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Il nazionalismo indiano, da Savarkar all’era Modi

Il nazionalismo di Modi oscilla tra il presente democratico e le ombre di un passato fatto di estremismi

La parola “hindutva”, in sanscrito, indica l’insieme delle identità culturali, sociali e religiose che definiscono un nazionalista indù e nel secolo scorso è stata utilizzata nell’opera di propaganda di numerosi movimenti di estrema destra indiani. Vinayak Savarkar, uomo politico attivo nei primi decenni del ‘900, utilizzò la parola hindutva in un trattato politico in cui spiegava come l’identità nazionale indiana comprenda ogni cultura e religione che sia nata in India o sia a questa riconducibile nelle origini.

Con una visione insolitamente sincretica della cultura indù e delle tradizioni e religioni derivate da essa, sikhismo, buddhismo e jainismo in primis, Savarkar voleva accendere nella coscienza degli indiani, anche prima dell’indipendenza dal dominio britannico, un forte sentimento patriottico. Questo senso d’appartenenza nazionale è noto che sia stato fortemente influenzato dal fascismo di Mussolini che in quegli anni in Italia gettava le basi estetico-ideologiche per tutti i successivi fascismi, in Europa e nel mondo intero.

Sebbene il Congresso, partito moderato guidato da Nehru, abbia governato il paese negli ultimi 60 anni, gli indiani hanno ceduto al fascino della propaganda della destra conservatrice che di recente nel 2014 grazie alla vittoria di Narendra Modi, leader del BJP, ha assunto la guida del paese. Lo stesso Modi è cresciuto ispirato dall’ideologia di Savarkar e dal concetto di hindutva sin dall’infanzia e l’adolescenza in cui militava tra le fila dell’RSS, l’Organizzazione Nazionale di Volontari, un movimento paramilitare nazionalista dell’estrema destra indù che durante l’ascesa politica di Modi contava la preoccupante cifra di circa 5-6 milioni di membri.

L’RSS, il nemico islamico e la propaganda del BJP

Parallelamente a quanto avveniva nell’Italia fascista con i balilla, nel secolo scorso milioni di bambini indiani partecipavano a manifestazioni del movimento RSS nelle quali si svolgevano esercizi comuni all’aperto, parate paramilitari e venivano proposti discorsi nazionalisti ai membri dell’organizzazione. Attraverso una pressante opera di radicalizzazione, la volontà dei leader dell’RSS è divenuta nel tempo quella di trasformare in vero e proprio risentimento la ben nota diffidenza degli indù nei confronti delle comunità di musulmani indiani, da sempre numerose in tutto il subcontinente.

Va sottolineato infatti che nella percezione comune indiana l’imperialismo inglese è nulla se paragonato alla dominazione islamica, una ferita ancora aperta che tutt’ora divide i cittadini ed è causa di scontri molto violenti in particolare nel nord del paese. Nella regione settentrionale del Kashmir, prevalentemente abitata da musulmani indiani, la tensione è sempre stata alta tra le comunità di diversa fede religiosa ed è aumentata a dismisura quando Modi, nei primi giorni di governo, ha revocato la semi-autonomia alla regione imponendo un severo presidio militare per assicurare al BJP il controllo della zona.

Tutto ciò ha provocato sommosse durante le quali l’esercito ha ucciso numerosi civili, perlopiù musulmani, in operazioni successivamente mai condannate dal governo indiano. Da Primo Ministro Modi ha veicolato il sentimento di diffidenza verso l’Islam da un lato inasprendo le ostilità tra gli indiani indù e quelli musulmani, dall’altro favorendo la riscoperta dei valori tradizionali e della religione induista. Senza un vero e proprio piano di rilancio economico per il paese, egli è riuscito infatti a trasmettere l’idea di una rinascita indiana in cui ogni cittadino, senza più le scomode divisioni castali, fosse pervaso dall’hindutva, in cui fosse dunque fiero della propria identità nazionale, culturale e religiosa, da innalzare come baluardo contro i nemici ideologici e politici dell’India.

L’India degli ultimi nella visione di Modi

Dobbiamo dare atto a Modi delle imprese in tema di politica estera compiute in appena 8 anni di governo: dalla ferrea resistenza all’impunita fame di territori cinese alle – fino a qualche decennio fa impensabili – relazioni diplomatiche strette con le nazioni musulmane. Le capacità internazionali del settantunenne leader indiano però non sono l’unico motivo dell’ascesa inarrestabile del BJP, del quale l’ambizioso Modi si vede a capo per almeno altri 10 anni. La politica interna, populista e conservatrice, sembra al momento trascinare il sentimento della maggioranza degli elettori.

In un paese come l’india nulla può smuovere le coscienze quanto le politiche sociali. Nel 2020 un report del Fondo Monetario Internazionale (IMF) riportava che la povertà estrema è quasi del tutto scomparsa dal paese toccando la percentuale dello 0,8%, la più bassa negli ultimi 40 anni. Gli aiuti economici di sussistenza stanziati dal governo Modi durante la pandemia hanno senza dubbio contribuito a questo storico risultato. Un’altra recentissima grande vittoria del BJP è l’aver conquistato la carica più alta della nazione candidando una donna di origini tribali come Presidente della Repubblica Indiana.

Draupadi Murmu il 25 luglio ha infatti vinto le elezioni succedendo a R.N. Kovind come quindicesimo Presidente della Repubblica. Seconda donna a ricoprire la massima carica, è anche la prima di origini indigene. Murmu appartiene alla tribù dei Santals, una delle innumerevoli comunità tribali che abitano l’intero subcontinente, ed è nata in un piccolo villaggio nello stato di Orissa, nell’India Orientale. Dopo aver conseguito la laurea ha lavorato come insegnante di scuola per poi intraprendere la carriera politica alla fine degli anni ’90 nel BJP ed ha in seguito ricoperto il ruolo di Ministro dello Stato di Orissa per quattro anni impegnandosi nelle politiche ambientali e di sviluppo economico.

Le origini umili della neoeletta Presidente sono da inquadrare sicuramente come una mossa strategica del BJP, ma ci dicono molto sulla direzione più inclusiva che la politica indiana ha imboccato in tempi recenti. Un’altra parentesi dell’infanzia di Modi, ben nota e sottolineata spesso in India ma trascurata in Occidente, è legata alle origini castali del Primo Ministro: egli appartiene infatti ad uno dei livelli più bassi del complesso sistema di varna e jati – termini in sanscrito legati alla tradizione vedico-brahmanica più accurati rispetto alla loro traduzione in “caste” – e proviene da una famiglia di venditori di tè.

Appare dunque evidente come le anacronistiche divisioni castali e le discriminazioni che ne conseguono siano sempre meno adatte a compartecipare alla politica nazionalista di Modi e del suo partito, la cui ideologia per natura – come previsto da Savarkar – tende a unire sotto l’egida dell’orgoglio nazionale. In questo senso la cultura indù non può più essere un rigido costrutto dogmatico, ma deve fungere da collante per un’India che possa superare ogni concetto divisivo, millenario o moderno che sia, e in cui popolo sia finalmente unito e forte nell’hindutva.

Immagine in evidenza: “Howdy, Modi!” by The White House is marked with Public Domain Mark 1.0.

Matteo Borgese

Nato a Roma nel 1996. Ho frequentato il Liceo Classico per poi proseguire in un percorso di crescita e studio delle discipline umanistiche che mi ha avvicinato sempre più alla filosofia orientale. Mi occupo del subcontinente indiano e di tutto quello che riguarda la cultura e la storia antica e contemporanea dell'India. Appassionato di storia delle religioni, di mistica e del rapporto tra l'uomo e il divino nella sua totalità, cerco di scorgere nella politica contemporanea gli echi delle dottrine filosofiche antiche.

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