte nel 2018 dell’amministrazione Trump, cui si aggiungeranno quelle annunciate ieri dal responsabile del tesoro americano Steven Munchin.

Nonostante l’utilizzo dei canali non legali per la vendita del petrolio, le esportazioni hanno subito un calo importante. Il “cordone sanitario” finanziario inoltre rende molto difficili le transazioni economiche, che richiedono dei passaggi esterni in luoghi come Cipro e Dubai, scoraggiando la libera impresa. Aumento dei prezzi(nel caso dei generi alimentari addirittura del 62%) e delle disoccupazione sono stati certamente il risvolto più duro delle sanzioni americane, contribuendo a sclerotizzare un malessere sociale che proprio nella regione dello Hormogzan(quella dello stretto) si manifesta in tutta la sua problematicità.

La situazione mediorientale è fortemente complicata dall’intrecciarsi di interessi differenti intorno alle direttrici che attraversano il collo di bottiglia dello stretto di Hormuz, i cui traffici interessano nazioni distanti migliaia di chilometri. I precari equilibri della regione tuttavia, sebbene vessati dalle ataviche ostilità degli attori e dai sogni di egemonia regionale dei diversi contendenti, sembrano destinati a superare la crisi con cui si è aperto il 2020.

Eppure l’incertezza resta, complice la morte, avvenuta il 10 gennaio 2020, del Sultano dell’Oman Qabus, storicamente equidistante. L’unica cosa che è ragionevole affermare è che sono in molti a necessitare che il corridoio del Golfo resti aperto. Restano comunque diverse possibilità che potrebbero inficiarne il volume di traffico, né si sa quali potrebbero essere a lungo andare gli sviluppi della “massima pressione” americana ai danni del governo di Teheran, già in stato di allerta per la morte di Sulejmani e le tensioni nella capitale.

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Francesco Dalmazio Casini

Francesco Dalmazio Casini

Fondatore di Aliseo, archeologo redento, appassionato di studi strategici. Voglio raccontare la geopolitica, cercando di leggere tra le righe gli interessi di attori espliciti e meno espliciti. Credo che all'informazione italiana manchino due cose: il realismo e la capacità di prendersi un po' di tempo prima di raccontare quello che succede.

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