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MICHAIL JUR’EVIČ LERMONTOV, un eroe del suo tempo

“Io amo dubitare di tutto: questa disposizione della mente non è d’impaccio alla risolutezza del carattere, al contrario; per quanto mi concerne vado avanti più arditamente quando ignoro cosa mi attende. Nulla, infatti, può accadere di peggiore della morte, e la morte non si può evitare!”

La morte accompagnò come un’amante Michail Lermontov lungo l’intera durata della sua breve ma ricca permanenza sulla terra. Il poeta, uno degli astri più sfavillanti del firmamento del romanticismo russo, visse una vita romanzesca; trascorsa tra le valli selvagge e tenebrose del Caucaso – sua “patria dell’anima” – e i salotti aristocratici della Pietroburgo zarista.

Michail Jur’evič Lermontov nacque a Mosca nella notte tra il 2 e il 3 ottobre 1814 (secondo il vecchio calendario giuliano). Figlio di un amore travagliato e tumultuoso tra una giovane donna, Marija Michajlovna, appartenente all’alta aristocrazia russa e un affascinante, ma squattrinato, ex capitano dell’esercito russo: Jurij Petrovic Lermontov.

L’infanzia del poeta non fu delle più felice, conobbe precocemente il dolore e il peso della perdita, rimase orfano della madre all’età di due anni e successivamente venne affidato alle cure della nonna materna, Elizaveta Aleksèevna Arsen’eva, donna dalla forte personalità che non approvò mai il matrimonio della figlia.

“Io sono figlio della sofferenza. Mio padre | non conobbe requie fino alla morte. | Tra le lacrime si spense mia madre”.

Lermontov ricevette l’educazione tipica della nobiltà russa, dimostrando uno spiccato interesse per la matematica, la letteratura e la pittura; interessi che coltivò assiduamente lungo tutto il corso della sua vita. Anima dominata da un perenne turbamento e pervasa da un intimo anelito all’avventura, decise di iscriversi alla Scuola dei tenenti della Guardia e dei cadetti di cavalleria. Questi due anni furono per lui anni terribili, il suo temperamento passionale, creativo ed indisciplinato mal si conciliava con il ferreo e severo dettame della vita militare. La fine della scuola militare fu per Lermontov un immenso grido di libertà che esplicò in una lettera ad un’amica affermando: “Ora non scrivo più romanzi, li vivo”.

Il poeta e cavaliere si affacciò così al “gran mondo” con un duplice sentimento; da un lato entrò nella società dei salotti buoni pietroburghesi desideroso di dominarli e divenirne uno dei suoi più splendenti figli, dall’altro lato soffriva la futilità, la vacuità e la superficialità di questa società inadatta all’azione e povera spiritualmente. Il suo grido contro la società del proprio tempo si levò inaspettato e roboante quando, dopo la morte di Puškin, scrisse una commossa poesia: La morte del poeta. In tale

componimento, piangendo l’eroe del romanticismo russo, scagliò un efferato attacco: “Voi, turba di ambiziosi che circondate il trono, | carnefici della Gloria, della Libertà e del Genio! | Vi nascondete all’ombra della legge, | tacciono per voi giustizia e verità!”.

L’alta società russa lo ha sedotto, corrotto e deluso; come dirà, attraverso il suo alter ego Pečorin, nel capolavoro Un eroe del nostro tempo. “La mia anima è stata guastata dalla società, l’immaginazione è inquieta, il cuore insaziabile; tutto mi sembra poco: mi avvezzo altrettanto facilmente alla tristezza che al piacere e la mia vita diventa ogni giorno più vuota; mi è rimasta una sola risorsa: viaggiare”.

Solo lungo gli sconfinati territori del Caucaso la sua anima in perenne conflitto trovò requie, sellando il suo destriero si lascia abbracciare da un oblio fatto di vento, solitudine e profumi; per un’istante egli è libero, libero dai turbamenti, dai dilemmi, dalle costrizioni. Egli è un tutt’uno con il circostante e alienando sé stesso si ricongiunge in un materno abbraccio con la Natura.

“Tornato a casa sono montato in sella e mi sono lanciato al galoppo per la steppa; amo galoppare su un cavallo focoso attraverso l’erba alta contro il vento del deserto; aspiro avidamente l’aria profumata e punto lo sguardo verso la lontananza azzurrina, cercando di cogliere i contorni nebulosi degli oggetti che si fan via via sempre più distinti. Qualsiasi amarezza mi pesi sul cuore, qualsiasi inquietudine mi angosci il pensiero, tutto all’istante si disperde; l’anima si fa leggera, la stanchezza del corpo vince l’affanno della mente. Non v’è sguardo femminile che io non dimentichi alla vista dei monti selvosi illuminati dal sole meridionale, alla vista del cielo azzurro o ascoltando il rumore del torrente che precipita di roccia in roccia.”

L’indole malinconica, la sua incapacità di conciliare la propria scissione interiore, la propria inadeguatezza congenita, la propria propensione all’incertezza e al dubbio, lo condussero, unite ad una imperitura irrequietezza di spirito, verso una tensione costante in direzione del pericolo, un perenne duello con il destino che lo vedrà vinto dalla sua stessa spregiudicatezza e irresponsabilità, unico palliativo per una vita priva di senso in sé stessa e oscillante, come un pendolo, tra la noia di esistere e la volontà di essere altrove, al di là.

“Io sono come un marinaio nato e cresciuto sulla coperta di un brigantino pirata; la sua anima si è assuefatta alle tempeste e alle battaglie e, gettato a riva, egli si annoia e langue, insensibile alla bellezza del boschetto ombroso e al pacifico splendore del sole.”

di Lorenzo Della Corte

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